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Recensione Nico Orengo

Nico Orengo

Dogana d'amore


Sullo sfondo il paesaggio del Ponente Ligure e della Costa Azzurra fra i Balzi Rossi e Antibes. In primo piano personaggi e luoghi di una irripetibile estate: Martino, il protagonista, un uomo che il destino ha voluto ai margini della vita, che perlustra con un battello appositamente attrezzato le acque davanti alla riviera fra Ventimiglia, i Balzi Rossi e Mentone e ripulisce il mare da petrolio, scarichi e sporco; Armida, una giovane suora incapace di sostenere il peso di una incerta vocazione che fa l'infermiera all'Ospedale Maggiore di Ventimiglia e ha assistito Martino dopo un brutto incidente di motocicletta; Margherita, l'antica innamorata di Martino ora ritrovata, che dopo il fallimento del matrimonio con un impiegato della Dogana di Genova, è tornata nella cittadina di origine e fa la maestra nella scuola elementare di Latte. Va inclusa anche, e considerata a pieno diritto uno dei poli su cui è costruito il sistema di interrelazione fra i personaggi, una trota, che si è sviata dalle sue dolci acque di origine, è finita in mare ed è stata salvata da Martino, evitando di morire d'asfissia nelle acque salate o di essere aggredita dai nuovi nemici che popolano gli anfratti rocciosi. E il mare appare come luogo di incanto e culla di malìa, donatore della creatura che nel suo mistero avvolge tutto e tutti. Sarà lei, pesce di luce e d’ombra, a legare i destini di Martino, Armida e Margherita; lei, con la sua ambigua e fascinosa presenza, a guidare la traversata, come in una fiaba o in un mito neoromantico, oltre il “deserto del disamore”, verso una nuova alba dei sentimenti, oltre le vittime di quel gioco della vita che chiamiamo amore. I quattro personaggi sono fatti molto più di gesti e comportamenti che di pensieri, sentimenti o profonda coscienza di sé. Essi sono scarsamente dotati di memoria e questo particolare è motivato anche narrativamente: Martino ha perso la memoria nell'incidente e ora risale a fatica le esperienze, procedendo a ritroso e zig-zag, come un pesce che risale la corrente; Armida ha lasciato il "mondo" facendosi suora e cerca di dimenticarlo, ma le resta, al confine tra passato e presente, il ricordo di un tentativo di suicidio che prefigura il suo prossimo destino e lo sbocco dell'amore "impossibile" per Martino; Margherita sta ricostruendo una vita e preferisce considerare il matrimonio fallito come una parentesi da dimenticare, e difatti noi ne sappiamo pressoché niente; la trota è, per sua natura, tutta istinto e niente memoria, non tenta di tornare al suo torrente, ricerca le sorgenti e le polle d'acqua dolce lungo la costa, si lascia proteggere da Martino e "addomesticare" da lui, accetta di vivere in un acquario, pacatamente, meno quando tenta a sua volta un suicidio. Quanto alle funzioni corporee, sappiamo che questi personaggi dormono, a volte soffrono di insonnia, mangiano, fanno l'amore, in alcuni casi con dolce abbandono, in altri con tensione, in altri con un turbamento profondo. Ma quel che colpisce, nella generale sobrietà della scrittura di questo romanzo, è la sistematicità e la minuziosa esattezza con cui veniamo informati di come e che cosa mangiano i personaggi. Di fronte a tanta e voluta ricchezza di informazioni, viene da domandarsi quale ne è la funzione, perché è importante che noi sappiamo che Martino per i suoi spuntini in mare si porta un fiasco d'acqua e uno di vino, un po' di pomodori, basilico e fichi, un filone di pane; in viaggio mangia olive, pane, pomodori e un pezzo di coniglio; che alla madre porta dall'orto fiori di zucca e quando pranza con lei mangiano patate, cipolle, olive nere e bevono mezzo fiasco di nostralino; e quando va a fare un picnic con Armida porta frittata di zucchine, pomodori, frutta, torta pasqualina e formaggio di capra e bevono vermentino e acqua minerale; quando la riceve a casa le offre acqua e menta e quando va con lei in gita in Francia sotto una pergola mangiano verdure, uova sode e formaggio e bevono Cote de Provence; quando pranza con Margherita mangiano cipolle ripiene, barbagiovanni, ricotta, zucca o verdure alla brace, bevono vermentino, rossese o Cote du Rhon, e pomodori in insalata, focaccia alle cipolle, gelati, pane e frutta e in mare con lei porta pomodori, uova sode, pesche e uva; quando infine pranza con la trota, divide con lei pane e formaggio e pane e gorgonzola. Questo straordinario sviluppo del tema del nutrimento ha nel libro una duplice funzione. Da una parte aggiunge una serie di particolari precisi (colori, profumi, fragranze, sodezze, freschezze e geometrie compositive da quadro di Cézanne), a una dimensione, che è peculiare e intensa nel libro e che è la dimensione ligure, in senso geografico e poetico a un tempo, con riferimento a una linea caratteristica e precisa della poesia italiana del Novecento. Alla costruzione di questo sfondo e di questi momenti lirici rievocativi contribuiscono anche le terse, essenziali descrizioni dei luoghi, delle atmosfere diurne e notturne, delle rocce, delle case, delle scalinate, degli alberi, dei fiori, delle insenature e distese marine, e le vibrazioni dell'aria, e i gesti e i movimenti dei personaggi, e le enumerazioni, fatte con lessico essenziale e tecnicamente preciso, delle specie marine, pesci e crostacei, alghe e molluschi, di tipi, parti e attrezzature delle imbarcazioni. Orengo, come sa chi ha letto le poesie di “Cartoline di mare”, ha una vena lirica molto felice, caratterizzata dalle rievocazioni minuziose e fiabesche di creature, ambienti, luoghi naturali. E a questi temi sa adattare una scrittura ben ritmata, flessibile, legata, armoniosa, arricchita da metafore preziose e funzionali.Ma l'insistenza sul nutrimento ha anche un'altra funzione. Da un punto di vista narrativo, sembra importante non tanto che i personaggi di questo romanzo mangino, quanto piuttosto quello che mangiano. Tanta insistenza sulla sobrietà, freschezza, genuinità naturale e nostrana dei cibi serve a conferire ai personaggi connotazioni di semplicità, naturalità, finezza interiore ed esteriore. Sono personaggi buoni, sempre bene intenzionati, più vittime che aggressori, quasi a una dimensione, come nelle fiabe, e quando il destino si accanisce contro di loro e provoca il dramma, quasi ci sembra una gratuita cattiveria.
Se la vena lirica di Orengo pare forte e originale, quella narrativa mi pare più fragile, qua e là quasi ingenua. La vicenda, che è nutrita di ricordi fiabeschi e anche di molti ricordi avventurosi e romanzeschi, si risolve in definitiva in un facile meccanismo di accoppiamenti e triangoli amorosi, procedimenti sostitutivi, scambi e pagamenti dei diritti di dogana: all'impossibile rapporto d'amore fra Martino e Armida si sostituisce il possibile rapporto d'amore fra Martino e Margherita, che diventa a sua volta impossibile per la presenza della trota (una specie di Armida reincarnata, svanita nel fondo di un pozzo e ricomparsa, svenuta e stordita, in una fontana d'acqua dolce presso una scogliera marina), che si risolve con la formazione di un nuovo rapporto impossibile, o possibile soltanto in dimensione fiabesca, quello fra Martino e la trota.
Romanzo esemplare per la freschezza della vena creativa che lo percorre, intuizione felicissima o meditata e profonda esperienza che sia, e per la semplicità della sua prosa straordinariamente incisiva, che coglie ed esprime senza fatica alcuna il mondo ora inquieto ora dolce dei moti dell’animo e della natura, “Dogana d’amore” segna la definitiva affermazione di uno dei talenti più significativi della narrativa italiana.

Gianpaolo Mazza (gianpaolo.mazza@virgilio.it )



Di gianpaolo.mazza

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