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Biografia Marcello Candia
Marcello Candia
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Servo di Dio Marcello Candia Medico missionario . Portici, Napoli, 27 luglio 1916 – Milano, 31 agosto 1983. L’eredità spirituale di Marcello Candia è scritta su una parete della sua casa in Brasile: «Non si può condividere il Pane del cielo, se non si condivide il pane della terra». Nato a Portici (NA) il 27 luglio 1916, da una famiglia milanese di imprenditori, si laurea in Chimica, Farmacia e Biologia. Aderisce alla Resistenza e, dopo la guerra, con i Cappuccini di viale Piave, organizza a Milano l'assistenza ai soldati rimpatriati. A Palazzo Soriani fonda il «Villaggio della madre e del fanciullo». Ma sono le missioni ad attrarlo. Nel 1967, venduta la fabbrica, si trasferisce a Macapà, in Brasile, dove realizza un grande ospedale. Nonostante la fragilità dei fisico, avvia numerose altre opere, tra cui il Lebbrosarto di Marituba. Muore il 31 agosto 1983 a Milano. L’eredità spirituale che Marcello Candia lasciò ai suoi amici, è una frase che aveva fatto scrivere sulle pareti della sua abitazione in Brasile: “Non si può condividere il Pane del cielo, se non si condivide il pane della terra”. E la sua grande spiritualità, che animò tutta l’opera caritatevole della sua vita, è in questa frase; è certamente uno dei più grandi missionari laici esistiti e uno dei più dedicati con amore ai lebbrosi. Marcello Candia nacque a Portici (NA) il 27 luglio 1916, in una famiglia milanese, che come tante altre all’inizio del Novecento o alla fine dell’Ottocento, impiantarono delle industrie, magari a livello familiare e dalle quali poi scaturì la grande Milano industriale, facendola diventare quasi un secolo dopo, la capitale economica d’Italia. Il padre Camillo Candia aveva fondata a Milano, quasi dal nulla, la prima “Fabbrica Italiana di Acido Carbonico” e in pochi anni altri stabilimenti a Napoli, Pisa, Aquileia; Camillo era un uomo tutto d’un pezzo, di sani principi, con acuta coscienza del dovere, legato al lavoro ma purtroppo non praticante della religione, convinto fortemente che la Fede ardente della moglie Luigia (Bice) Mussato, da lui tanto amata, bastasse anche per lui. E dalla madre i figli impararono a pregare, ad avere fede e carità e ad essere solidali verso i bisognosi, per amare Dio in modo operoso e dolce; quando uscivano mamma e figlio, per portare il loro aiuto e la loro partecipazione ai poveri e sofferenti, passavano sempre prima a far visita a Gesù Sacramentato in chiesa. Purtroppo a soli 42, anni la madre morì nel 1933 e a Marcello che ne aveva diciassette, il dolore lo portò ad un esaurimento nervoso durato un anno, restò segnato profondamente dal suo ricordo e dal suo insegnamento spirituale; per sua fortuna quando venne meno il sostegno visibile della madre, Marcello trovò un sicuro riferimento spirituale nei Cappuccini del convento di Viale Piave, che in quegli anni era per Milano, un centro che spargeva cultura e carità. E per lui giovane ricco cattolico fu la scoperta dell’”altro mondo”, composto di carcerati, ragazze madri, poveri di ogni specie, ammassati nelle periferie della città e a loro dedicò il suo cosiddetto tempo libero, rinunciando alle ore di sonno. Era naturale domandargli come mai un giovane della sua posizione, non s’interessasse di qualche ragazza e lui spiegava ai più vicini amici: “Quando tu continui a pensare a tutto il genere umano, non puoi pensare a una persona sola!”. L’ampiezza del suo spirito caritatevole, missionario, umanitario si estendeva a tutta l’umanità, per cui i più poveri di Milano (che egli non dimenticò mai) per lui erano solo i “poveri più vicini” e quindi i primi da soccorrere, ma che costituivano la punta emergente dell’immensa povertà del mondo, a cui si sentiva chiamato ad alleviare. Giunto a 23 anni Marcello si laurea in Chimica all’Università di Pavia e subito diviene Direttore Generale dell’azienda paterna, ma non si ferma lì, continua negli studi e si laurea anche in Farmacia; fa il servizio militare per due anni e anche in questo periodo continua a studiare prendendo una terza laurea in Biologia. Nel 1940 scoppia la Guerra per l’Italia e viene chiamato sotto le armi; ma per fortuna visto la sua vasta preparazione, gli assegnano un incarico tecnico di chimico nell’Arsenale di Piacenza, addetto al controllo di esplosivi e munizioni. Trascorrono gli anni terribili della II Guerra Mondiale e nel settembre 1943 dopo la caduta di Mussolini entra nella Resistenza, collaborando con il Comitato di Liberazione Nazionale; finanzia la realizzazione di documenti necessari all’espatrio di ebrei e rifugiati politici, che venivano aiutati dalla rete attuata dai Cappuccini milanesi, di cui Marcello Candia faceva parte. Dopo la Liberazione è ancora in prima linea a soccorrere la valanga di soldati reduci, che arrivavano in treni stracolmi, in condizioni pietose e senza nessuna Organizzazione che li accogliesse, solo volontari e fra i primi quattro c’è lui che portava alla Stazione Centrale generi alimentari, scarpe, vestiario. Riuscì a farsi assegnare dal sindaco di Milano il Palazzo Soriani, semidistrutto dalle bombe, nel cortile installò baracche prefabbricate ma riscaldate, e lì accolse ragazze madri incinte o con bambini piccoli, bisognose di tutto, ma soprattutto di un po’ di riservatezza e di una stanzetta; nacque così il “Villaggio della Madre e del Fanciullo” con un centinaio di ragazze madri. Organizzava concerti con ottimi concertisti nel cortile, con l’omaggio di una rosa per le signore, gli inviti su cartoncino raffinato, ecc., a volte con una sensibilità che toccava il cuore di queste ragazze madri, donava a ciascuna un velo bianco di pizzo di Murano; altre volte le tendine, altre volte i bagnetti per i bambini. Poi seguendo il consiglio del suo padre spirituale, un santo ma rude cappuccino, lasciò quest’ambiente ritenuto non adatto a lui, pur soffrendone, e si dedicò alla fondazione di un ambulatorio medico per i poveri, sempre presso il Convento dei Cappuccini. Ma ormai la sua sete di espansione missionaria, comincia a diventare incontenibile e fonda una decina di Organizzazioni, Ambulatori, Collegi, Scuole di medicina, tutti con scopi missionari; non può dirigere tutto, ma le sue intuizioni vengono affidate a collaboratori capaci e liberi di agire. Nel 1950 muore il padre Camillo e il peso della grande azienda grava tutto sulle sue spalle, con programmi di ulteriori potenziamenti; ma in quello stesso anno incontra due missionari, un cappuccino padre Alberto Beretta, che deve andare a fondare un ospedale nel nord-est del Brasile e il padre missionario del PIME e futuro vescovo Aristide Pirovano che chiede aiuti per una sperduta missione a Macapá, sulle foci del Rio delle Amazzoni in Brasile. Marcello decide che Macapá sarà la sua destinazione, appena l’Azienda che dirige, si sarà consolidata e la sua presenza non più necessaria; sembrava una questione di poco tempo, invia aiuti per la costruzione di una bella chiesa a Macapá con opere perfino dello scultore Francesco Messina; fa dei viaggi in Brasile per rendersi conto dei bisogni di quei luoghi, che ha ormai deciso come sua meta e invece passeranno quindici anni, prima che possa realizzare la sua partenza. Successe che nella notte del 22 ottobre 1955, scoppiò il grande serbatoio di 60.000 litri di acido carbonico, distruggendo completamente il nuovo stabilimento della Candia inaugurato quindici giorni prima, per fortuna nonostante la terrificante onda d’urto, che abbatté tutte le costruzioni vicine, vi furono solo due operai morti, che lavoravano di notte, in una fabbrica vicina; Marcello Candia alla vista di tanta distruzione, vide andare in fumo i suoi propositi missionari. Pur non essendo responsabile la Candia, dello scoppio del nuovissimo serbatoio, garantito da una ditta svizzera (ma la causa con le Assicurazioni durerà fino al 1967), Marcello pagò di tasca propria, un milione di lire di allora ad ognuna delle due famiglie delle vittime e dando fondo a tutti i beni della famiglia Candia riprese la nuova costruzione dello stabilimento di Milano, che dopo un anno produceva a pieno ritmo. Intanto impigliato nella rete di cause, perizie, avvocati, rinvii di giudizio che si succedevano continuamente, vedeva il Brasile allontanato dai suoi immediati desideri, ma non dal suo cuore, perché continuò ad inviare aiuti a Manapá, con il sogno di costruire un grande ospedale in mezzo alla foresta, progetto che suscitò critiche, anche da alcuni missionari, che lo ritenevano inutile e dispendioso. Ne cominciò la costruzione fin dal 1960 su un terreno donato dal Governatore dell’Amapá, facendo arrivare anche materiali dall’Italia; nel 1963 finalmente Candia poté vendere l’Azienda, fra l’incomprensione di tutti, che non capivano questo gesto, visto che l’Azienda era molto florida, si era in pieno boom economico ed i prodotti si vendevano con facilità, al massimo avrebbe potuto mandare i guadagni ai poveri di Manapá. Ma Marcello rispondeva: “Non basta dare un aiuto economico. Bisogna condividere con i poveri la loro vita, almeno per quanto è possibile. Sarebbe troppo comodo che me ne stessi qui a fare la vita agiata e tranquilla, per poi dire: Il superfluo lo mando là. Io sono chiamato a vivere con loro!”. Parte nel giugno del 1965, ma da marzo il suo amico di sempre, mons. Pirovano non è più in Brasile per un incarico di prestigio, e a Manapá Marcello trova solo un attestato del vescovo che garantisce per lui come missionario laico, consigliando di nominarlo direttore del costruendo ospedale. In Amazzonia soffrì non poco, l’ospedale non era condiviso da tutti, il materiale necessario per costruirlo non bastava mai, perché veniva utilizzato dai missionari per altri scopi, lui abituato alla correttezza e all’efficienza manageriale di un industriale di valore, si trovava a contatto con l’approssimazione e la rozzezza; inoltre i suoi 50 anni pesavano per l’apprendimento della lingua portoghese, pur conoscendone altre quattro. Anche le Autorità locali, insospettite sulle reali intenzioni di quest’industriale milanese, frapponevano molte difficoltà e gli infliggevano umiliazioni per lunghe attese; anche dopo molti anni lo consideravano un mezzo matto; passeranno molti anni, prima che un quotidiano brasiliano lo proclami “l’uomo più buono del Brasile”. Subì un cambiamento notevolissimo, da uomo al centro del suo mondo, stava diventando servo di tutti; si sentiva davvero al servizio di coloro che Dio gli faceva incontrare. Ma nel 1967 subisce il primo infarto e la sua salute comincia a diventare malferma, il grande ospedale “S. Camillo e s. Luigi”, che aveva assorbito tutto il suo lavoro viene inaugurato nel 1969, mentre tutti i reparti prendono a funzionare nel 1970. Seguendo le indicazioni datagli dall’allora cardinale Montini, arcivescovo di Milano, poi papa Paolo VI, mise in pratica il suo consiglio, che in missione saper curare malattie è meno importante che insegnare a curarle, quindi istituì scuole per medici e infermieri locali; accogliendo nel ricovero chiunque, specie chi non poteva pagare; i soldi per questi li metteva Marcello Candia, che per quanto ricco, non avrebbe potuto sempre sostenere da solo tutte le spese e questo pensiero lo angustiava; ma il miracolo tanto invocato, alla fine si realizzò con l’aumento del flusso del denaro offerto, proveniente dall’Italia e da altri Paesi. Ancora nel 1973 il governo brasiliano lo accusò di aver fatto entrare illegalmente medicinali in Brasile; nel 1975 decise di donare l’ospedale ai Camilliani, sperando che ciò garantisse nel tempo lo spirito missionario e le finalità caritative per cui l’aveva voluto. Ma un’altra opera l’aveva intanto affascinato, il lebbrosario di Marituba, sperduto nella foresta, anticamera di un inferno, da cui non si poteva più uscire e proibito ai sani di entrare, Marcello Candia vi giunse la prima volta nel 1967 e fermato dalle guardie, era un villaggio di 1000 lebbrosi senza nessuna assistenza, senza pace, senza morale, ammassati in locali putrescenti, infestati da topi ed insetti; cominciò con l’instaurare la speranza allestendo la sua ‘Casa di preghiera Nostra Signora della Pace’, al centro della Comunità, rifece i padiglioni nuovi ed ariosi, ai lati di una diritta via centrale, con casette per le famiglie, un’organizzazione amministrativa autonoma, gli ambulatori e laboratori per i piccoli lavori. Attualmente il lebbrosario è un luogo di pacifica e serena convivenza, con una cittadina di ventimila abitanti che si è sviluppata intorno. Suore e preti provenienti dall’Italia crearono sul suo esempio, un clima di fiducia e di affetto con gli ammalati e come Marcello, presero a manifestarlo toccando questi esseri definiti ‘intoccabili’. Egli diceva alla suore “quando ami non ti accorgi più delle deformità. Tanto bella ti appare l’anima, l’amicizia, l’affetto di questi malati che sono diventati tuoi, parte della tua vita”. Nel 1980 papa Giovanni Paolo II in visita in Brasile, arrivò anche a Marituba, abbracciò molti lebbrosi e poi chiese di Marcello Candia che non vedeva e poi giunto che spingeva una carrozzella con un lebbroso senza mani e piedi, l’abbracciò e baciò in fronte; si meritò il titolo di “Marcello dei lebbrosi”. Ma l’ospedale e il lebbrosario non furono le sole opere iniziate da lui, ben altre 14 opere sociali e assistenziali sparse in tutto il Brasile e curate oggi dalla Fondazione Candia; la preghiera la volle al centro di tutta la sua multiforme attività, istituendo due piccoli Carmeli, facendo venire le suore carmelitane da Firenze, si ritirava ogni giorno per la sua “ora di preghiera”, durante la quale non esisteva più niente per lui, si definiva il ‘novizio delle carmelitane’. Veniva ogni anno in Italia, ufficialmente per riposarsi dagli altri quattro infarti subiti e dal delicato intervento chirurgico di ben tre by-pass, ma in realtà, in patria egli girava per le diocesi, per incontri, conferenze, dibattiti, raccolte di fondi, tanto da ritornare ogni volta in Brasile più stanco di prima. Viene scritto un libro su di lui dal titolo “Da ricco che era…”, che vende subito 100.000 copie; nascono una Comunità Spirituale Missionaria e nel 1982 l’Associazione “Amici di Marcello Candia” per sostenere le opere da lui iniziate. Non era facile sopportarlo per il suo carattere esigente, se non si aveva il suo stesso ardore di carità, in lui c’era come in tutti i santi uomini, una miscela di virtù e di difetti, lo circondavano incomprensioni, invidie, maldicenze, pigrizie, meschinità e lui reagiva da gigante buono, che non riusciva a muoversi senza dare una scrollata. Sempre con il pensiero di dover morire con un infarto, si accorse invece di avere un tumore devastante della pelle ormai in metastasi, gli ultimi mesi in Brasile li passò soffrendo, senza quasi più mangiare e angustiato dalle divisioni interne fra i suoi collaboratori; ci fu pure chi lo accusò di aver rubato, infliggendogli ulteriori amarezze in quel suo Calvario silenzioso, che solo le Suore Carmelitane conoscevano, perché solo a loro si confidava. Nel 1983 decide di ripartire per l’Italia per un ultimo controllo, nessuno lo saluta all’aeroporto, solo un sacerdote; forse non intuiscono la gravità e la solitudine finale di questo missionario laico, comunque sempre considerato un’industriale, anche se con la fissazione della carità. Cade sull’aereo, lo accompagna un giovane segretario di 19 anni, all’aeroporto di Parigi sviene; viene ricoverato con urgenza all’ospedale di Milano con cancro al fegato e metastasi diffusa. Muore il 31 agosto 1983 senza lamentarsi e ringraziando chi lo curava, per ogni cosa. La causa per la beatificazione di questo colosso della carità cristiana, che ha seguito il consiglio di Gesù “Lascia tutto e seguimi”, è stata avviata il 20 gennaio 1990 a Milano. Antonio Borrelli

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