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Recensione Luisito Bianchi

Luisito Bianchi

Il seminarista

Luisito Bianchi Il seminarista
Luisito Bianchi Il seminarista

La vocazione e la Resistenza
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“ La sofferenza del mondo stava identificandosi con la sua sottana e la sua sottana con Dio e Dio con la sofferenza del mondo. Il cerchio si chiudeva, senza possibilità di scappatoie. Lui non sapeva chi era Dio ma non c’erano dubbi che Dio lo poteva trovare solo nella sofferenza del mondo. Lui non sapeva che significasse farsi prete, ma era altrettanto certo che, senza la sofferenza del mondo, non c’era nessuna ragione per farsi prete.”

Scritto nella prima metà degli anni ’70, come testimoniano le agende che riportano la prima stesura, e fino a poco tempo fa inedito, Il seminarista è pubblicato, in accordo con il “Fondo Luisito Bianchi” della Fondazione Dominato Leonense, dall’editore Sironi, senza che siano state apportate modifiche, così com’è nell’ultima versione dattiloscritta e letta da Luisito Bianchi, purtroppo scomparso agli inizi dello scorso anno.
Dall’autore di quel capolavoro che è La messa dell’uomo disarmato non mi sarei aspettato un’opera di così elevato valore, proprio perché i capolavori, in quanto tali, sono quasi sempre unici nella produzione letteraria di un autore.
Pertanto, dubitare, prima di aprire il libro, della sua elevata valenza mi era apparso quasi logico, addirittura scontato, perché mai e poi mai avrei pensato che un romanzo antecedente a quello stupendo sulla Resistenza potesse essere così bello, travalicando le normali attese per un testo che, dal titolo, avrebbe potuto solo far pensare alla descrizione della vita in un seminario.
Invece, per quanto l’ambientazione sia proprio in una scuola per preti, si va ben oltre il significato di una semplice vocazione, si corre incontro al dilemma che sorge nel protagonista dopo l’8 settembre del 1943 fra la fedeltà a una chiamata spirituale e l’impellente necessità di essere partecipi dell’evento storico e unico della Resistenza dalla parte di coloro che lottano per alti ideali di giustizia.
Nel personaggio principale si colgono i riflessi dell’autore, dell’esperienza maturata nel periodo, ma il romanzo non può essere considerato autobiografico (il protagonista è di fantasia, il paese natale e di residenza non è Vescovato, la vicenda stessa e la sua conclusione sono frutto di creatività), bensì il risultato di una scelta travagliata che in coerenza a essa segnerà il percorso terreno di Don Luisito Bianchi fino alla morte.
Vi può essere una giustizia divina, nel “dopo”, senza che esista anche una giustizia terrena? Un sacerdote può conciliare la dedizione spirituale, astraendosi dal mondo, come un pastore che non corre a difendere il suo gregge quando questo viene assalito dal lupo?
E così un ingresso in seminario di un ragazzino, avvenuto senza ponderazione, quasi per gioco, è l’occasione per la ricerca di un’autentica vocazione costellata da dubbi, da ripensamenti, e questo in uno dei periodi più tragici della nostra storia, quello che va dalla vigilia della seconda guerra mondiale fino alla Liberazione.
La descrizione della vita in seminario è quella di una scuola militare, dove la forma prevale sulla sostanza, ma l’ironia dell’autore tende a smussare gli spigoli, a non rendere monotematica e arida la narrazione, con una levità encomiabile. E ai tempi bui, quali quelli della guerra, prima incombente e che poi esplode in tutta la sua drammaticità, l’autore contrappone splendide descrizioni della natura, con pagine di autentica elevata prosa poetica. Non c’è un personaggio fuori posto e per tutti, nessuno escluso, si respira una vena di commossa simpatia.
Non mancano i turbamenti dell’età adolescenziale, che appaiono del tutto naturali come sono l’attrazione per il bianco collo delle ragazze, per i capelli, per il loro modo di parlare, non molti accenni, ma tali da non passare inosservati, pur se trattati in punta di penna.
Così, pagina dopo pagina, assistiamo alla maturazione del protagonista, al suo atroce travaglio interiore fra dedicarsi solo a Dio o imbracciare un’arma andando fra i partigiani, e come in una sinfonia, il crescendo, soprattutto finale, rende in modo splendido la tensione che corre sotto quella veste nera, fino a quando, più per reazione istintiva a un atto di violenza gratuita che per completa convinzione, prenderà la decisione, e qui la narrazione è così intensa e sublime che ho ultimato la lettura con le lacrime agli occhi.
Non aggiungo altro, perché cosa si può dire ancora di un’opera d’arte che parla di per se stessa, che scende poco a poco nell’animo e si trova un angolino, piccolo, ma strategico, accanto al cuore?
Ci mancherà Luisito Bianchi, e a me mancherà moltissimo, ma resta il ricordo e, soprattutto, oltre a un esempio di vita basata sulla gratuità, rimarranno le pagine dei suoi libri, di cui questo è l’ultimo, ma solo in ordine di tempo, perché quanto a qualità, a contenuti e a piacevolezza non è certo inferiore a La messa dell’uomo disarmato, e per chi ha apprezzato questo capolavoro dico solo che queste due opere sono fra le poche, in ambito letterario, capaci di scuotere le coscienze infondendo tuttavia un senso di profonda serenità.

Di Renzo.Montagnoli

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