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Recensione Norberto Bobbio

Norberto Bobbio

Intervista

di Franco Manni
"diario"
4 maggio 2001


Nel 1992 sulla rivista Le Nuvole, a proposito dei comunisti, lei ha scritto un articolo intitolato Nè con loro nè senza di loro. Che cosa intendeva?
- Che soprattutto in una fase storica (nel dopoguerra e negli anni Cinquanta), pur non essendo comunisti - come io non ero - bisognava "fare i conti coi comunisti, ed io, specificamente, sul piano culturale. Nel mio libro più noto, Politica e cultura, che riuniva vari miei saggi usciti su riviste di cultura "militante" dal 1951 al 1955, il mio principale avversario filosofico era il comunista Galvano Della Volpe che aveva scritto un libro dal titolo emblematico e problematico: La libertà comunista. Io volevo difendere i diritti della cultura rispetto a quella aberrazione che i comunisti chiamavano "partiticità della cultura", e - più in generale - i diritti di libertà, che i comunisti erano portati a sottovalutare, a distorcere e a dileggiare... E' stato un dialogo, fatto da posizioni opposte, ma condotto in modo civile, nel quale è in seguito intervenuto non sprezzantemente, come era sua abitudine, anche Palmiro Togliatti, che scrisse su Rinascita un articolo firmato con lo pseudonimo (di cui ancora non conosco l'origine) di Roderigo di Castiglia. Io mi consideravo difensore del liberalismo nel senso più ampio, contro una feroce dittatura quale quella sovietica, che allungava le sue ombre ideologiche, anche nella nostra Italia. Però degli esponenti del Partito Comunista Italiano io parlo come di avversari e non come di nemici, e per questo atteggiamento sono stato recentemente accusato di "filocomunismo". In realtà noi (noi membri del Partito d'Azione), pur non essendo comunisti, eravamo da poco usciti da un'alleanza coi comunisti nella comune lotta antifascista.
Nel dopoguerra noi antifascisti ci sforzavamo di trovare nel comunismo tutti gli aspetti buoni che ci fosse possibile, ma ciò era dovuto al contesto politico di allora. Adesso, dopo la Caduta del Muro, è diverso. Per esempio oggi penso che, almeno sul piano teorico, le somiglianze tra comunismo e nazismo erano molte strette. Recentemente ho letto il libro di Paolo Bellinazzi, L'utopia reazionaria, che, con ampia documentazione, mostra che, in riferimento alla nota distinzione politilogica tra "società" e "comunità", sia il nazismo sia il comunismo fossero nel versante comunitarista e organicista. Mostra anche una chiara affinità tra alcuni concetti teorici di Carl Schmitt e di Gyorgy Lukàcs.
In una sua intervista recentemente pubblicata da la Repubblica (25 gennaio 2001), lei sembra equiparare il nazismo e il comunismo, e il giornale cattolico L'Avvenire l'ha commentata scrivendo «l'anziano filosofo cambia idea sul comunismo». Io obbbietto che, in base a tutto ciò che conosco, anche le gesta peggiori dello stalinismo non mi risultano avere il sadismo, il razzismo, lo schiavismo, la ferocia omicida verso i bambini, tutte cose presenti nel nazismo. Nessun gulag è stato come Treblinka o Auschwitz-Birkenau, luoghi dedicati allo sterminio totale di quanti vi entrassero. E poi, mentre il comunismo è lungi dal coincidere con lo stalinismo, perchè c'è un comunismo occidentale e non sovietico o cinese o cambogiano, il nazismo - invece - fu uno solo, quello occidentale hitleriano degli Anni Trenta e Quaranta.
- Anche Marco Revelli mi ha contestato l'equiparazione nazismocomunismo. Certamente c'è una differenza importante tra i due movimenti: magari usavano gli stessi mezzi atroci e disumani, ma mentre nel nazismo erano ugualmente condannabili sia i mezzi sia i fini, invece nel comunismo lo erano i mezzi non i fini, spesso nobili (liberazione dall'oppressione dei rapporti di lavoro, pari dignità sociale dei cittadini). In quell'intervista che mi ha citato, inoltre, non è venuto fuori bene il mio pensiero su Marx. Lì sembra risultare che Marx, come teorico, sia responsabile di tutto quanto - soprattutto sul piano pratico - è avvenuto in seguito. In realtà io non lo penso né in generale riguardo al rapporto tra teoria e pratica, né riguardo al caso specifico di Marx. Ciò che soprattutto volevo fare in quell'intervista era una sorta di "esame di coscienza", e dire che noi liberaldemocratici avevamo fatto un'alleanza tattica col comunismo, pur non condividendo né la sua ideologia né gran parte delle sue linee politiche.
Un'altra differenza significativa è che lei non ha mai avuto rapporti amichevoli con esponenti, non dico nazisti, ma neanche fascisti. Non è così?
- Certamente non ho avuto rapporti amichevoli con alcun gerarca del Pnf (Partito nazionale fascista). Invece durante gli anni universitari frequentavo amici come Vittorio Foa. Lui faceva il «giovane di studio» presso un avvocato quando è stato arrestato dai fascisti nel 1935, e anche io ero considerato "inviso". Ma Vittorio era un vero e proprio militante ed è stato in prigione fino al 1943». Anche un altro mio amico, Massimo Mila, rimase in prigione, anche se non così a lungo. Altri membri di quel gruppo giovanile furono dal fascismo condannati al confino, e altri ancora (tra cui io e Giulio Einaudi e altri) furono "ammoniti".
Invece lei ha avuto rapporti di dialogo e anche di amicizia con alcuni comunisti...
- Sì, su questo non c'è dubbio! Ho avuto polemiche coi comunisti, ma polemiche con persone con le quali era possibile dialogare. Con alcuni comunisti, poi, come Napolitano, Aldo Tortorella, Gian Carlo Pajetta e Pietro Ingrao ho avuto anche rapporti di stima reciproca e di amicizia vera e propria. Anche per questo, in diverse occasioni, sono stato accusato di "filocomunismo", proprio per aver accettato il dialogo con loro. Mi sono comportato in maniera diversa da Edgardo Sogno che, dopo aver combattuto i fascisti, finita la guerra si mise con lo stesso ardore a combattere i comunisti, che per lui erano la stessa cosa. Sogno costituì un gruppo chiamato Pace e Libertà che, tra le altre cose, contemplava anche un progetto di golpe per difendere l'Italia da quello che egli riteneva essere il pericolo comunista. Nel suo testamento Sogno ammette di avere fatto un tentativo di golpe. Perchè lui riteneva che i comunisti dovessero essere combattuti con le stesse armi con le quali aveva prima combattuto i fascisti. Io però non mi riconoscevo in una posizione del genere. Ho sempre detto e scritto che coi comunisti (parlo dei comunisti italiani) occorreva la persuasione e non la forza.
Parafrasando Benedetto Croce, le chiedo: cosa è vivo e cosa è morto del comunismo?
- Quando accadde in Cina quel fatto che suscitò orrore quasi dovunque, e cioè l'uso delle armi per fermare gli studenti che a piazza Tienanmen manifestavano il loro dissenso dal governo comunista cinese, io scrissi su La Stampa un articolo in cui dicevo che il comunismo era una "utopia capovolta", perché era un'utopia di liberazione degli esseri umani che si era capovolta nel suo contrario, e cioè nella costrizione e nell'oppressione degli esseri umani. Però, in quello stesso articolo, scrivevo anche che i motivi per i quali il comunismo era nato sono ancora vivi... scrivevo (Bobbio si fa portare l'articolo in oggetto e si mette a leggere): "Non basta fondare lo Stato di diritto liberale e democratico per risolvere i problemi da cui era nata, nel movimento del proletariato dei Paesi che avevano iniziato il processo di industrializzazione in forma selvaggia, e poi tra i contadini poveri del Terzo mondo, la "speranza della rivoluzione". In un mondo di spaventose ingiustizie, com'è ancora quello in cui sono condannati a vivere i poveri, i derelitti, gli schiacciati da irraggiungibili e apparentemente immodificabili grandi potentati economici, da cui dipendono quasi sempre i poteri politici, anche quelli formalmente democratici, il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita solo perchè è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere.
Sono in grado le democrazie che governano i Paesi più ricchi del mondo di risolvere i problemi che il comunismo non è riuscito a risolvere? Questo è il problema. Il comunismo storico è fallito, non discuto. Ma i problemi restano, proprio quegli stessi problemi che l'utopia comunista aveva additato e ritenuto fossero risolvibili. Questa è la ragione per cui è da stolti rallegrarsi della sconfitta e fregandosi le mani dalla contentezza dire: "L'avevamo sempre detto!". O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo «storico») abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia? La democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista? Quell'articolo mi valse poi un'aspra critica da parte di Ernesto Galli della Loggia.
Ma che cosa pensa, riguardo, appunto, alla soluzione di questi grandi problemi? Mi sembra che lei sia pessimista al proposito. Le cito un suo scritto, da Eguaglianza e Libertà, Einaudi, 1995, p. 41: "Dal pensiero utopico al pensiero rivoluzionario l'egualitarismo ha percorso un lungo tratto di strada: eppure la strada tra l'aspirazione e la realtà è sempre stata e continua ad essere tanto grande che, guardandosi attorno e indietro, qualsiasi persona assennata deve non solo seriamente dubitare se mai possa esser interamente colmata ma anche domandarsi se sia ragionevole il proporsi di colmarla". Non le sembra troppo pessimista?
- Mah! cosa vuole... forse sì, è comunque solo la frase di un libro... Però qui voglio ricordare che l'egualitarismo è una concenzione filosofica che porta al mondo delle api, allo svuotamento dell'individualità, come appare nei classici utopisti egalitaristi Bacone, Campanella e altri. Questo livellamento e questa spersonalizzazione sono poi il terreno adatto per la nascita del totalitarismo politico.
Lei sottolinea i pericoli dell'egualitarismo. Io però mi ricordo un passo del suo noto opuscolo Destra e Sinistra in cui ricordava quando era piccolo e andava d'estate in vacanza: lei, cittadino della buona borghesia, in campagna, ed osservava come i piccoli compagni di giochi, contadini, fossero tanto più poveri, e alcuni morivano per malattie, e lei, bambino, sentiva l'ingiustizia di questa cosa, di questa diseguaglianza.
- Sì, è vero. Però la ricerca dell'eguaglianza, almeno dal comunismo arrivato al potere, è stata sempre realizzata in maniera perversa, come livellamento coatto verso il basso, non come eguagliamento. Nel romanzo I Demoni
di Dostoevskij c'è un personaggio che ha ideali egalitari e che lo scrittore presenta in maniera ironica come uno che pensi semplicisticamente di "avere inventato l'eguaglianza".
Ma, al di là del comunismo giunto al potere non pensa che il comunismo occidentale, che non è giunto al potere, abbia anche contribuito positivamente per il miglioramento di quei grandi problemi di ingiustizia, che abbia influenzato in maniera notevole le conquiste in campo sindacale e i miglioramenti della legislazione sociale?
- Sì, certamente, è anche banale il dirlo. Però bisogna distinguere l'egualitarismo dell'eguagliamento. L'egualitarismo è una concezione filosofica organicistica ed è anche un tentativo portato avanti negli Stati dove il comunismo ha raggiunto il potere, concezione e tentativo che non approvano l'indipendenza e le peculiarità dell'individuo all'interno della società. L'eguagliamento è invece una tendenza e un movimento verso la riduzione delle differenze economiche esistenti tra gli individui e i gruppi sociali, tendenza e movimento presenti nel socialismo nel comunismo e anche altrove.
Dunque, per questa parte della questione, e cioè per il contributo dato anche dal comunismo alla riduzione delle ingiustizie sociali, mi sembra che lei non si definirebbe «anticomunista»...
- Certamente, anzi affermo, ripetendomi, di non essere mai stato comunista, ma anche di non essere mai stato anticomunista, nel senso in cui l'anticomunismo è inteso oggidì. E dico che le lotte per una maggiore eguaglianza sociale contro le ingiustizie così drammaticamente presenti nel mondo - lotte fatte non solo ma anche dai comunisti - sono state sacrosante.

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