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Recensione Ferdinando Camon

Ferdinando Camon

La mia stirpe

Ferdinando Camon La mia stirpe
Ferdinando Camon La mia stirpe

Grazie alla stirpe c’è l’immortalità
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Si arriva a un momento della vita in cui, ricollegandosi idealmente al passato, si cerca di dare una soluzione all’eterno problema di ogni essere umano, cioè si aspira a che ci sia una continuità, a che resti una traccia di noi per il tempo in cui non ci saremo più.
Camon, nella dolorosa circostanza della grave malattia che colpisce il padre, cerca questo filo ideale che si perpetua nei secoli, così che ognuno di noi esiste perché qualcun altro è venuto prima e di lui portiamo segni inequivocabili, una parte del dna che accomuna i bisnonni ai nonni, ai figli dei nonni, cioè i nostri genitori, noi e i nostri discendenti, un segno indelebile, incancellabile che insieme costituisce traccia e presenza anche quando la nostra vita sarà cessata.
Il suo è un racconto in prima persona, in cui la figura paterna assume una dimensione quasi mistica e se in Un altare per la madre proprio il padre aveva elevato, con commosso omaggio, un’ara a perenne e perpetuo ricordo dell’amata scomparsa, in questo libro lo scrittore padovano diventa l’officiante di una liturgia commemorativa della figura del genitore, più presente nelle prime pagine, assente nominalmente nelle ultime, anche se sempre aleggia la sua personalità, perché la vita è così, perché di chi ci lascia portiamo in noi, oltre che la memoria, alcuni tratti distintivi, così che di ognuno possiamo dire che è parte di una determinata stirpe.
E Camon, che non induce a una facile commozione, è particolarmente toccante quando, memore di una caratteristica familiare (la cisti che prima o poi cresce in testa), ogni volta che incontra le nipotine e ne accarezza i capelli, tasta per percepire se anche nel loro caso si annunci la piccola protuberanza.
Nella narrativa di questo scrittore le nascite e le morti appaiono per quel che sono, cioè un ciclo naturale a cui è impossibile sfuggire, e quindi, per quanto ami il padre, è perfettamente consapevole dell’ineluttabilità del destino, riuscendo anche a gestire un passaggio, che se pur normalissimo è comunque doloroso per chi vi assiste, con una sottile vena di distaccata ironia che, mano mano che le pagine si susseguono, assume anche note piuttosto marcate, con divagazioni, ma non fuori tema, sull’epoca attuale.
Il padre proveniva da quella civiltà contadina, ora scomparsa, avara di ricchezze materiali, ma solida di sentimenti, mentre ora, che abbiamo tutto a portata di mano, avvertiamo un continuo vuoto dentro.
Il libro cresce soprattutto dalla seconda metà in poi, con i capitoli dedicati all’incontro con il Papa in Vaticano, un Benedetto XVI letteralmente fotografato dalla mano dello scrittore, e con il viaggio in treno a Venezia con le due nipotine. Nello scompartimento della carrozza ferroviaria la serena innocenza di una bimba di sette anni, disarmante nelle sue affermazioni, riporta a un candore che il ricevimento in Vaticano ha solo sfiorato, e, nel suo modo pur infantile di ragionare, segue una logica che, con le dovute considerazioni riguardo all’età, è un po’ quella adottata da Camon in questo libro: la sincerità, la completa e totale sincerità dell’autore che più che in ogni altra sua opera deve essere se stesso, per raccontarci quello che lui prova.
E in effetti appaiono del tutto naturali l’apprensione per la sorte del padre, la disperazione di non poter esaudire la richiesta del genitore di vedere il pontefice (ma all’incontro con il Papa ci sarà anche lui, sia pure in fotografia), l’emozione di trovarsi di fronte al rappresentante di Dio in terra, la certezza di essere un anello di una catena che lega indissolubilmente una stirpe.
E il finale è un tocco di grazia che illumina come un alone mistico tutta l’opera, con quel movimento della testa destra-sinistra della bimba che le accentua la somiglianza con la madre, già defunta, dell’autore.
Non vado oltre, perché le righe che seguono e chiudono il libro sono congiuntamente un commosso ricordo della genitrice e la raggiunta convinzione che anche post mortem qualcosa di lui resterà, magari con una rinascita dal ventre di quella bimba.
La mia stirpe è il racconto appassionato di un credente che aspira a un’immortalità terrena grazie alla stirpe di cui è parte; è forse un sogno a occhi aperti, ma credetemi se vi dico che è un bellissimo sogno.

Di Renzo.Montagnoli

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