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Recensione Marcela Serrano Quel che c'è nel mio cuore
le prime pagine
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Parte prima
ORFANE DELL'APOCALISSE
GIOVEDÌ
1.
Il secolo era iniziato da venti giorni quando un'automobile bianca senza targa, con tre individui a bordo, travolse il corpo di una donna che stava attraversando una buia strada lastricata, alle otto di sera. Stando alle parole dell'unica testimone, la vettura non si era fermata, per cui la donna, vedendo una persona accasciata in mezzo alla strada in seguito all'urto, aveva chiamato un'ambulanza senza avvicinarsi per controllare se la vittima fosse ancora viva: un'intuizione l'aveva trattenuta.
Mi ero recata puntuale all'appuntamento nella caffetteria del Museo e stavo bevendo sola soletta il mio primo espresso quando alle otto e un quarto un bambino piccolo, sporco e scalzo, che non avevo mai visto, si accostò al mio tavolo e mi avvertì dell'incidente. Subito dopo avere compiuto la sua missione sparì, lasciandomi sorpresa e con una ridda di domande senza risposta. È all'ospedale Regional, mi disse, è lì che si trova. Ci misi un po' di tempo a reagire, quindi pagai il conto e mi misi in azione. Non sapevo se camminare o correre in piazza alla ricerca di un taxi, non conoscevo abbastanza bene le strade per capire a quale distanza si trovasse l'ospedale. Ritornai nella caffetteria e chiesi informazioni al ragazzo che mi aveva servito: si trova all'angolo tra avenida Insurgentes e Julio M.Corso, in città è tutto vicino.
Mi avviai a piedi in quella direzione, allarmata e confusa. Non contai gli isolati, ma dovevo averne percorsi almeno sette o otto. Quando giunsi in ospedale, mi mandarono al pronto soccorso, nella strada sul retro dell'edificio. Entrai di corsa e, a parte le ambulanze che riuscii a scorgere nel cortile e alcuni uomini che vi passeggiavano, trovai soltanto una porta chiusa, preceduta da un piccolo spazio riparato da una tettoia, un minuscolo quadrato all'aperto che doveva essere la sala d'aspetto, dove tre donne indigene occupavano l'unica panca, in attesa, la pazienza millenaria disegnata sul viso, mentre un paio di bambini si rotolavano per terra ai loro piedi. Deve bussare alla porta, mi avvertirono. Con energia, e forse anche un pizzico di prepotenza dovuta al fatto di non riuscire a controllare bene i miei gesti, aprii la porta senza bussare ad entrai. Era tutto così squallido là dentro, nemmeno un'anticamera dove rifugiarsi, dove venire ospitati. Mi accolse l'odore inevitabile degli ospedali, l'odore della miseria.
No, non può vederla; ma certo, non pretendo mica di vederla, vorrei soltanto qualche informazione, è arrivata in gravi condizioni, la stanno visitando, il medico è da lei, dovrà aspettare, dove?, fuori, con le altre, l'avvertiamo noi.
Era una fredda notte di gennaio. Dopo avere cercato un telefono e avere fatto un paio di chiamate, andai ad appoggiarmi contro il muro, visto che non c'era un posto dove sedersi, neanche uno straccio di sedia. Le indigene mi guardavano imperturbabili, in silenzio, aspettavano. Soltanto il pianto di un neonato nascosto sotto lo scialle di una di loro ogni tanto spezzava il silenzio, quando la madre, stanca di allattarlo, gli toglieva il capezzolo dalla bocca. Non ho più latte, disse a quella che le stava vicino, ma a lui piace lo stesso. Chissà che stava aspettando? I mariti, un figlio, un fratello?
Quando, un'ora dopo, nonostante le promesse nessuno era venuto a chiamarci, feci di nuovo irruzione all'interno dell'ospedale. Stavolta, pervasa dal freddo e dall'angoscia, volli a tutti i costi parlare con il medico. Per fortuna sono abbastanza chiara di carnagione, l'unico elemento su cui potevo contare per essere ascoltata. È arrivata qui in condizioni gravissime, fu il commento del medico quando finalmente si decise a ricevermi, l'urto è stato fortissimo. Trauma cranico grave, una gamba e tre costole fratturate, innumerevoli ematomi e ferite. L'avrebbe tenuta sotto stretta osservazione.
Ritornai verso calle María Adelina Flores, la strada della caffetteria del Museo, che poi era la stessa via del mio albergo, incerta se fermarmi a mangiare qualcosa. Erano già le dieci di sera e la città era deserta, come sempre a quell'ora. Ogni isolato mi sembrava più lungo del precedente, e per la prima volta dal mio arrivo la solitudine delle strade mi parve pericolosa, malsicura, rischiosa. Il mondo stava diventando ostile, mi sentivo indifesa; non per nulla si stava allontanando da me, sfumando caoticamente, l'immagine della persona che era più prossima - vicina e familiare - all'interno del nuovo universo nel quale ero approdata.
Un corpo è un corpo, è un corpo, è un corpo, direbbe la letteratura. Ma per me, il povero corpo di una donna era stato investito, un corpo ancora tiepido, identificabile, reale. Il corpo di Reina Barcelona.
© 2002 Giangiacomo Feltrinelli Editore
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