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Sicilia intima

Pirandello diceva che la lingua esprime il concetto, il dialetto il sentimento.


Leggendo l’ultimo lavoro di Sebastiano Burgaretta, “Sicilia intima”, uscito per i tipi di Emanuele Romeo, attraverso il dialetto siciliano e la cultura ad esso sottesa, profondamente studiati e rimeditati nel loro senso più profondo e autentico, si recupera quel rapporto viscerale con la propria terra, non sentimentale né folkloristico, ma denso di sentimento. Intimo, appunto.


Chi rinnega la cultura e la lingua della propria terra è uno sradicato, magari tecnologizzato e inserito a pieno titolo in questo mondo connesso dalla rete e sempre più globalizzato, ma sempre sradicato rimane. Abbiamo bisogno di ricerche, di saggi come quelli di Sebastiano Burgaretta per capire quanto siamo stati defraudati in questa corsa verso un futuro dimentico del passato.


Basta scorrere l’indice per rendersi conto che il campo di ricerca di un demologo, di un etnoantropologo quale ha dimostrato di essere Sebastiano Burgaretta col suo lavoro, è vasto e variegato: le feste negli Iblei, i canti della vendemmia, la poesia del legno, i pani e i dolci natalizi, la cultura del presepe, la raccolta e la lavorazione della mandorla, l’arte della cera…


Dopo anni di indifferenza nei confronti di certi studi, dopo certo disprezzo verso il retaggio dei nostri avi, ritenuto a torto un ostacolo nel cammino verso la modernizzazione della Sicilia, si assiste ad una stagione di recupero di quelli che vengono ormai definiti beni etnoantropologici: l’eredità culturale di un popolo è un bene, un valore da recuperare, tutelare, valorizzare e diffondere per permetterne la fruizione: basti pensare al revival delle feste religiose, alle varie sagre, ai presepi viventi, alle associazioni culturali che si occupano di dialetto e cultura popolare siciliana, come ad esempio il Centro Studi Turiddu Bella a Siracusa, sorto per volontà della figlia del noto cantastorie. È tutto un pullulare di iniziative che coinvolgono enti locali e privati, le scuole e semplici appassionati.


Naturalmente è necessario un approccio serio allo studio dell’etnoantropologia se non si vuole correre il rischio di fare sicilianismo di maniera e di offrire ai turisti o a chi si approccia per la prima volta alla nostra cultura una Sicilia superficiale e falsa.


Ho raggiunto telefonicamente Sebastiano Burgaretta per discutere con lui di Sicilia e cultura popolare e per chiedergli di commentare il senso di questo suo ultimo lavoro.


 


Come avrà notato leggendo la raccolta, gli argomenti scelti rifuggono da tutto quel ciarpame, quel becerume, quel folklorismo di maniera – tammureddi, fichidindia, marranzani, nastrini rossi – che è oleograficamente e turisticamente legato alla Sicilia, per appuntarsi invece sull’etnoantropologia, sul lavoro, sulla cultura materiale autenticamente siciliana, sull’ethos del nostro popolo che scaturisce dalla famiglia, dall’amicizia, dal rispetto della terra, tutti valori ancestrali, primigenii.


La cosa che balza all’occhio solo scorrendo l’indice del libro è la vastità e l’ampiezza degli argomenti trattati, che riflettono un’impressionante varietà di interessi: i fischietti, le feste popolari…


Il libro è formato da saggi e articoli pubblicati in passato su riviste e miscellanee, da testi per conferenze ed interventi per le Università, opportunamente rifusi, aggiornati, sottoposti ad un’operazione di editing che conferisse loro una costituzione unitaria, un filo conduttore.


Miguel de Unamuno parlava, icasticamente, di “tradizione eterna”: dal lavoro, dalla cultura materiale che è ordine mentale e armonia interiore nel suo rapporto con la natura e la materia, deriva l’attività artistica e creativa. Studiare le feste popolari, la preparazione dei pani dolci, la lavorazione del legno e della cera vuol dire richiamarsi a punti fermi, al radicamento dato dal rapporto tra le mani dell’uomo e il creato.


Studiare le tradizioni popolari, ciò che oggi si definisce local, è quindi una sorta di “antidoto” contro gli aspetti negativi della globalizzazione?


L’identità, il portato personale, il particolare, si contrappongono all’anonimato dilagante, che priva l’uomo della sua dignità e dignità. Internet, inglese, impresa… perché cercare fuori di noi i supporti alla nostra identità?


Il titolo del libro è “Sicilia intima”. Può spiegarci il senso di questo aggettivo?


L’intimità dev’essere intesa non in senso smanceroso o sentimentaloide, ma nel suo più profondo significato, quello di vicinanza, di recupero memoriale.


Tutto quello che agita il mondo è superficie, è la schiuma del mare, bianca, spumeggiante, rumorosa. Ma i tesori del mare, le madrepore, la madreperla, sono nelle sue profondità.


Il tesoro di un popolo sta nel recupero delle sue memorie, nel lavoro che è un inno alla libertà, alla dignità, ai rapporti umani.


Nonostante l’omologazione e la globalizzazione dilaganti, mi fa piacere non sentirla pessimista…


Il mondo non si ferma. L’evoluzione ha le sue tappe e io credo nel ceppo storico-memoriale e nel suo recupero. Bisogna accogliere gli input del proprio contesto storico-ambientale consapevoli che non è unico né assolutizzante. Questo deve essere tenuto presente in particolare dall’Occidente.


Cosa ne pensa dell’introduzione dell’insegnamento del dialetto nelle scuole?


Queste iniziative sono spesso frutto della cattiva coscienza, sono superfetazioni volontaristiche: pensiamo alle proverbiali porte di ferro costruite per Sant’Agata. Ciò nasce dall’abbandono dei contesti memoriali, dalla fuga da essi.


Se pensiamo ai nostri ragazzi, sono capaci di dialogare in inglese via Internet in Australia con dei perfetti estranei, ma non capiscono i nonni e gli zii che parlano in dialetto, che sono portatori di nozioni, di dati culturali “altri”.


Calvino diceva che gli anziani sono delle biblioteche ambulanti e che quando muoiono è come se andassero in fumo…


Il vero progresso è innestare le nuove conquiste sul legno duro, sul ceppo delle radici. Chi fa innesti lo sa. Una pianta innestata senza una base solida non vivrà a lungo.


Quello che mi colpisce è il suo sguardo universale che parte dalla ricerca su una realtà prettamente particolare, locale.


La ricerca demologica, etnologica, è una ricerca etica, una sfida: studiare e riportare alla luce dei faretti, dei lumicini. Quello che mi stupisce è una certa chiusura mentale, la gelosia e l’invidia che sono il tasto dolente del panorama letterario. Il nostro compito di studiosi, di poeti è portare benevolenza, apertura, vita e non fare un cattivo servizio facendosi portavoce del contrario.


Cosa legge Sebastiano Burgaretta?


Sparsi tra comò, comodino e mensole varie, ci sono vari libri degli argomenti più diversi: teologia e spiritualità, saggi letterari, poesia, etnoantropologia, politica, narrativa…


Cosa ne pensa della letteratura siciliana?


Certo si avverte la mancanza, oggi, di scrittori come Sciascia, ma noto la presenza di belle energie, specie per quanto riguarda la letteratura al femminile: Silvana La Spina, Silvana Grasso, Giovanna Giordano… pensiamo anche a Santo Piazzese, Matteo Collura. E su tutti giganteggia naturalmente Vincenzo Consolo.


Per quanto riguarda la poesia mi vengono in mente Nino De Vita, Biagio Guerrera…


Cosa ne pensa del fenomeno Camilleri?


Personalmente nutro delle riserve. Non discuto la bravura tecnica, ma la soluzione linguistica di Camilleri non è né parlata né letteraria, perché il suo siciliano è un ibrido, un luogo comune, il siciliano che ci si aspetterebbe da uno scrittore siciliano. Purtroppo questo accade anche nel caso di molti cineasti: negli anni ’60 impazzavano i film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, recitati in un palermitano dalla pronuncia strascicata che non corrisponde alla realtà linguistica. Faenza, per esempio, pur avendo ricostruito delle atmosfere fedeli ai testi portati sullo schermo, ha fatto parlare i catanesi come dei palermitani: un falso storico. Altro è lo sperimentalismo di Ripellino o di Lucio Piccolo.


Maria Lucia Riccioli alias Elizabeth Bennet


www.marialuciariccioli.splinder.com

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