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Recensione Giuseppe Pontiggia Intervista
Reduce dal successo di Nati due volte - caso raro in cui pubblico e critica hanno concordato sul valore di un romanzo -, Giuseppe Pontiggia parla volentieri della sua attività di consulente letterario, lunga alcuni decenni. Quasi quanto la sua brillante carriera di scrittore.
Come è diventato consulente dell'Adelphi?
Per condivisione di interessi. E, nello specifico, quelli orientati verso il pensiero orientale e il mondo classico che condividevo con Claudio Rugafiori, allora agli inizi del suo percorso editoriale. Avevo lasciato la banca nel 1961 e tre anni dopo, quando insegnavo, Luciano Foà, su suggerimento di Rugafiori, mi fece fare una prova di revisione di una traduzione dal latino. Era il primo libro della Pharsalia di Lucano, che era stata fatta da Ciaffi. L'affrontai e ne ebbi un giudizio molto positivo, anche da Piero Bertolucci. Mi fu assegnata tutta la revisione. Ricordo che mi erano necessarie due ore per venti versi. Dopo un anno e mezzo consegnai. Ma nel frattempo ebbi una serie di incontri con Foà, nel corso dei quali parlammo di tante cose. Lui fu colpito dai miei interessi per la filologia classica vista in prospettiva moderna, per l'antropologia dei miti. Mi propose di fare la prefazione di quel classico. Certo, La morte in banca era già uscita, cominciavo a essere conosciuto, ma in ogni caso fu un gesto coraggioso da parte sua. Poi passai alle letture editoriali. Bobi Bazlen era morto nel 1965 e Foà cercava lettori di autori contemporanei. Io ero interessato ai problemi di tecnica narrativa, non solo perché scrivevo, ma anche perché i miei studi, la mia laurea sulla tecnica narrativa di Svevo nel '59, mi portavano in quella direzione. Ogni dattiloscritto, un giudizio e un compenso: cominciò così una collaborazione che è durata trent'anni.
Come avvenivano le riunioni editoriali? Prevedevano un comitato largo o ristretto?
Nel 1966, in casa editrice, conobbi Roberto Calasso. In seguito cominciammo a fare riunioni molto ristrette. Foà dava molta importanza alla sintonia di ogni proposta con il progetto editoriale, pur rispettando il parere di ognuno sul singolo testo. Ed era lui, il direttore editoriale, a decidere in rapporto al progetto. Esisteva già un pubblico di lettori fedeli, ma era ancora molto circoscritto e il progetto doveva essere comunque riconoscibile. L'Adelphi era stata fondata da poco e stava affrontando un periodo di forti difficoltà economiche, ma al suo interno era alto il valore professionale delle singole personalità e tutte partecipavano alla coerenza delle scelte. Venivano rifiutati libri di sicuro successo commerciale perché non rientravano nel progetto. Io, soprattutto nell'ambito della narrativa italiana e straniera, non ero sempre convinto di esclusioni e inclusioni, ma si discuteva serenamente, nelle riunioni del venerdì pomeriggio, fatte in tre. Si discuteva di qualità e di gusto. In quel periodo Rugafiori propose a Foà il mio Arte della fuga. Foà e Calasso ne furono convinti, anche se non conquistati, e decisero per la pubblicazione nel 1968.
Ma a quel punto lei aveva un doppio statuto, di autore e di consulente. Come visse questa doppia identità?
Ho sempre giocato a carte scoperte. Dichiaravo i miei gusti, ma cercavo di non farmene troppo condizionare. Nel bene e nel male. Un esempio? Io non ho mai provato un forte coinvolgimento nei confronti di Anna Maria Ortese, ma ritenevo fosse giusto pubblicarla.
Essendo la sua figura professionale una sorta di cerniera fra dentro e fuori la struttura editoriale, quali pressioni subiva dall'esterno?
Alcuni scrittori sprovveduti pensavano, e forse qualcuno ancora lo pensa, che i consulenti avessero un ruolo decisivo. È importante, ma non decisivo. Certo, c'erano casi in cui l'amicizia e la stima mi inducevano a sperare nella pubblicazione, ma ho tenuto sempre a chiarire preliminarmente con l'editore i rapporti fra me e l'autore - un editore, non dimentichiamolo, che mi ricompensava per dire quello che pensavo con la massima trasparenza, e per agire, come era giusto, nel suo interesse. È importante non fare confusione. Per gli scrittori amici magari richiedevo un esame accurato del testo, ma non ho mai mentito sul suo valore. Non parlo di onestà, che è una parola che lascio volentieri ai ladri, quanto piuttosto di correttezza professionale, un termine che in Italia risulta incomprensibile. Magari un dattiloscritto che poteva non andare bene da Adelphi era proponibile a Mondadori. Ma anche in quel caso, anche collaborando con un altro marchio, tutto avveniva alla luce del sole.
Già, perché nel frattempo Lei aveva cominciato a collaborare anche con Mondadori. Quando e perché avvenne?
Fu Vittorio Sereni a farmi iniziare la collaborazione. Sereni, direttore editoriale della casa editrice che non era ancora a Segrate, aveva ricevuto dalla vedova di Manlio Castiglioni, dirigente del Touring Club, già autore presso Bocca di un importante saggio su Nietzsche, un diario di seimila pagine. Sereni chiese a Sergio Solmi chi poteva essere un lettore che potesse affrontarlo. Solmi parlò con Foà ed entrambi pensarono a me, anche se collaboravo con Adelphi. Ricordo che la sera della bomba di Piazza Fontana ero in taxi con Sereni e parlammo di quel testo che avevo letto e valutato, dandone un giudizio articolato. Non poteva essere pubblicato per intero, ma avevo indicato le parti che mi sembrava fossero più interessanti. Era il 1969, dunque. Ed era un momento molto produttivo per la Mondadori: si stava progettando l'"Almanacco dello Specchio" e, soprattutto si stava decidendo la pubblicazione di un'opera critica gigantesca, già commissionata e portata a compimento, di cui però si dubitava. Era la Letteratura italiana degli ultimi cento anni e Vasco Pratolini si era occupato dei primi cinquanta. Chiesi una cifra alta per dare il mio giudizio e mi fu accordata. Ho sempre pensato che la competenza debba essere riconosciuta. Di lì a poco incontrai Marco Forti che si stava occupando dello "Specchio". Mi chiese di collaborare, ma anche in quel caso le mie richieste economiche non furono basse. Assunsi un atteggiamento che non lasciava molto margine alla trattativa. Sereni si batté perché quel compenso mi fosse riconosciuto. Cominciai a lavorare anche per Mondadori. Il testo di Castiglioni non si è mai fatto, ora è a Pavia nel Fondo dei manoscritti diretto da Maria Corti e ogni tanto si riparla della pubblicazione delle parti da me indicate. Nemmeno il testo di Pratolini è mai stato pubblicato. Peccato, perché è interessante.
Come lettore di dattiloscritti ha sicuramente aiutato molti autori a esordire. Può farci qualche esempio?
In Adelphi, ad esempio, fui il primo a leggere un testo di Morselli: Contro-passato prossimo. E la circostanza fu abbastanza singolare. Vittorio Sereni mandò a Foà quel manoscritto sulla base di un colloquio avvenuto a Varese fra Sereni, Dante Isella e Foà medesimo. Lo accompagnava una lettera nella quale Sereni alludeva alla triste sorte dell'autore. Il testo poteva interessare all'Adelphi. Quando lessi quella lettera io pensai che fosse malato di tumore, ma pensai anche a una sorta di formula di disimpegno, quasi all'assolvimento di un obbligo. Comunque, affrontai il testo e lo proposi riconoscendone la qualità. Poi lo lessero Foà e Calasso e la loro adesione fu molto forte. Scoprii dopo che si era ucciso. Il dattiloscritto di Paolo Maurensig, invece, La variante di Lunenbourg, lo lessi a un anno di distanza dal suo arrivo in casa editrice perché ero in arretrato con il lavoro. E anche quel romanzo mi parve inserirsi bene nel catalogo Adelphi.
Interveniva anche sui testi? Ha mai fatto lavoro di editing?
In alcuni casi l'ho fatto, è un lavoro che ho imparato, ma devo dire che non mi piaceva. Preferivo parlare con gli autori, segnalare che alcune parti mi convincevano meno, ma sempre facendo riferimento al mio gusto. Di un testo mi ricordo in particolare: Horcynus Orca di D'Arrigo. Ricordo che, mentre eravamo già in bozze, lui le leggeva, via via che venivano stampate, e io facevo altrettanto, dando giudizi dettagliati sulle singole parti. In casa editrice glieli fecero vedere. Ebbene, risultava che io aderivo con entusiasmo a quel testo, ma intorno a pagina 1100 c'era qualcosa che non mi persuadeva. Quel giudizio inquietò l'autore, come mi confermò lui stesso in seguito. Scrissi io il risvolto del romanzo, risvolto che convinse pienamente Sereni ma che invece D'Arrigo giudicò non in sintonia con l'intensità della mia adesione. Per opportunità critica non avevo ecceduto nelle lodi. Andai a Roma per incontrarlo e discutemmo per due giorni. Dovemmo raggiungere un compromesso, altrimenti lui avrebbe bloccato il libro. Il risultato fu, appunto, un compromesso che non persuadeva né me né lui.
Un consulente, dunque, redige anche i risvolti?
Io ne ho scritti moltissimi, e sempre molto liberamente, ma ne ho firmati pochi. Il primo me lo chiese Sereni ed era per il libro di Elena Croce, In visita. [Pontiggia si assenta e torna dopo pochi minuti con la prima edizione di quel volume.] Vede, qui c'è il testo stampato e questa è la dedica in cui Elena Croce mi dice il suo consenso. Soprattutto all'inizio, impiegavo molto tempo, ma con l'esperienza sono passato dalle trenta ore iniziali a un'ora. Per Adelphi ne ho scritti pochi.
Lei lavora da moltissimi anni nel mondo editoriale. Quali sono i cambiamenti a cui ha assistito?
Nel tempo, le ragioni del mercato hanno imposto più brutalmente le loro regole che non sono solo di vendita, ma che riguardano anche la risonanza giornalistica dei libri. Questi ritorni, per l'editore, sono di natura diversa, ma sono entrambi necessari. Quando ho iniziato a lavorare in questo mondo la situazione del mercato consentiva un'attenzione più capillare, e più articolata di quanto avvenga oggi, ai valori letterari di un testo. Ricordo, ad esempio, che a un dattiloscritto, prima di prendere una decisione in proposito, potevano essere riservati diversi giudizi scritti. Oggi sarebbe impensabile. Il fatto è che in quegli anni la borghesia seguiva con più attenzione la produzione letteraria. Ne ho un riscontro anche seguendo l'antiquariato librario, scorrendo i titoli delle biblioteche vendute agli antiquari. La borghesia leggeva la neoavanguardia e la narrativa più tradizionale, amava essere aggiornata. Insomma, il rapporto con il lettore era più forte e più continuo. Oggi i libri hanno bisogno di essere agganciati alla notizia per segnalarsi.
Scusi, ma gli editori come facevano a far tornare i conti economici se pagavano diversi consulenti per avere un giudizio su un dattiloscritto?
Non era questo il punto più importante. Il direttore editoriale doveva scegliere basandosi su indicazioni attendibili circa la qualità. Se si era convinti di questo aspetto, il testo veniva pubblicato anche al di là del risultato economico, non così vincolante. Oggi si rischia e talora si cerca che escano libri destituiti di consistenza letteraria.
Ha molti rimpianti per il bel tempo antico editoriale?
Nessuno. In fondo non ha mai funzionato bene. Ero spesso insoddisfatto, per molti aspetti. Lo sono anche oggi del resto, ma per motivi diversi. Allora, l'attenzione alla qualità media era rispettosa di un certa civiltà letteraria, che era anche modesta, ma più irrispettosa nei confronti di altri valori che non le appartenevano. L'editoria degli anni Sessanta ha ignorato grandissimi autori. In quella civiltà letteraria, in nome della cosiddetta letterarietà, venivano pubblicati autori dignitosi, ma poi venivano considerati indegni scrittori più vitali, più sanguigni, più narratori. Per questo l'Adelphi ha dei meriti storici: il conformismo di altre case editrici le ha permesso di riconoscere alcuni veri scrittori. Aldo Busi, ad esempio, non so se esordendo con un altro marchio avrebbe avuto la stessa attenzione di pubblico e critica, anche se è ancora inadeguata al suo valore. Il critico Falqui, per fare un esempio contrario, non ha dato nessuna considerazione a Svevo per molto tempo, appellandosi, come prova, allo scarso spazio che gli riservavano alcune tra le più accreditate storie letterarie.
Mi permetta di confessarle che provo un certo fastidio per coloro che rimpiangono tutto quello che è avvenuto "una volta", editoria compresa. Non possiamo passare il nostro tempo a vergognarci di lavorare nella contemporaneità. Libri compresi. È possibile che il passato sia sempre migliore?
Il nostro tempo pone alla letteratura sfide diverse, che non sono casuali e che non sono solo legate alla moda. Bisogna eludere gli imperativi della moda, ma non si possono eludere le ragioni per cui nasce. Certo, i classici vanno studiati, ma non necessariamente allo stesso modo in cui li abbiamo sempre affrontati. Né, credo, dobbiamo preoccuparci troppo se i lettori trascurano un petrarchista del Cinquecento. Forse è meglio che leggano anche classici di altre tradizioni. Sappiamo che la ribalta commerciale è effimera e la moda è caduca: però le sue ragioni profonde non sono del tutto estranee alla letteratura, anzi la riguardano. La moda dell'opera breve nell'età ellenistica, per esempio, riguardava anche la letteratura. Dobbiamo metterci in una prospettiva legata alla modernità ed essere disposti a una revisione delle gerarchie. Può essere anche molto positiva, salutare. Non per mettere un cantautore alla stessa altezza di un classico, ma per dare meno importanza a Chiabrera. E poi, diciamoci la verità, se io parlo con un orientale e gli suggerisco di leggere testi dove viva la nostra cultura, non posso proporgli di leggere Prati o qualche minore dell'Ottocento romantico. Potrebbe reagire male. E non avrebbe nemmeno tutti i torti.
Riportiamo alcuni stralci dell'articolata e puntuale scheda di lettura che - in otto pagine dattiloscritte, redatte fra la fine di gennaio e la metà di maggio 1973 - Giuseppe Pontiggia dedicò a Horcynus Orca. Il romanzo di Stefano D'Arrigo uscì da Mondadori nel 1975.
Le pagine iniziali, "provvisorie", hanno un avvio un po' stentato: dovrebbero a mio avviso, essere alleggerite della digressione sui pesce spada, bella, in sé (come quelle splendide sui delfini, più avanti), ma che, a questo punto, rischia di risultare dispersiva. La semplicità e la chiarezza delle primissime frasi dovrebbe essere conservata per un certo tratto, in modo da fornire gli elementi essenziali del quadro e introdurvi il lettore senza troppa fatica. Le difficoltà che si incontrano più avanti riguardano principalmente due aspetti: il lessico e il rapporto fra i tempi. Quanto al primo basterebbe un glossario, come nel "Menabò" numero 3: il linguaggio, che mescola dialetto, forme colte, neologismi e fossili, è un impasto quasi sempre riuscito, solo qualche volta opaco, ma mai stridente, e sarebbe un peccato non coglierne tutte le sfumature e le invenzioni per limiti di comprensione linguistica (visto che il contesto spesso non basta a suggerire il senso). Quanto alla consecutio temporum le complicazioni nascono dal continuo scorrazzare avanti e indietro nel tempo, con trapassi che non sempre riescono immediatamente comprensibili e obbligano a una rilettura. Ad esempio a pagina 99: "Per tutto quel giorno, che era stato ieri, aveva camminato per il Golfo". […] È una narrazione dai tempi lunghi, non solo in senso materiale, ma interiore, che muove per cerchi concentrici da punti diversi e alla fine (o meglio fino al punto in cui l'ho letta, cioè a p. 1009) si rivela come unità: unità di mondo morale e fantastico, più importante che l'unità formale e la coerenza dei nessi; questi ultimi anzi non sempre appaiono solidi o necessari (come il continuo riportare la narrazione al punto di vista di 'Ndrja) ed è come se la tecnica adottata, quella del punto di vista unico, sia pure dilatato, risultasse talvolta stretta per l'ampiezza dell'impianto: tuttavia questo finisce per l'imporsi. Anche se non mancano nel testo prolissità e manierismi (e non sono convinto della loro inevitabilità o necessità) l'opera ha un respiro epico eccezionale ed è, nel suo insieme, sicuramente straordinaria. […] Dopo lo squallido e grandioso traino dell'orca ad opera dei pellisquadre, ha inizio la sequenza barca-bara-arca (con metamorfosi linguistica che presenta qualche analogia con la polivalenza di un titolo di Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, che si può leggere in quattro modi diversi): l'efficacia qui diminuisce proprio perché la cosa viene detta in termini espliciti e inequivoci e quindi la significazione viene inevitabilmente circoscritta e impoverita (lo stesso vale per l'opposizione di "operamorta" e "operaviva"). Probabilmente proprio il punto più debole apparirà a molti cirtici il punto più importante, offrendo loro lo spunto per la "spiegazione" rituale: ma non è certo una consolazione. Qualche taglio sarebbe opportuno. C'è comunque da rilevare che il calo di tensione e di concentrazione narrativa (cui corrisponde un calo di interesse in chi legge) viene parzialmente compensato dal trattamento epico che è riservato anche a questa parte e che ne dilata i limiti. È insomma una circoscritta incrinatura, in un punto solo apparentemente chiave, di un testo eccezionale. […] Il finale è di una grandezza senza aggettivi.
Da rcslibri
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