Dall'Introduzione di Alfio Squillaci - Nel tratteggiare il carattere del comune amico Alfonso Longo, cos scriveva Alessandro Verri al fratello Pietro, il 30 marzo 1768: "Il fondo non cattivo, ma v' dell'inquietudine, della vanit, del falso spirito, della bassezza e perfino italiano e semi-gesuita. Il senso morale di pochissima energia in tutti e due i casi ". (Il fatto che un lombardo nello scrivere ad un lombardo di un altro lombardo gli desse dell'italiano, legando l'epiteto, che sicuramente non elogiativo, al vero e proprio insulto - siamo in epoca illuminista -, di semi-gesuita, ci informa sulla percezione che gi si aveva nel '700, tra la nostra intellighenzia, della nozione di italiano. Stupisce ancor pi che essa abbia di gi acquisito quelle qualit fisse - fiacchezza di senso morale, doppiezza, bassezza che ci sembravano di pi recente tradizione, e che, pervenute immutabili fino ai giorni nostri, costituiscono lo schizzo al carboncino di quella "maschera" antropologica dell'italiano di cui Alberto Sordi l'ultimo e sublime interprete).Nello stesso anno della lettera di Verri usciva in Inghilterra e in inglese a mano di Giuseppe Baretti uno dei primi saggi di osservazione sugli italiani scritto da un italiano: An Account of the manners and customs of Italy in cui lo scrittore torinese rettificava piccato alcuni giudizi sugli Italiani del viaggiatore Samuel Sharp (Letters from Italy) . Qualche decennio prima Carlo Goldoni scriveva una commedia "di carattere", La vedova scaltra, in cui metteva in scena un italiano, un inglese, uno spagnolo e un francese in competizione per la conquista della mano di una bella vedova. Bel copione brillante, ma anche preziosa informazione sulle prime comparazioni che si venivano facendo in quell'Europa - gi avvezza ai paralleli antropologici col buon selvaggio e alle prese con marce "turche" e lettere "persiane", anche sui costumi intraeuropei, ossia sui caratteri nazionali. Le singolarit di un popolo sono l'oggetto di queste osservazioni come, ai giorni nostri, accade nelle pi comuni barzellette dove, data una situazione tipica, vengono chiamati a confrontarsi l'italiano, il francese, l'inglese, il tedesco di turno e ognuno "risponde" secondo una tipizzazione del carattere, che spesso un pregiudizio o uno stereotipo, ma che nell'intenzione di chi racconta un tentativo seppur rudimentale di dirci qualcosa di profondo, di "noumenico", di quei popoli chiamati in scena a recitare il proprio carattere.Prima dunque che Giacomo Leopardi prendesse la penna per dirci in prosa, brutalmente, come siamo fatti, la percezione del carattere dell'italiano aveva occupato l'ingegno di molti letterati europei di prim'ordine e tenuto desto lo spirito di osservazione di una fitta schiera di viaggiatori che, tra Sei e Settecento, giungevano nel Bel Paese col proposito di completare la propria formazione "classica" grazie alla formidabile esperienza del Grand Tour. Ma se partivano co-storo con programmi culturali di sopralluoghi fra capitelli abbattuti e colonne smozzicate del Foro romano, soprattutto se ne tornavano in patria, atterriti e soddisfatti, dopo passaggi perigliosi tra lerce locande ed emozionanti agguati di briganti, con taccuini pieni di massime antropologiche come quella del Grosley: L'Italie est le pays o le mot 'furbo' est loge |