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Recensione Mario Fresa

Mario Fresa

Su Alluminio di Mario Fresa

 (saggio apparso sulla rivista «Gradiva», New York, nn.35-36, Spring- Fall 2009)

L’esergo da Ugo da Massa, “Ma quanta gioia pare ’l mio tormento”, ci introduce perfettamente nel clima ossimorico, nell’ambient eracliteo della sfuggente, affascinante, inquietante poesia del salernitano Mario Fresa. Leggendone i versi, come abbagliati dal lucore del suo riflesso, sembra di scivolare sull’alluminio che dà il titolo alla raccolta: quell’alluminio che è uno degli elementi più presenti in natura, sebbene non allo stato puro, elastico e malleabile, ottimo conduttore elettrico. E così i versi di Fresa conducono un’energia che plasticamente sembra stemperarsi in un’aria rarefatta (“aria fine” che rende allegri; p. 24), cilestrina, liscia come alluminio, appunto.

L’unità degli opposti si dà fin dal primo verso, con quel sostare presso il fiume che, a sua volta, come per il filosofo di Efeso, è emblema del movimento e del divenire, e poco dopo leggiamo di un “mutamento dell’adagio”; nella stessa direzione ossimorica vanno il “riposa” seguito da una “rincorsa” alla pagina successiva e i “gesti prosciugati” o quella seta che “fascia i gesti” (p. 15: e, in mezzo, una “luce pietrificata”): sul gesto, declinato spesso al plurale, si torna continuamente, ma come colto in un fermo-immagine, in modo da percepirne la dinamicità, ma come raffreddata, sottratta al suo compimento e scomparire, eternata, cristallizzata (e anche quella del cristallo è immagine che torna almeno più volte; v. p. es. pp. 14 e 19). È l’impressione che in fondo danno le due pitture di Umberto Boccioni scelte l’una per la copertina e l’altra riprodotta all’interno: Elasticità (1912) e Dinamismo di un foot-baller (1913): non è un ossimoro rendere elasticità e dinamismo nell’arte statica della pittura? Non è un mettere in discussione le categorie consuete con le quali ci orientiamo nel mondo, come fa la poesia di Fresa? Operazione che viene rafforzata anche nell’uso insistito della sinestesia: “Luce notturna” (p. 16), “lacrime sonore” (p. 19), “rumori incandescenti” (p. 20), “rumori oscuri” (p. 22: e qui con effetto dissonante rispetto all’esempio precedente).

Ossimoro o sinestesia è un modo per ricongiungere, unire ciò che nel moto incessante pare smembrarsi e (di)sperdersi: non scrive infatti il poeta, quasi a vaccino e profilassi, che “si rimava e si cuciva” poco prima di annotare che “si apriva il divenire”? (p. 25). E c’è anche, in modo ambivalente, un fascino del richiamo all’inorganico: “Eppure, siamo partiti come naufraghi / odorosi di paura; noi, con la testa / invasa dallo schianto, / lo sguardo che traboccava intero / sulla voragine di ciò che attendevamo, di ciò che temevamo” (p. 24). C’è un’attivazione dei sensi, qui lo sguardo o la vista, altrove il tatto con una ricorrenza di mani e dita, come a voler fermare in modo rassicurante la realtà, con una richiesta continua di “carezze”, e nel “viaggio che scava” trovare una meta: “Ma come sganciarsi da questa larga trama / cucita a moscacieca, / come uscire dalle crepe sfavillanti di sale, / scavalcare le mura della notte?” (p. 22). Una meta che, nel divenire, si delinea come soglia definitiva: “c’era l’immensa porta che inghiottiva i nostri passi” (p. 13); però, ripeto, si ripresenta costante l’istanza immobilizzatrice: “e nel tremore vano della pace / si è fermato il precipizio” (p. 19). In tutto questo, una verità non si dà, si annega nel segreto, e restano solo le “labbra mute” (p. 29): “Io non ho più parole; / la mia lingua è nella spada” (p. 19), scrive Fresa con riferimento al Macbeth di Shakespeare, ma pensando soprattutto, come specifica l’autore in nota, alla musica di Verdi.

Non resta che inseguire ombre, in un mondo pre-categoriale, come giustamente rileva Mario Santagostini nella prefazione, nel quale, viene osservato, non si distingue fra sogno e desiderio, memoria e immaginazione, in “un coacervo indistinto di sensi e memoria” (p. 7). Ombre inseguite nell’ombra della notte e del sonno, possiamo aggiungere: “Il sonno bagna il tuo respiro che si è appena percepito / dentro l’ombra: piano risale il gesto / avvolto dall’assillo dei fondali” (p. 18); ma: “Nell’odore del dormiente ci sono ricci / della lingua sconosciuta / e c’è l’obliquo amore / di chi sorride nella notte / della rincorsa vera” (p. 14).

E se qui c’è appunto il mondo pre-categoriale del sogno, esso è anche la sede del desiderio che si dispiega, più che nell’ordine del giorno, nel notturno caos sorridente dove troviamo qualcosa di più vero. E ne “l’obliquo amore”, in questa sua ambigua e/o ambivalente percezione, riassaporiamo il gusto agrodolce dell’assunto espresso nell’esergo iniziale, di un sentimento che si traduce nel suo opposto, di un tormento che si fa gioia, come in una nietzscheana piena assunzione della tragica essenza del mondo che per il filosofo tedesco si ritraduceva, dionisiacamente, nella voluttà della volontà di potenza come risposta positiva di fronte all’incessante divenire della realtà: e nel rapporto fra apollineo e dionisiaco cos’altro se non cogliere il tentativo di eternare ciò che pure incessantemente scorre?

Enzo Rega

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