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Biografia Carlo Michelstaedter
Carlo Michelstaedter
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Carlo Michelstaedter, grande ingegno filosofico, letterato e poeta, nacque a Gorizia il 3 giugno del 1887; la sua fama esplose dopo la morte prematura avvenuta per suicidio ad appena ventitré anni (a parte alcuni articoli, tutti i suoi scritti sono stati pubblicati postumi). Michelstaedter era l'ultimogenito di quattro figli (Gino, Elda, Paula e Carlo), e nacque da una benestante famiglia di origini ebraiche. Il padre, Alberto, colto e laico, era un tipico rappresentante della borghesia ottocentesca e lo educò con severità austro-asburgica (Carlo frequentò lo Staatsgymnasium, senza brillare in modo particolare). Ben presto s'interessò alla filosofia, discutendone vivacemente col suo professore di filosofia Richard von Schubert-Soldern, che gli fece conoscere il solipsismo gnoseologico, e con l'amico Enrico Mreule, che gli fece leggere "Il mondo come volontà e rappresentazione" di Arthur Schopenhauer che tanta influenza ebbe sulla sua speculazione filosofica. Amò il Vangelo, Platone, Leopardi, Tolstoj e il nordico Ibsen (al quale si sentiva particolarmente affine per la rigidità della formazione educativa). S'iscrisse prima in Matematica nell'Università di Vienna, poi a Lettere presso l'Istituto di Studi Superiori di Firenze, città in cui visse per quasi quattro anni (vi conobbe professori famosi e straordinari condiscepoli, tra i quali Gaetano Chiavacci, uno dei primi curatori delle sue opere). In questo periodo, iniziò a scrivere in modo quasi compulsivo sia testi letterari e opere filosofiche, sia lettere agli amici e alla sorella Paula (sembrava arso da un fuoco creativo inesauribile). Tentò senza successo di entrare nella redazione di qualche giornale ma pubblicò due articoli sul "Corriere friulano", diretto dalla zia Carolina Luzzatto (una recensione su D'Annunzio e un testo su Tolstoj), e un articolo sul "Gazzettino popolare" (a proposito dello "Stabat Mater" di Pergolesi). Nel 1907 si era suicidata la donna amata Nadia Baraden (una signora russa residente a Firenze, con la quale aveva anche un intenso rapporto culturale); una sua relazione sentimentale con la compagna di studi Iolanda De Blasi era stata ostacolata dal padre col quale i rapporti erano stati sempre «burrascosi» (nella vicenda familiare di Alberto e Carlo, Sergio Campailla ha notato delle somiglianze con quella di Monaldo e Giacomo Leopardi); e un anno prima della sua morte era morto tragicamente per un sospetto suicidio il fratello più grande Gino (emigrato a New York). Il suo destino sembrò segnato da quest'atto tremendo e definitivo: si fece dare la pistola da un amico (al quale la tolse per evitare che potesse compiere un gesto inconsulto) e prese a portarla sempre con sé. Negli ultimi due anni di vita si dedicò allo strenuo lavoro della tesi di laurea, datagli dal professore di letteratura greca Girolamo Vitelli, che si svolgeva intorno alla persuasione e alla retorica in Platone e Aristotele. Si legò sentimentalmente ad Argia Cassini, un'amica della sorella Paula, pianista di talento (condividevano un'eguale passione per Beethoven, nella cui musica Carlo avvertiva «una gioia tragica, che spaventa e lascia annichiliti»). A lei dedicò la poesia "A Senia" (in cui scriveva: «Io non son per te "io"... Io non sono per te: questo mio amore / disperato e lontano e doloroso, / gli passi accanto e non lo senti amare.») e la lirica "I figli del mare", costretti a vivere la morte dei mortali («Passa la gioia, passa il dolore, / accettate la vostra sorte, / ogni cosa che vive muore / e nessuna cosa vince la morte.»). Argia Cassini resterà sempre fedele alla sua memoria. Si manifestarono a questo punto delle turbe comportamentali favorite forse dalla consapevolezza di essere affetto da una grave malattia: si rinchiuse in un isolamento quasi ascetico, rifiutò ogni piacere o comodità, e si sottopose a semidigiuni. Il 16 ottobre del 1910 aveva spedito la tesi ormai completata all’ateneo fiorentino e la mamma Emma Luzzatto Coen, che molto lo amava, compiva cinquantasei anni; il 17 ottobre, dopo un litigio con la madre che si era sentita dimenticata nel giorno della sua festa (mentre Carlo le aveva preparato in regalo un suo tenero quadro con dedica), Carlo prese l'inseparabile pistola e nel pomeriggio si sparò un colpo. Sulla copertina della tesi, aveva disegnato una lampada a olio e aveva scritto in greco «apesbésthen (io mi spensi)». Nella prefazione era scritto: «Io lo so che parlo, perché io parlo, ma so che non persuaderò nessuno» mentre l'incipit così recitava: «So che cosa voglio e non ho cosa ch'io voglia»; l'argomento si articolava su un confronto critico tra la conoscenza originaria e autentica dei pensatori pre-socratici e la «degenerazione mondana» della filosofia da Platone in poi, per pervenire a una critica radicale di tutto il sapere post-socratico. Fu ritrovato dopo due ore dal cugino Emilio e spirò prima di notte senza riprendere conoscenza. Fu sepolto nel cimitero ebraico di Rožna dolina (che oggi si trova nel comune sloveno di Nova Gorica, nelle vicinanze del confine italiano). Il 5 novembre del 1910 ne "Il Resto del Carlino" scrisse Giovanni Papini: «Egli, al pari di pochissimi e rarissimi pensatori che lo hanno preceduto, s'è ucciso per accettare fino all'ultimo, onestamente e virilmente, le conseguenze delle sue idee - s'è ucciso per ragioni metafisiche.». Dopo la sua morte, spinti dal desiderio di far conoscere l'originalità dei suoi scritti, amici e parenti pubblicarono le sue opere e il suo ricco epistolario (molto materiale edito si deve a Sergio Campailla, il suo curatore più appassionato). Le sue carte inedite e tutte le sue opere sono oggi raccolte religiosamente nel Fondo Michelstaedter di proprietà del Comune di Gorizia, presso la Biblioteca Statale Isontina di Gorizia. Tra i suoi testi più importanti sono da ricordare "La persuasione e la rettorica" (a cura dell'amico Vladimiro Arangio-Ruiz, fu pubblicato per la prima volta a Genova nel 1913), in cui sosteneva un'alternativa filosofica nella persuasione e nel superamento delle illusioni offerte dalla non-filosofia, la rettorica - di cui erano campioni Platone, Aristotele e Hegel - ove dominano le istituzioni con le quali l'uomo si illude di nascondere l'istinto di autoconservazione e il suo smisurato egoismo: economia, diritto, Stato, sapere accademico (che replica l'uomo in ciò che è e in ciò che sa) e la società (che replica l'uomo in ciò che è e in ciò che fa). Notevoli sono anche "Le Poesie", gli "Scritti su Platone" e i "Dialoghi" (tra i quali è soprattutto da segnalare "Il Dialogo della salute"). In questi ultimi trent'anni, sono stati pubblicati diversi saggi critici su di lui (uno per tutti, quello di Sergio Campailla, dal titolo esemplificativo "A ferri corti con la vita", pubblicato dal Comune di Gorizia nel 1981), e l'interesse per la sua vita, la sua personalità e le sue idee filosofiche è in continua crescita. L'amico Enrico Mreule lo aveva definito «il Buddha dell'occidente», mentre la critica filosofica ha usato per lui i termini di «maestro del deserto» e «filosofo del nulla... del frammento... della persuasione... dell'impersuadibilità... dello svuotamento del futuro». Si ritiene che il nucleo di pensiero di Michelstaedter stia nella volontà di vivere, ispirata dal desiderio di un altro modo e un altro mondo (scrisse di mettere nei suoi scritti «il proprio sangue incontaminato»), nella "persuasione" come visione dell'uomo che ha compreso che l'essere è finitezza ed è costretto a vivere senza sicurezza e senza conforto (scrisse: «ognuno è solo e non può sperare aiuto che da se stesso: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che ti è dato»), nella convinzione che chi raggiunge il possesso di se stesso arriva a possedere la libertà assoluta dai bisogni quotidiani, dai desideri e dai timori (compresa la paura della morte), che chi coraggiosamente sceglie la difficile strada del pensiero filosofico-etico, della solitudine nel pieno possesso di sé, raggiunge una realtà spirituale superiore e si salva da solo (infatti, l'«uomo persuaso» è "l'alfa e l'omega", "il primo e l'ultimo", e basta a se stesso vivendo solo di se stesso e non teme la morte, perché «la morte nulla toglie»). In effetti, la sua è stata definita una filosofia della morte. Fu anche un bravo disegnatore (aveva scritto: «lo schizzo mette l'anima dell'artista molto più a nudo che l'opera d'arte»), e un pittore sensibile e moderno: una parte delle sue opere pittoriche è esposta presso il Museo della sinagoga "Gerusalemme sull'Isonzo" di Gorizia. E l'arte e la poesia per lui altro non erano che abbellimenti dell'oscurità («kallwpismata orjnhs»), e il linguaggio dell'uomo non poteva che essere impotente a esprimere questa tragica oscurità.

Di Silvia Iannello

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