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Biografia Steve Earle
Steve Earle
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«Ciao, sono Steve, sono fuori casa a farmi di eroina, oppure a cercare di fottermi una ragazzina 13enne o a picchiarmi con qualche poliziotto. Però sono vecchio e mi stanco facilmente, perciò lasciate un messaggio e vi richiamerò al più presto». Di solito, poi, non lo faceva. Perché passava tutto il suo tempo tra i cessi pubblici, dove si rinchiudeva per iniettarsi la droga, e le case del crack a Nashville; nel frattempo, si era rivenduto la collezione di chitarre, per comprarsi la droga, e la sua reputazione di cantautore maledetto lo stava mangiando vivo. Quando nel 1994 finì addirittura in prigione per droga, non possedeva altro che i 20 dollari che aveva in tasca. Se lo Steve di allora potesse osservare quello di oggi non crederebbe ai propri occhi. Adesso Earle vive parte del tempo a Woodstock, a due ore d?auto da Manhattan («ma di tanto in tanto non vedo l?ora di tornare in città»), in una bella casa di campagna con tanto di piscina riscaldata e ogni tipo di confort, possiede di nuovo una collezione di chitarre, oltre 120, scrive racconti e opere teatrali, soggetti per la televisione e ancora canzoni. Indubbiamente una vita differente da quella degli anni 80 quando era diventato la perfetta rappresentazione dei personaggi delle sue canzoni. Adesso, arrivato al 13esimo lavoro solista, Earle ha deciso di recuperare i ricordi di una parte della sua turbolenta vita, attraverso un disco intitolato semplicemente Townes in cui rilegge 15 canzoni scritte dal suo amico Townes Van Zandt, uno dei più grandi musicisti country texani, una vera leggenda, dalla vita tragica, che gli trasmise l?amore per la musica, la trasgressione e il vivere senza porsi limiti. Registrato in gran parte nella casa di Earle a New York l?ottobre scorso, il cd «rappresenta la parte di Townes che è diventata me ed è ancora parte di me». Earle e Van Zandt si incontrarono all?inizio degli anni 70 e rimasero amici fino alla morte di Townes nel 1997, a 52 anni. Se Earle in passato sembrava una specie di selvaggio Hell?s Angel, adesso a 54 anni, sposato felicemente e sobrio ormai da 14 anni, ricorda un romantico professore d?altri tempi, con tanto di barba da profeta striata da fili grigi e capelli lunghi, occhiali che pencolano sul naso e una generosa pancia prominente che sembra voler coprire la cinta dei pantaloni. Se Steve ha voluto scientemente distruggere il suo mito di cantante maledetto per far pace con il presente, ha cercato anche di alleggerire la pesante eredità passata a suo figlio Justin Townes Earle, 27 anni, anche lui musicista e dal passato altrettanto burrascoso. Nel 1972 Steve Earle si imbucò ad austin, in una festa per Jerry Jeff Wallker, altra leggenda locale del country. Verso le due del mattino, arrivò Townes Van Zandt con un cappello da cowboy in testa e una giacca di pelle sfrangiata. «Iniziò subito a giocare a dadi, scommettendo pesante; in poche ore perse, un tiro dopo l?altro, tutti i soldi che aveva con sé. E anche quella giacca», ricorda Earle. A quel tempo Townes era già una leggenda per Earle che, a 16 anni, aveva smesso di andare a scuola per diventare musicista, aveva sviluppato una passione sfrenata per l?eroina e si era messo a viaggiare attraverso l?America lavorando nei circhi. «Capii subito che lui rappresenteva il mio eroe perfetto, uno capace di mettere la musica sopra ogni cosa», dice Steve. «Un vero artista che non era affatto ricco, e non gliene fotteva, perché si sentiva libero. Era questa la cosa importante per lui». Un maestro che dispensava consigli e scelte difficili: «Devi scordarti di avere una famiglia e una vita comoda, del tuo ego e di ciò che sei. Devi mollare tutto e lasciar perdere ogni cosa. Eccetto la tua chitarra». Earle seguì quelle regole, diventando così parte della cerchia di amici drop-out di Townes, un gruppo di fuori di testa, vagabondi, ubriaconi, tossici, chitarristi più o meno falliti che viveva ai margini della legge. Poco per volta Earle divenne sempre più amico di Van Zandt, uno dalla capacità quasi illimitata di bere e dalle abitudini singolari: «Una volta si è letteralmente mangiato 50 dollari ficcandoseli in bocca e masticandoli come fossero spaghetti. Solo perché lo riteneva divertente. Anche se erano gli ultimi soldi che aveva? ». Più Earle diventava famoso, più si avvicinava a Van Zandt, ma prendendo le distanze dal gruppo dei folli che lo circondava. «Così senza volerlo mi trovai a essere fra quelli che lui non sopportava. La colpa fu, credo, di qualcuno del suo giro che vedeva in me un borghese, un fighetto, solo perché avevo iniziato a guadagnare qualcosa con le mie canzoni». Nonostante ciò, Van Zandt rimase importante per Earle: quando nacque suo figlio Justin, nel 1982, Steve volle dargli come secondo nome quello del suo miglior amico. E mentre Townes continuava la sua discesa verso la distruzione totale, Earle collezionava un successo dopo l?altro. Fino a che, a inizio degli anni 90, il ragazzo di San Antonio si trovò in vetta. Con l?incredibile quantità di soldi, giunsero anche i problemi: Steve scivolò ancora di più nelle droghe, pesanti come non mai. Il patrimonio che stava accumulando finiva così nelle sue vene. «Ero costantemente sballato», ricorda, «e convinto di non essere capace di buttare giù una sola canzone se non fossi stato abbastanza fatto. Diventavo sempre più paranoico». Il passo successivo fu quello di smettere di scrivere e sparire per giorni interi nelle crackhouse di Nashville. Professionalmente divenne quello che si dice un fantasma di se stesso. Nel 1992 iniziò a cancellare uno show dopo l?altro, per poi perdere un lavoro come produttore alla Virgin Record dopo essere arrivato totalmente fuso a una cena d?affari e cadere addormentato con la faccia nel piatto. Poi arrivò addirittura la prigione, dopo la quale Earle incise I?m Feel Alright; era il 1996 e nel frattempo l?amico Van Zandt era alle corde, i suoi show erano diventati oramai dei patetici concerti di una ex star alcolizzata e drogata. Per aiutare l?amico in difficoltà, Steve suonò la chitarra in If I Needed You. «Era una sofferenza vederlo impacciato, quasi avesse scordato come si facesse a suonare. Aveva perfino difficoltà con il finger pickering, la sua specialità». Operato alle anche, Van Zandt, nel 1997, morì a casa sua a Nashville per un attacco cardiaco. L?orazione funebre venne letta dal suo amico Steve. E ora il suo tributo con Townes. «Con questo album voglio semplicemente ricordare chi era e cosa rappresentava per me e per la musica», spiega Earle. «L?immagine che ho di lui è quella di un grande musicista che, ad Austin, con una chitarra era capace di lasciare tutti senza fiato. Partendo da quello ho cercato di far riaffiorare tutta la vita trascorsa accanto a questo grande artista. Ciò che sono, come musicista, lo devo essenzialmente a lui. Che mi ha insegnato a essere autentico». Earle ha registrato Townes nel suo appartamento nel Greenwich Village, lavorando 11 ore al giorno, per un?intera settimana. In seguito, in studio a Nashville, ha aggiunto batteria e basso e ha inciso una versione bluegrass del brano di Van Zandt, White Frightliner Blues, mentre in Lungs, tra le più tristi e sconsolate canzoni del musicista scomparso, John King, uno dei produttori del team Dust Brothers, ha voluto inserire la voce e la chitarra elettrica di Tom Morello. La moglie di Earle, Moorer, ha invece cantato con lui due brani, fra cui, To Live Is to Fly, che è anche l?epigrafe incisa sulla pietra tombale di Townes. Steve sottolinea che, nella sua giovinezza, vedeva Van Zandt come il classico eroe romantico. Vivere ciò che canti però non è facile e alla fine ti viene presentato il conto: una situazione in cui si è trovato anche il figlio di Earle, Justin, da lui abbandonato quando il ragazzo aveva due anni, in seguito al divorzio dalla terza moglie. Mentre Earle scivolava sempre più nella tossicodipendenza ? sposandosi altre quattro volte in 12 anni e avendo un altro bambino, Ian, dalla moglie numero quattro e una bambina da una relazione di una sole notte ? il figlio che portava come secondo nome quello di Townes nutriva un?avversione crescente per papà Steve. «Mi ha allevato mia madre», ricorda Justin. «Lei odiava mio papà e di conseguenza lo odiavo anch?io. Un terribile circolo vizioso che mi ha a lungo intrappolato». A 12 anni Justin prendeva eroina e si faceva un?ottima fama come delinquente minorile. A quel punto il padre, da poco uscito da una clinica di riabilitazione, decise di prendersi cura di lui. Era il 1995. Mentre vivevano assieme, Justin rubò una delle pistole di Earle. Appena scoperto il furto, Earle portò il ragazzino in un campo rieducativo per ragazzi difficili e lo lasciò senza dire una parola. Adesso Justin vive anche lui a New York, a poca distanza da Earle. Magro e coperto da tatuaggi, sembra una versione giovane, e ancora più selvaggia, del padre. E proprio come lui ha voluto dedicarsi alla musica: il suo primo lavoro è un disco in stile country&western; intitolato Midnight at the Movies uscito lo scorso marzo. Le incomprensioni tra padre e figlio sembrano ora essere state superate proprio grazie alla musica. Nell?album Townes Steve e Justin eseguono insieme una versione roca e laconica di Mr. Mud and Mr. Gold, uno dei brani scritti da Van Zandt: lo stesso che Earle suonò davanti al suo autore nel 1972, dopo che Van Zandt lo aveva notato fra il pubblico a un suo concerto. Gli anni sono passati, Van Zandt è morto, ma è come se continuasse a vigilare su un padre e un figlio, spesso in lotta tra di loro, ma in un qualche modo uniti dal fantasma di un uomo che ha dato tutto se stesso in nome della musica.

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