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Recensione Michele Serra

Michele Serra

Il ragazzo mucca

le prime pagine
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"Bentornato Antonio", disse il Grande Otorongo.
Stavo seduto nell'erba secca, con le spalle appoggiate al nume di pietra e lo sguardo rivolto al vallone. Nonostante fosse la fine di marzo faceva ancora molto freddo, e l'aria turbinante del crinale si infilava ovunque. Tirai fino al collo lo zip della giacca a vento. Adagiai la nuca tra le mani intrecciate e presi a seguire con gli occhi le nuvole filanti. Due poiane in caccia remigavano controvento, sospese nel celeste in attesa di tuffarsi sopra qualche sorcio incauto.
"Sei molto pallido", riprese Otorongo.
"Sono stato male. Parecchio male."
"E sei tornato per guarire?"
"Sì. Almeno in teoria. Ho bisogno di restarmene tranquillo per qualche giorno. E mi stavo proprio chiedendo, mentre salivo da te, se ne sono ancora capace."
Ficcai una mano in tasca e spensi il cellulare. Un piccolo gentile bip salutò, per parte mia, il mondo intero. Durante l'ultima vacanza che avevo trascorso a Valmasca ero salito spesso dalle parte del Grande Otorongo per fare qualche telefonata di lavoro: il segnale, giù a valle nella casa dei miei genitori, non arriva. Per captarlo bisogna salire più in alto, verso il cielo bene irradiato di voci, che collega gli uomini agli uomini. Quel poco di esposizione pubblica che poteva raggiungermi fin lassù in cima, adesso era esclusa.
Quel giorno pensavo, del resto, che la mia sola salvezza fosse rendermi irraggiungibile. Neppure sospettavo le molte cose, e le non poche persone, che avrebbero approfittato di quella brusca interruzione, di quello scarto ostinato e renitente della mia vita, per riuscire finalmente a raggiungermi. Sdraiandomi al freddo sole di montagna e abbandonandomi alla malattia ero pronto a godere dei vantaggi della resa, come quando una fatica soverchiante approda allo sfibramento, e puoi darti per perso, adagiarti nel perfetto grembo a forma di zero che hai infine saputo conquistare. Ero certo della destrezza della mia ingloriosa ritirata. Ma all'oscuro del suo imprevedibile esito.

Il cane Nullo, ultimate le procedure di vidimazione del territorio con una fitta gragnuola di pisciatine, venne a sdraiarsi al mio fianco con un rauco sospiro di piacere e chiuse li occhi. Ultimo dei tanti cani di mio padre, questo doveva ancora impratichirsi di me, e io di lui. Mi aveva conosciuto solo da cucciolo, più di due anni prima, l'ultima volta che ero salito in montagna a trovare i miei genitori. In quel lungo frattempo erano stati sempre loro a scendere in città, nel grande appartamento dove abito con mia moglie Dorotea e mia figlia Maria.
Mentre ripassavo con lo sguardo il profilo dei monti, le grandi e vaghe macchie dei boschi, le sagome delle poche case visibili da lassù, pensavo a quanto sono lunghi due anni. Mi chiedevo quali urgenze, quali impegni erano riusciti a tenermi lontano per tutto quel tempo da Valmasca, poco più di tre ore di macchina dalla città dove vivo e lavoro. Respiravo con sollievo l'aria gelida e conosciuta. Sentivo dietro il capo l'ottusa mole di Otorongo segnare lo spazio, ferma nel vento, cotta da migliaia di estati e congelata da migliaia di inverni, testimone delle gite e delle conversazioni di ormai tre generazioni di Lanteri.
Nella stessa posizione e guardando lo stesso paesaggio ero stato bambino e poi ragazzo. L'enorme e il minuto, là intorno, erano comunque miei punti di riferimento, che lo sguardo poteva mettere a fuoco dal primo all'ultimo giocando su pochi e lenti spostamenti del capo. Tra la fissità della mia stazione e la vastità del visibile correvano come cavi di funivia le decine di occhiate che riuscivo a lanciare, in una sola leggera campata, verso ogni luogo noto. Tutto si ridisponeva lungo l'antico ordine imparato da piccolo.

© 1997 Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

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