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Recensione Corrado Stajano Patrie smarrite. Racconto di un italiano.
le prime pagine
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IL VAL DI NOTO
Che bizzaria venir qui a cercare le tracce di una guerra vecchia di quasi sessant’anni mentre altre guerre pesano sul mondo confuso, gli uomini e le donne di Pristina, della Cecenia, del Kurdistan continuano a morire, i bambini soldato combattono in Congo, in Uganda, in Sierra Leone, i profughi ammonticchiati dentro le barche della morte approdano sulle spiagge di sabbia rossastra di Avola e di Noto. Il posto dove nacque mio padre.
Sfioro appena la città che si intravede su un altopiano lucente di tutte le sfumature del giallo, con l’animo incerto e la percezione che sono ancora in tempo a distogliere persino lo sguardo da una ferita mai rimarginata. Finisco col fuggire come tante volte è accaduto, prendo la strada di Capo Passero, nelle giornate limpide dalla punta del faro si vede Malta e, se non è un miraggio, l’Africa. I paesi hanno nomi familiari, Rosolino e poi Pachino, dalla piazza quadrata sotto il sole battente, coi vecchi abbuiati che potrebbero essere gli stessi del tempo di quella guerra lontana. Abbandono senza motivo l’idea di andare verso l’estremo lembo d’Italia, Capo Passero, l’Isola delle Correnti, la Punta delle Formiche, sorpasso Burgio e scivolo verso i pantani accanto alla Marina della Marza dove, da una nicchia ingentilita dai rami degli ulivi e delle mimose, spunta, quasi una visione, una lapide bianca con una scritta in italiano e in inglese.
10 luglio 1943. In questo giorno i soldati canadesi
della Prima Divisione
sbarcarono su questi lidi
da piccole città
di una terra lontana
essi vennero per la causa della libertà.
Mi sembra un segno non più eludibile con la fuga. Quella frase, “da piccole città di una terra lontana” incrina il gelo del cuore, i dubbi, il conflitto. La rivisitazione della guerra fa da schermo a tanti nodi irrisolti della coscienza e della vita, estremo appuntamento, forse, di un figlio traditore e tradito. Ma devo anche tornare per tentar di risolvere questioni pervicacemente rimandate, affrontare pendenze annose, vendere le terre della mia famiglia che ancora posseggo, stoppie, ulivi, mandorli e grotte dell’età del bronzo, ultime radici di una patria smarrita.
Ripercorro le strade all’incontrario e appena arrivo in città è ormai buio e non cerco e non voglio vedere le meraviglie barocche, i capricci di pietra, i palazzi, le scalinate a ridosso dei monasteri, le sirene, gli ippogrifi, i mostri affioranti dalle viscere dei balconi, lo scenario magnificente che da ragazzo mi riempiva ogni volta gli occhi di stupore.
Il viale Corrado Confalonieri, patrono di Noto, sembra una strada di Cinisello Balsamo, un quartiere di Malaga o un tratto di Canal Street a Manhattan, tra l’Hi.Fi. Center, Les Griffes, il Delices Bar, il Kymco, Motor Company, cellulari e computer, videoregistratori, stampanti, fax, Rayben, Tecnarredi, alimenti per gatti e cani. La formaggeria.
Dalle finestre semichiuse affiorano le luci azzurrine dei televisori. Gli storni, che a ogni tramonto intonano il loro concerto sublimemente folle sui ficus della piazzetta lungo il corso, hanno smesso di cantare. La baronessa, nel palazzo al Pianalto della città, suonerà forse il pianoforte con accanto il suo cagnolino. Il vescovo camminerà su e giù leggendo sul breviario il suo ufizio del giardinetto pensile sotto la cupola della Cattedrale crollata dopo il terremoto – mezzo guscio di un grosso uovo – e forse guarderà anche lui la tv mentre la suora addetta alla sua persona, che ha di certo superato l’età sinodale, sarà andata a letto. E il principe, che costerà facendo il principe, chiuso nell’appartamentino che gli è rimasto dopo la vendita del palazzo avito? In campagna a meditare sulla discendenza o a Roma o a Parigi, impaziente di recarsi all’ultimo bar tabarin d’Europa, nonostante gli anni o forse proprio per questo?
I ragazzi che passeggiano ogni sera nei viali della Villa sono andati a casa. Chissà se pensano ancora, come i loro coetanei di una volta, di fuggire lontano, o paghi della vita, accasermati in famiglia, non conoscono inquietudini.
Per le strade non c’è nessuno, i lampioni rendono più lucide le lastre di pietra. Potrebbe essere inverno, se non fosse per lo scirocco. È la fine di agosto. La mia casa, lo spicchio rimasto di mia proprietà, è ingabbiata dai puntelli e dai barbacani che ne fanno quasi una fortezza. Vado a dormire in fondo a via Cavour, accanto al palazzo Castelluccio, dei Cavalieri di Malta. Il vecchio marchese passava le sue giornate al balcone ed esigeva di essere ossequiato da tutti quanti passavano.
Dalla finestra della mia stanza si vede un piccolo giardino di mandarini. Da una muraglia spuntano cespugli di capperi. Il rosso dell’hibiscus e il bianco e il profumo del gelsomino fanno pensare a una pianeta da monsignore.
© 2001 Garzani Libri Editore
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