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Topics - victor

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Erotico / UNA VISITA DI AMICI.
« il: Settembre 23, 2021, 19:06:25 »
Una coppia di amici che vive al nord è venuta a trovarmi.

Abbiamo trascorso una piacevolissima serata al ristorante cenando e rivangando i vecchi tempi.

Anche se eravamo rimasti sempre in contatto era da oltre dieci anni che non ci incontravamo. E, gli ultimi incontri, erano stati, per vari motivi, piuttosto fugaci.

Con lei, anche se era dieci anni più piccola di me, eravamo amici di famiglia e l’ho vista crescere, eravamo molto affiatati e siamo diventati anche intimi malgrado la differenza di età.

Lui era venuto nella nostra città da un paese di periferia per studiare. Aveva frequentato il liceo e si era fermato anche durante il periodo dell’università. In questo periodo si è incontrato con lei stringendo amicizia e, di conseguenza, divenendo anche amico mio. Dopo la laurea avevano deciso di sposarsi.

Durante la cena abbiamo rivangato i bei tempi trascorsi. Tanti ricordi … alcuni rivangati … altri riservati e trattenuti nella mente di ciascuno …

Rientrato a casa, anche se l’ora era molto tarda, ho acceso il computer e sono andato a passare in rassegna i miei appunti. Quelli che ho scritto nel corso di tutta la mia vita.

Ho trovato quello che cercavo …

“Avevamo fatto l’amore … al solito nostro … da pazzi … affamati … insaziabili … lei giaceva sul letto supina con gli occhi chiusi … io, accanto, accovacciato, continuavo ad ammirare estasiato il suo corpo … perfetto … meraviglioso … la cui visione non mi saziava mai …

Non sapevo se dormisse oppure riposasse cercando di riprendere fiato …

- Vorrei … - dissi sottovoce e un movimento del suo capo mi fece capire che era sveglia e si era girata per ascoltare le mie parole; ripresi:

- … vorrei … poter entrare con la mia mano … dentro il tuo ventre … - una contrazione dei suoi muscoli addominali mi fece percepire che mi ascoltava; continuai:

- … e rimestare tra le tue budella … - notai una nuova contrazione dei suoi muscoli addominali

- … sì … rimestare tra le tue budella cercando il tuo utero … per afferrarlo con la mia mano … - a questo punto si scosse, mosse tutto il suo corpo che si accartocciò a riccio; io continuai a parlare scandendo lentamente le parole:

- … sì … stringere il tuo utero nel mio pugno … - il suo corpo ebbe una contrazione molto forte accompagnata da un gemito;

- … e masturbarlo … sì … masturbarlo … masturbarlo … fino a farti urlare di piacere … - le contrazioni del suo corpo si susseguivano accompagnate da gemiti … finché una contrazione spasmodica del suo corpo fece seguito ad un gemito più forte degli altri …

Io tacqui … e poi … dopo un poco … anche lei si rilassò …

Era tardi … scesi dal letto, andai in bagno per rinfrescarmi.

Mentre mi rivestivo lei si scosse, mi diede un’occhiata e andò in bagno.

Quando uscì io ero già pronto e la guardavo mentre si rivestiva. Continuavo ad ammirare il suo corpo meraviglioso …

- Certe volte vorrei odiarti … - disse.

La guardai sorpreso. Forse le mie labbra sussurrarono in un soffio:

- Perché?

- Sì, vorrei riuscire ad odiarti … perché ... perché il solo tuo sguardo ... è capace di provocarmi i brividi ...

Le sorrisi …

Completò di rivestirsi.

Ci salutammo con un abbraccio e un lungo bacio. Poi io tornai da mia moglie e lei da suo marito.”



2

La riflessione.

Io non credo, non posso credere, che tutte le persone ogni mattina indossino una maschera per nascondere la loro vera natura.

Ma, purtroppo, alcune persone lo fanno. Però capita che uno "slancio freudiano" (un lapsus) faccia loro cadere la maschera e improvvisamente rivelano la loro vera essenza.

Quando ciò accade chi aveva dato loro fiducia resta di sasso.

È triste ... molto triste.

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Altro / LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.
« il: Giugno 03, 2021, 21:28:56 »


Nota Preliminare.

Anche questo racconto non è mio. L’ho trovato su internet. L’autore si firma Diagoras. Vi auguro buona lettura.

Victor.



LA NEVE PUO’ ESSERE TIEPIDA – Scritto da Diagoras.

La neve continuava a cadere fitta, un’incessante cortina bianca che univa il cielo. basso e di un grigio uniforme, con il terreno, quasi abbagliante nel suo gelido candore.

Avanzavamo faticosamente, affondando fino alle ginocchia nel manto bianco ed infinito.

Erano giorni e giorni, ormai, che camminavamo.

Il fronte, verso Stalingrado, era stato dapprima sfondato e poi spazzato via.

I russi, determinati a liberare la loro terra dagli eserciti invasori, avanzavano inesorabili, spietati ed implacabili nella loro determinazione e nella loro ferocia.

Avevamo avuto ordine di ripiegare verso le retrovie, e quindi di approntare una nuova linea di resistenza.

Ma mentre noi ripiegavamo in quell'abisso di gelo che era la sterminata pianura russa, a trenta gradi sotto lo zero, senza indossare gli indumenti adatti per quel clima terribile, senza mezzi di trasporto per la penuria di carburante, senza cibo e praticamente disarmati, anche le nostre retrovie erano state costrette ad attestarsi ancora più indietro, decimate e massacrate, attaccate da più parti e da forze nemiche soverchianti.

E così quelle retrovie, sempre più simili ad un miraggio, noi non le avremmo mai raggiunte, trasformando quella marcia angosciosa in una disfatta senza fine; la nostra ritirata era divenuta prima una sconfitta, poi una fuga disperata.

Era la marcia di un'umanità sconfitta nel corpo e nella mente, vinta dalla storia, aggredita ed umiliata in ogni momento da quell’orribile natura gelida ed aliena, braccata e colpita da quei temibili e feroci nemici che erano i partigiani e l'esercito russo.

Guardavo i miei commilitoni, i miei amici diventati fratelli nella disgrazia, gli uomini che avevano diviso con me quell'esperienza tremenda che era stata la guerra; li vedevo marciare e arrancare accanto a me, davanti e dietro di me.

Un fiume di poveri fanti dagli occhi spiritati e senza più lacrime, dai visi emaciati e sofferenti, dagli abiti stracciati, dalla mente sconvolta e straziata dall’orrore.

I tedeschi, come al solito efficienti e coordinati, infinitamente meglio organizzati ed equipaggiati di noi, ci passavano accanto, in lunghe colonne di camion e di carri armati, di auto e di moto.

Passavano senza degnare di uno sguardo noi, gli italiani, i loro alleati; passavano indifferenti e quasi infastiditi da quell’umanità che a piedi sfidava l'inverno russo, che con la sola forza delle gambe cercava di percorrere centinaia di chilometri, con le scarpe sfondate ed i guanti a pezzi, la carne resa insensibile dal gelo e l’anima dilaniata dall’orrore.

Anche loro, i tedeschi, erano in ritirata, anche loro erano stati sconfitti, ma correvano per ricostruire una nuova linea di difesa, una linea che arginasse le truppe di Stalin, che le bloccasse e le obbligasse ad una dura guerra di posizione.

Credevano, e forse ne erano convinti per davvero, di poter resistere fino all’arrivo della primavera e del caldo, per poi riprendere quell’offensiva scellerata e senza speranza.

Era un'utopia, un sogno disperato, perché la guerra era segnata e Hitler l'aveva irrimediabilmente persa.

La sua megalomania non aveva fatto i conti con l'inverno russo, come, prima di lui, era già successo a Napoleone.

In quell’infinita pianura innevata, un esercito sconfitto, un’interminabile colonna di disperati, si trascinava penosamente, stremato dalla fame, falcidiato dalle armi dai russi, massacrato dal freddo e dall'angoscia della fine imminente.

Italiani, romeni, ungheresi: non si riusciva più a capire che fossero soldati di eserciti diversi, uomini che parlavano lingue diverse.

Non si capiva, perché nessuno più parlava.

Usavamo le poche forze rimaste per camminare, per aiutare un commilitone ferito, per chiudere gli occhi a chi non ce l'aveva fatta e si era arreso alla morte, troppo spesso benvenuta in quei giorni d’inferno.

Eravamo rimasti in una quindicina, di tre plotoni diversi: il tenente Ferrara cercava di incoraggiarci, di spronarci.

Incitava senza sosta i suoi uomini a credere nella salvezza, nella fine di quell'incubo, nel ritorno alle nostre case e ai nostri affetti.

Ma non era facile credergli.

Perché lui per primo, ormai, non ci credeva più.

Con venticinque-trenta gradi sotto lo zero, il vento che ululava senza tregua, la neve che ti accecava, le scarpe rotte e gli abiti laceri e a brandelli, il liso cappotto troppo leggero per quel gelo, le orecchie congelate ed il muco del naso rappreso e incrostato, era francamente impossibile credere ai miracoli.

Sapevi che quella sarebbe stata la fine.

Lo capivi ogni minuto che passava.

Le nostre vite erano appese ad un filo sempre più sottile.

E allora c'era chi imprecava contro tutto e contro tutti, chi impazziva e non la smetteva più di ridere, chi bestemmiava contro Dio, e chi quel Dio invece lo pregava, gli gridava tutto il suo smarrimento e la sua paura di uomo fragile e distrutto.

Non è cosa semplice tradurre in parole lo straziante ricordo di quei giorni.

Quando si vedeva un corpo disteso a terra, qualcuno andava a controllare se il disgraziato fosse ancora vivo: se ti trovavi di fronte ad un cadavere, come fossimo sciacalli della peggior specie, lo si spogliava degli stivali, o del cappotto, o magari di una sciarpa stracciata, lavorata a mano, in un'altra vita, da qualche moglie o fidanzata.

Se, al contrario, lo sventurato era ancora in vita, lo si lasciava lì: lo avrebbero spogliato quelli che ora marciavano uno o due chilometri più indietro.

Era un incubo senza fine e incredibilmente doloroso da rammentare.

Quando, su una bassa e spoglia collina alla nostra sinistra, apparve sferragliando il primo carro armato con la stella rossa. tutti noi fummo quasi contenti di vederlo.

I russi si stavano preparando a sferrare l’ennesimo attacco, e presto ci avrebbero fatti a pezzi, avrebbero spazzato via senza pietà quella lunga teoria di cenciosi, di poveri pezzenti, un tempo non lontano fieri soldati, ragazzi spensierati, uomini coraggiosi, ora tutti ridotti a semplici larve consumate.

E, con le loro bombe ed i loro proiettili, sarebbe giunta per noi l’agognata morte, la liberazione da quel tormento, la fine di quell'agonia interminabile.

Era quasi con sollievo che li vedemmo arrivare.

Ma, nel momento stesso in cui la prima granata esplose con fragore, cento metri davanti a noi e disseminando l’aria di schegge, quando vedemmo i corpi dei nostri commilitoni scaraventati in alto come disarticolate bambole di pezza, per poi ricadere come pupazzi nella neve subito rossa di sangue, quando udimmo le loro urla disperate di dolore e d’agonia, la paura di morire ci assalì in modo incontrollabile, e l'istinto di sopravvivenza prese ancora una volta il sopravvento.

Abbandonando il più rapidamente possibile la strada, ci buttammo a terra, negli alti cumuli di neve.

I carri armati, diabolici mostri avvolti da una nera nube di gas di scarico, erano diventati cinque e avanzavano velocemente, in una sorta di osceno balletto, ben consapevoli della nostra assoluta impotenza.

Le esplosioni si susseguivano una dietro l'altra, come in un orribile tiro al bersaglio.

Accanto a me c'era Marco, un soldato del Genio Militare, anche lui, come me, di Napoli; poco più dietro, Giovanni, un semplice fante, pregava a voce alta, piangendo, in ginocchio e con le mani giunte.

Gli urlammo di buttarsi giù, di nascondersi nella neve; ma lui, ormai, completamente assorto nel compito di affidare l’anima a Dio, non sentiva nemmeno più le nostre grida disperate.

E quando la granata esplose, e una scheggia gli portò via di netto la testa dal collo, Giovanni stava ancora recitando il Padre Nostro.

Inorridito, stordito dalla paura, tra il fragore delle esplosioni e le urla dei feriti e dei moribondi, sentii che il cielo, grigio ed uniforme come piombo fuso, si andava riempiendo del ruggito stridente degli aerei in avvicinamento.

In un lampo, un terribile e nitido attimo che mai potrò dimenticare, seppi che era veramente finita.

I caccia si abbassarono improvvisamente di quota: erano tre, mi pare di ricordare, e come uccelli rapaci sorvolarono a poche decine di metri d’altezza la strada, spazzandola più volte con le mitragliatrici, e così completando il lavoro iniziato dai carri armati.

Ancora sdraiato nella neve, terrorizzato, sapevo di non avere scampo.

Eravamo in trappola.

Volsi il capo e dissi a Marco: "Dai, scappiamo. Tanto ci ammazzano comunque. Proviamo ad arrivare a quel bosco laggiù!"

Nessuna risposta mi giunse.

Lo guardai, ma lui non si mosse.

Lo scossi.

Urlai il suo nome.

Lo supplicai di rispondermi.

Ma era tutto inutile.

Marco era morto, colpito da un proiettile di mitragliatrice, e la neve, attorno a me, era diventata rossa del suo sangue.

Pazzo di rabbia, di dolore, di terrore, incapace di ragionare, mi alzai e mi misi a correre, barcollando, incespicando, cadendo.

Tra il sibilo dei proiettili e il fragore delle bombe, come una marionetta senza fili, come un animale in fuga da un incendio, cercai una salvezza che sapevo essere impossibile.

Corsi.

A perdifiato.

Fino a farmi scoppiare i polmoni, tagliati in due da quella lama affilata che era l’aria gelida che inspiravo.

(Continua)


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Altro / ANIME PERDUTE - Scritto da Delirium.
« il: Maggio 19, 2021, 08:44:23 »


Nota Preliminare. Questo racconto non è mio. L’ho trovato su internet e mi è piaciuto molto. L’autore si firma Delirium.

Ho pensato che possa piacere anche ai lettori di Zam, per questo l’ho pubblicato.


ANIME PERDUTE - Scritto da Delirium.

La vecchia mano ossuta e callosa prese l'obolo. Una moneta d'argento, un denaro con al dritto la testa di Roma elmata e a rovescio i Dioscuri a cavallo. Erano secoli che l'antico nocchiero non ne vedeva una.

Un tempo ne circolavano tante di quelle monete, e poche erano le anime che potevano permettersele. In molte restarono ad errare tra le nebbie del fiume perché non possedevano i mezzi per pagarsi il viaggio. Ma i tempi cambiano, lo sapeva benissimo il vecchio barcaiolo, persino laggiù in quel triste confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti attraversato dall'immenso fiume del dolore.

Infilò la moneta nella sua sacca quasi piena e mai stracolma appesa alla cintola, non domandò da deve provenisse, non lo faceva più ormai da parecchio tempo.

Un tempo la sua sacca conteneva soltanto monete di quel pregio, non accettava mai nient'altro che ne avesse un minor valore. Ricordò quant'era spietato e crudele verso quelle povere anime dannate che imploravano la sua pietà disperati e avviliti di non poter salire sulla sua barca, senza nemmeno sapere quali orribili pene li aspettassero dall'altra parte del fiume. Ma i lunghi secoli di infiniti viaggi avevano cambiato anche il suo animo crudele, facendolo diventare da feroce bestia ad entità compassionevole e indulgente.

Le monete di valore erano divenute via via di qualità sempre più scadente, finché non avevano perso del tutto il significato che era stato loro assegnato. Strani oggetti curiosi e bizzarri davano peso alla sua sacca; una donna che in vita era stata una sarta aveva pagato il suo viaggio con un ditale, un ago e un mezzo rotolo di spago.

Un altro, forse un carpentiere, con un pugno di chiodi di cui alcuni arrugginiti; qualcuno aveva lasciato la propria fede nuziale, chi persino una medaglietta di san Cristoforo, patrono dei pellegrini e dei viaggiatori, forse una beffa nei suoi confronti? Un altro ancora si era strappato via tutti i bottoni della camicia, e temendo che questi non bastassero volle levarsi pure l'indumento un po’ lacero, ma il vecchio lo rassicurò dicendogli che i bottoni erano più che sufficienti per pagare la traversata.

Lo straniero porse al traghettatore la sua moneta d'argento e si sedette un po’ vacillante da una gamba sulla tavola trasversale della barca.

Fissò con interesse il vecchio mentre con lenti movimenti preparava la barca per il viaggio. Sciolse la cima dal pontile e inforcò la lunga pertica. Non c'era vento, non c'era bisogno di governare le vele; affondò l'asta di legno nelle acque scure e calme fino a toccarne il fondo e spinse con le braccia forti facendo muovere l'antica imbarcazione.

Aveva soltanto un mantello annodato alla vita, la sua pelle era un po’ scura come bruciata dal sole, un sole che mai era penetrato in quell'immenso antro semioscuro. Solo alcuni raggi di luce trapassavano la sommità di quel cielo tenebroso. Forse era la luce del sole, forse quella del Paradiso, ma non aveva importanza.

Vecchio e canuto, come pure i suoi peli nel petto, aveva un'espressione dura e provata dai secoli, i suoi occhi che un tempo dovevano essere stati crudeli sembravano ora molto stanchi.

C'era un silenzio surreale in quel posto sinistro, un silenzio che mai lo straniero aveva immaginato potesse esistere, rotto solamente dal leggero sciabordio dell'acqua provocato dalla lunga pertica.

- Sei ... Caronte? - domandò con voce incerta.

- Mi chiamano in tanti modi diversi - rispose il vecchio, - e questo è uno dei tanti. - La sua voce era roca ma dal tono rilassato, piacevole da ascoltare.

- Nel mondo dei vivi vieni descritto come un crudele demonio con gli occhi di fiamma. -

- Un tempo lo ero, i secoli cambiano molte cose, forse lo sarò ancora nell'avvenire. Anche il fiume cambia umore di continuo, da calmo può divenire impetuoso in un istante. Tutto può accadere nell'Eterno. -

- Dev'essere faticoso attraversare all'infinito questo immenso fiume. -

- Lo è. -

- Paradiso o Inferno, la riva è incerta per ognuno di noi. -

- La nostra riva è una soltanto. Conosco solo quella, e la conosci pure tu. -

- Si, la conosco. -

- Quale orrendo crimine hai mai commesso per meritarti il Tormento Perenne? -

- L'amore - rispose lo straniero con occhi tristi.

- La gelosia, certo. È cosa molto comune in molti animi. Hai tolto la vita alla tua donna o al suo amante? -

- No, niente del genere. Faccio questo viaggio perché ho amato troppo. -

- Non si merita l'Inferno per aver amato troppo. L'amore non condanna. -

- Dipende da quanto esso sia grande. -

 Mi piacerebbe conoscere la storia di questo tuo grande amore. -

Lo straniero guardò in direzione opposta da quella in cui erano partiti cercando di intravederne in lontananza la riva antistante.

- Quanto è lontana la riva? -

- Il tragitto è lungo un'intera vita. Abbiamo tutto il tempo che serve. -

- Il tempo - sospirò massaggiandosi la gamba che sembrava dolorante - ti sfugge tra le dita come fosse sabbia senza nemmeno rendertene conto. E il mio amore è stato così breve …

- La conobbi in mezzo alla morte, quella morte che poteva essere la mia. A dire la verità conobbi prima le sue mani che stringevano la ferita sulla mia coscia squarciata da una scheggia di granata. Tentavano disperatamente di fermare il sangue che scorreva a fiotti. Il dolore era orribile, il mio corpo era scosso dai tremiti, avevo molto freddo. Brividi gelidi che mi fecero conoscere la vera paura. E ne avevo davvero tanta. Volevo tornare a casa dalle mie sorelline e dalla mia dolce e cara madre. Mi trovavo molto lontano da loro, non volevo morire in un posto sconosciuto circondato da tanto dolore e da tanta sofferenza. Sapevo che in molti non tornavano a casa neanche da morti, io non volevo fare quella fine.

- Mi stavo lasciando trasportare da uno strano sonno che sembrava lenire la paura e il dolore alla gamba, ma la sua voce mi riportò indietro. Continuò a parlarmi finché non mi svegliai del tutto. I miei occhi velati dalla sofferenza ripresero a vederci chiaro. Il suo viso sembrava quello di un angelo, i suoi occhi neri quelli di un cerbiatto appena nato. Fra i capelli aveva una fascetta bianca con una croce rossa dipinta. Altre mani si presero cura della mia gamba, la morfina attenuò il dolore e la prognosi non sembrò così infausta. "Non temere mio giovane soldato" mi disse con il suo bel sorriso e le mani imbrattate del mio sangue. "Non corri più nessun pericolo." - "La paura stessa trema al solo contatto delle tue mani" pensai, o forse lo dissi ad alta voce, non ne ero sicuro, lei sembrò udire le mie parole e la sua bocca e i suoi occhi mi sorrisero ancora.

- Restai in convalescenza per qualche giorno in una delle numerose tende allestite per il ricovero dei feriti. Ero giovane e piuttosto forte, mi riebbi in fretta e non tardai a rimettermi in piedi con l'aiuto di un bastone. Avrei dovuto usarlo per il resto dei miei giorni, ma non mi importava, i miei pensieri tornavano sempre verso quegli occhi che mi sorrisero e quelle mani che mi salvarono la vita. Volevo rivederla.

- Ci trovavamo nei pressi di Minturno, nei boschi dei monti Aurunci. Io facevo parte della 5° divisione di fanteria della Gran Bretagna; avevamo il compito di far sloggiare la Wehrmacht dal paese una volta per tutte, anche se sembrava un compito non facile. Le forze armate tedesche erano piuttosto forti e le perdite su entrambi i fronti erano ingenti.

- Mia madre italiana e il mio defunto padre inglese, ma anche lui delle sue stesse origini, mi permisero di essere poliglotta, ero molto ferrato in entrambe le lingue. Scorreva molta Italia nelle mie vene.

- Mi informai in giro sulla mia infermiera; seppi che era originaria di Roma, che si era offerta come volontaria al seguito delle truppe alleate, e cosa più interessante, non era sposata. La rividi una sera mentre facevo sgranchire la mia povera gamba indolenzita per il campo. Faceva molto freddo, aveva uno scialle sulle spalle, si diresse verso la grande tenda allestita come dormitorio delle infermiere e io la seguii. Era piuttosto affollata da persone di entrambi i sessi che entravano e uscivano di continuo; da una radio proveniva una musica molto allegra, l'intero posto era allegro.

- La cercai e la vidi in fondo alla tenda in quella che doveva essere la sua branda, mi avvicinai verso di lei. Si levò lo scialle e il grembiule macchiato del sangue dei feriti e si sedette sul letto tenendosi la testa tra le mani, sembrava molto stanca. Restai a guardarla appoggiato al mio bastone per non so quanto tempo senza dire niente. Avevo intenzione di ringraziarla per quanto aveva fatto per me quel giorno che ormai non ritenevo più così orribile, ma stranamente non riuscii a trovare le parole. Dalla mia bocca non uscì nient'altro che gli sbuffi di vapore del mio respiro caldo.

- Fu lei a rompere quell'imbarazzante silenzio che ci separava, alzò la testa e i suoi occhi mi sorrisero ancora riconoscendomi. "Mio giovane soldato" disse. "Sapevo che un giorno ti avrei rivisto." Forse fu solo una mia impressione, oppure era la semplice voglia di desiderarlo, ma mi sembrò che i suoi occhi luccicassero a quelle parole. Si alzò dalla branda e si avvicinò a me. La sua mano si posò delicata sulla mia guancia; era calda e il mio corpo si riscaldò al suo contatto. "Ma non pensavo succedesse così in fretta" finì di dire lei. "Temevi che me ne sarei restato fermo su un letto sapendoti in giro a correre in mezzo ai pericoli da sola?"

- Non riuscii a credere a quello che le dissi, le parlai come se l'avessi conosciuta da sempre. Forse era così, forse in un altro posto o in un altro tempo lo era davvero. Il destino a volte si diverte a giocare con le vite delle persone, e con noi forse aveva già deciso di farci ritrovare un'altra volta. "La mia paura svanisce al suono della tua voce" disse. Mi cinse con le sue braccia appoggiando la sua testa sul mio petto, la strinsi forte anch'io. Fu uno strano incontro, uno strano abbraccio. Strano ... e bello. -

(Continua)


5

Il Meeting dell’Azienda.

La vita alla trivella scorreva regolarmente ed io ero a tutti gli effetti un operaio come gli altri. Salivo e scendevo dalla torre quando necessario, aprivo o chiudevo le valvole quando me lo chiedevano, aiutavo assieme agli altri in tutto. Mi evitavano soltanto i lavori più faticosi.

Un giorno mio padre mi disse che saremo andati in città perché c’era il meeting trimestrale. Era la riunione di tutti gli ingegneri e dirigenti dell’Azienda. Si faceva il punto della situazione e si organizzava il lavoro per il trimestre successivo. Durava due giorni, il sabato e la domenica. Dovevamo andare in macchina perché l’elicottero era impegnato.

Arrivammo la sera precedente e ci recammo subito nella nostra stanza. Papà era stanco per la lunga guida e fece portare la cena in camera.

Il giorno dopo la riunione preliminare si teneva nella sala delle conferenze ed io vi assistetti seduta in prima fila accanto a mio padre. Alcuni relatori parlavano in inglese e per chi aveva bisogno c’erano le cuffie per la traduzione simultanea. Io le utilizzai. Nella sala eravamo oltre cinquanta persone e dietro a noi, sul lato opposto vidi che c’era anche il giovane ingegnere.

Il pomeriggio papà era impegnato in una riunione ristretta ed io scesi nella hall e mi sedetti in una poltrona a leggere un libro. Poco dopo arrivò l’ingegnere. Lo salutai cordialmente, ma lui era impacciato. Chiese il permesso di sedersi, parlammo del più e del meno. Poi mi invitò al bar e ci sedemmo ad un tavolo abbastanza isolato. Ad un certo punto mi disse che non riusciva a dimenticarmi, che era sempre più innamorato di me, ed era profondamente infelice.

Gli carezzai la mano per cercare di consolarlo. Lui prese la mia, la portò alle sue labbra e la baciò. Non ebbi il coraggio di ritirarla e lui continuava a baciarla. Mi chiese di fare l’amore con lui almeno una volta. Voleva che lo seguissi nella sua stanza. Io non riuscivo a interrompere l’incontro perché provavo tenerezza nei suoi confronti, ma contemporaneamente ero ferma nel non farmi coinvolgere. Lui continuò a supplicarmi ed io a rifiutare.

Ad un certo punto spuntò mio padre, si avvicinò al tavolo e si salutarono cordialmente. Lui lo ringraziò calorosamente per la relazione molto positiva che mio padre aveva fatto sul suo lavoro. L’ingegnere della direzione glie lo aveva riferito e si era complimentato. Poi io e mio padre andammo a cena.

Quando tornammo in camera mio padre mi chiese cosa mi avesse detto. Gli riferii chiaramente che mi aveva chiesto di fare l’amore, ma precisai subito che non avevo accettato. Mio padre mi guardò e mi disse “Hai fatto male”. Alla mia sorpresa per le sue parole ribadì che avevo sbagliato. E, alla mia richiesta di conoscere il motivo disse “Perché anche tu volevi fare l’amore con lui”.

Alle mie proteste che non era vero, disse “Non mentire, ti si legge negli occhi che lo desideri”. Dovetti ammettere che aveva ragione. E aggiunse “Se domani te lo chiede di nuovo, sai cosa devi fare. Se te lo chiede e tu rifiuti lo rimpiangerai per tutta la vita. E io vorrei che tu non avessi rimpianti”.

Stentavo a capire, ma a poco a poco mi resi conto che aveva ragione. Mentre più tardi facevamo l’amore ad un tratto mi disse “Promettimi che domani se te lo chiede, andrai a letto con lui” ed io promisi.

Anche il giorno dopo mio padre era impegnato in riunioni ed io scesi nuovamente con il mio libro nella hall. Seduta sul divano cercavo di leggere, ma non riuscivo per l’agitazione. Dopo un poco arrivò anche lui e ci mettemmo a parlare. Non avevo, come sempre, il reggiseno ed avevo lasciato sbottonati gli ultimi tre bottoni della camicetta. Notai che lui guardava con insistenza verso il mio seno. Ad un certo punto mi disse “Hai un seno bellissimo … mi piacerebbe tanto baciarlo …”.

Mi alzai. Lui mi guardò sorpreso e perplesso. Credo che temesse che mi fossi offesa. Aspettava la mia mossa successiva.

- Andiamo – dissi.

- Dove? – chiese.

- Nella tua camera … – continuava a guardarmi senza muoversi e senza capire – Non hai detto che vuoi baciare il mio seno?

Finalmente capì e si alzò. Facemmo le scale quasi di corsa. Quando arrivammo davanti alla porta della sua camera c’erano le cameriere che uscivano in quanto avevano appena terminato di riordinarla. Ci videro entrare e chiuderci velocemente a chiave dall’interno. Immagino che capirono il motivo della nostra fretta.

Appena chiuse la porta affondò il suo viso nella scollatura della mia camicetta, la sua bocca cercava il mio seno e prese a baciarlo ed a succhiarlo. Poi mi spogliò, si spogliò anche lui e ci buttammo sul letto. Eravamo tutti e due affamati l’uno dell’altra. Ci baciavamo, ci leccavamo, ci toccavamo, ci succhiavamo l’un l’altra. Senza sosta, sempre, in continuazione. Fu una mattinata di fuoco. Facemmo l’amore per tutta la mattina senza interruzione.

Sospendemmo solo perché dovevamo riordinarci e scendere giù perché mio padre sarebbe tornato per il pranzo.

Mentre scendevamo le scale arrivò un messaggio di mio padre che mi diceva di pranzare perché la riunione continuava senza interruzione e loro avrebbero fatto uno spuntino veloce sul posto. Pranzammo velocemente e ritornammo immediatamente nella sua camera.

Riprendemmo a fare l’amore con maggiore foga di prima. Anche il pomeriggio fu di fuoco … un fuoco ininterrotto.

Ad un certo punto smettemmo esausti. Io mi feci forza e mi rivestii. Volevo tornare nella mia stanza e riordinarmi prima che tornasse papà. Glie lo dissi e lui capì, ma non aveva la forza di muoversi dal letto. Uscii e tornai nella mia camera.

Ero stanca morta ed avevo il sesso in fiamme. Mi bruciava tantissimo per quante volte avevamo fatto l’amore. Mi spogliai, cercai di guardarmi, ma non potevo toccarlo, il dolore era troppo forte. Mi feci una doccia e cercai di lavarlo il più a lungo possibile e con la maggiore delicatezza possibile. Mi asciugai e mentre uscivo nuda dal bagno arrivò mio padre.

Vide che camminavo con difficoltà.

- Cos’hai? - Chiese.

- Niente.

- No, non si cammina così per niente. Cos’hai?

- Mi brucia – sussurrai e lui capì.

- Hai fatto molto sesso?

Risposi di sì con il capo.

- Hai una pomata … una crema?

- No, non ho nulla.

- Mettiti a letto e riposati. Ora torno. – E uscì.

Tornò dopo un po’ di tempo. Aprì una confezione e tirò fuori una siringa con un lungo beccuccio.

- Questa dovrebbe farti calmare il bruciore. Cercherò di fare con delicatezza.

Penetrò con il beccuccio dentro la mia vagina e svuotò una parte della siringa, l’altra parte la sparse con delicatezza sul sesso e mi fece indossare un paio di mutandine di cotone.

Poi ordinò la cena in camera.

Durante la cena gli chiesi:

- L’hai comprata in farmacia?

- In una farmacia particolare – rispose. E di fronte alla mia perplessità precisò: – in un porno shop.

L’indomani mattina mentre eravamo in macchina e tornavamo alla nostra base mi disse:

- Hai visto che avevo ragione?! La giornata di ieri te la ricorderai finché vivrai. Sarebbe stato per me un grave cruccio se per colpa mia tu avessi rinunziato a questa occasione.


6


La scuola guida.

Nel piazzale di fronte all’edificio residenziale c’erano tantissime macchine fuori strada, alcune rustiche, altre più confortevoli. Mi venne il desiderio di imparare a guidare e chiesi al capocantiere se mi insegnava. Si dichiarò immediatamente disponibile.

Cominciammo con le prime manovre nel piazzale, mi insegnò a mettere in moto, partire e poi fermarmi. Facendomi ripetere la manovra molte volte. Inizialmente facevo fare alla macchina dei salti alla partenza e facevo spegnere il motore quando mi fermavo, ma poi imparai. Il giorno successivo mi fece ripetere gli stessi esercizi fino a quando imparai a coordinare perfettamente i piedi su acceleratore, freno e frizione.

Mi disse che imparavo velocemente e il terzo giorno cominciò a farmi fare anche la marcia indietro. Poi passò alle manovre. Mi faceva entrare e uscire dal posteggio, passare tra due ostacoli molto stretti, che predisponeva in precedenza e continuò a farmi fare queste manovre fino a quando io riuscii a compierle in maniera precisa ed anche veloce. Diceva che era molto importante che “mi facessi l’occhio alla guida”.

La settimana seguente mi portò sulla strada che collegava il nostro cantiere con l’Isola che distava circa 20 km. Era tutto un rettilineo dritto senza neanche una curva. Facemmo un lungo tratto di strada e tornammo indietro senza incontrarne nessuna macchina. Fu una bella esperienza di guida.

Il secondo giorno la stavamo ripetendo. Ad un certo punto vidi una macchina che ci veniva incontro. Quando la incrociammo sfrecciò a grande velocità accanto a noi.

- Vede, signorina, qui guidano come pazzi e se la strada è stretta si può perdere il controllo sia del bordo della strada come pure dello spazio che ci serve per passare senza incidenti. – Feci cenno di sì con la testa; avevo capito bene quanto fosse importante “farsi l’occhio” e valutare esattamente e con precisione lo spazio disponibile e come fossero necessari tutti quegli esercizi che mi aveva fatto fare.

Tutta la seconda settimana fu impiegata a fare pratica sulla strada e a prendere padronanza di automobili di marca diversa e della loro guida. Gli chiesi di farmi guidare anche fuori della strada. Mi rispose che lo avremmo fatto al momento opportuno. Era necessario che prima mi esercitassi bene sulla strada.

Un giorno mi portò vicino ad un camion. Lo guardai. Mi chiese se volevo provare a guidarlo. Risposi di sì. Salimmo e misi in moto. Mi resi subito conto che era un mezzo ingombrante, ma che con molta attenzione riuscivo a padroneggiarlo pienamente. Lo usammo tre volte e poi tornammo al fuoristrada.

Scelse una vecchia Land Rover. Fatti pochi chilometri mi fece rallentare e mi indicò un passaggio da cui si poteva uscire dalla strada. Avremmo fatto fuoristrada! Guidavo molto adagio e con precauzione sul terreno accidentato a fianco della strada. Poi cominciai a rendermi conto del terreno e aumentai un poco la velocità. Dove c’erano passaggi difficili lui mi diceva di rallentare o mi indicava le deviazioni per evitarli.

Così fu per tre o quattro giorni. Poi mi addentrai nel deserto. Il percorso era molto più accidentato e più impegnativo. Dopo un poco mi disse di tornare indietro. Anche il giorno seguente ci addentrammo nel deserto. Questo tipo di guida mi piaceva ed anche mi eccitava. Era molto adatto alla mia natura selvaggia. Ad un certo punto mi fermai al riparo di una collina. Avevo desiderio di fare sesso con lui.

Mi chiese subito perché mi fossi fermata. Gli sorrisi. Mi disse subito con un tono autoritario, che non aveva mai usato nei miei confronti, di mettere immediatamente in moto e tornare subito indietro. Ubbidii. Nel frattempo da una tasca nascosta dell’interno del suo giubbotto tirò fuori una pistola e la posò nel vano aperto del cruscotto della macchina. Era una grossa pistola, doveva essere una calibro nove. Da un’altra tasca tirò fuori due caricatori e li posò accanto alla pistola. Notai che con lo sguardo spazzolava incessantemente il terreno attorno e dietro a noi.

Ad un certo punto mi mostrò le tracce di un’auto. “Vede, signorina, quelle tracce sono fresche e non sono nostre. Talvolta il deserto non è così deserto come appare. Non ci venga mai da sola. Anzi non ci venga mai senza di me”.

Poi, poco prima di arrivare a casa disse: “Forse è meglio che non dica nulla a suo padre. Lo farebbe preoccupare inutilmente. Il mio potrebbe essere stato un eccesso di precauzione”.


7


I miei capelli.

Un giorno mio padre mi disse che doveva tornare in città perché doveva incontrare un dirigente dell’azienda, sarebbe andato con l’elicottero. Gli chiesi se potevo accompagnarlo. Precisò che non avrei potuto partecipare al suo colloquio. Gli dissi che se c’era un negozio di parrucchiere avrei voluto farmi sistemare i capelli. Mi disse che l’avremmo sicuramente trovato.

Questa volta fu il giovane ingegnere a fare da primo pilota.

Cercammo un negozio di parrucchiere, entrammo e mio padre disse loro di fare quello che chiedevo, lui sarebbe tornato dopo un paio d’ore ed avrebbe pagato il conto.

Il parrucchiere mi fece accomodare su una poltrona davanti ad uno specchio e cercava di capire quello che io gli dicevo. Lui non parlava inglese ed io non capivo la sua lingua. Io dicevo che volevo tagliati i capelli a zero come un maschio e lui continuava a lisciare e accarezzare i miei lunghi capelli, e, da quello che mi sembrava capire, continuava a lodarli.

Ad un certo punto disperata per il fatto che non riuscivo a farmi comprendere presi un paio di forbici che erano sul banco davanti a me e zac con un taglio netto tagliai un ciuffo dei miei capelli sul davanti. Lui fece un grido di spavento e tutti si voltarono a guardarci. Per tutta risposta afferrato un altro ciuffo di capelli tagliai anche questo di netto.

Tutto tremante prese un catalogo di pettinature e sfogliatolo mi mostrò una pettinatura con il taglio quasi a zero. Dissi a parole, ma principalmente a gesti e ripetutamente di sì. Anche lui assentì: aveva capito. Ma continuava a parlare con accento nettamente contrariato anche se io non capivo cosa dicesse. Ripresi le forbici in mano e feci cenno di tagliare ancora i miei capelli. Mi tolse delicatamente le forbici dalle mani e faceva ripetutamente cenno di “sì” con la testa.

Nel frattempo una ragazza del negozio, con in mano un cestino di paglia intrecciato, aveva raccolto i miei capelli da terra e ve li aveva riposti religiosamente ordinati. Il parrucchiere cominciò a tagliare i miei capelli e a deporli con grande cura nel cestino che la ragazza teneva.

Mentre tagliava borbottava e scuoteva la testa. Immagino che fosse in completo disaccordo con quello che stava facendo. Quando i capelli furono tagliati corti prese nuovamente il catalogo e mi mostrò diversi tagli. Io indicai quello a spazzola e lui si mise a parlare, ma io non riuscii a capire nulla di quello che voleva dirmi. Mi passai una mano sui capelli tagliati. Notai che erano belli rigidi, quasi ispidi e tornai a indicare la figura del taglio a spazzola. Finalmente fece cenno di sì. E si mise a rifinire il taglio.

Quando completò tutto mi guardai allo specchio. Il mio viso era completamente trasformato: era libero e luminoso, i capelli cortissimi mi davano un aspetto da maschio impertinente, ebbi immediatamente la sensazione che la mia personalità ora risaltava nella sua reale essenza. Mi piacque moltissimo il mio nuovo aspetto, la mia nuova fisionomia, compresi che adesso il mio aspetto esprimeva pienamente la mia personalità. Mi girai verso di lui e gli strinsi ripetutamente la mano in segno di ringraziamento. Mi fece un gran numero di inchini.

Ero molto soddisfatta. Finalmente anche lui appariva soddisfatto. Prese una macchina fotografica e mi chiese il permesso di fotografarmi. Acconsentii. Poi arrivò la ragazza con un pacchetto trasparente confezionato: erano i miei capelli. Feci cenno che non li volevo. Tornò il parrucchiere. Prese il pacchetto e me lo porse con un inchino. Io lo presi in mano e poi glie lo restituii. Gli feci capire che erano suoi poteva tenerli. Si mise a fare inchini di ringraziamento.

Quando arrivò mio padre e mi vide rimase impietrito, esterrefatto, poi si scosse, ma non disse niente. Parlò con il parrucchiere e lui andò a prendere il pacchetto con i miei capelli. Mio padre parlò nuovamente. Lui prese una piccola ciocca dei miei capelli, ne fece una piccola confezione che consegnò a mio padre. Poi porse anche il pacco grande, ma mio padre gli fece cenno che poteva trattenerlo. Pagò ed andammo via.

Andammo al ristorante a pranzare e poi con il taxi ci recammo all’aeroporto. La prima persona che incontrammo fu l’ingegnere che appena mi vide restò anche lui impietrito senza profferire parola. Notai che gli tremavano le mani. Poi lo vidi confabulare con l’altro pilota. Questo poi chiamò in disparte mio padre e parlarono tutti e tre. Si perse ancora altro tempo e poi finalmente partimmo.

Quando rientrammo gli operai erano a cena nel salone. Appena io e mio padre apparimmo sulla porta ci fu di colpo un silenzio assoluto: tutti guardavano me sbalorditi. Poi uno si alzò e cominciò a battere le mani. Scoppiò un applauso generale e molti si avvicinarono per complimentarsi. Quella sera mio padre offrì spumante a tutti e io divenni ufficialmente la mascotte della Trivella n.29.

La sera a letto mio padre mi disse “Non era più in condizione di pilotare l’elicottero per lo shock. Hanno dovuto modificare il piano di volo ed attendere l’ok della torre di controllo. Gli tremavano le mani. È proprio cotto di te!”


8


Sedici anni. Il viaggio con mio padre.

All’inizio dell’anno ricordai a papà la promessa di preparare i documenti per andare con lui la prossima estate. Per prima cosa mi mandò in agenzia per fare il passaporto. Poi alla stessa agenzia fu dato l’incarico di fare le pratiche per il visto di ingresso.

Nel frattempo lui aveva fatto alla sua azienda la richiesta di potermi portare con sé sul luogo di lavoro. Mi comunicò che il permesso in via eccezionale gli era stato accordato. Aggiunse che stava facendo ampliare il suo appartamento.

Mi fece comprare due tute gialle e un casco della misura della mia testa. Mi raccomandò di non guardare a spese per il casco. Doveva essere comodo e ben imbottito internamente perché dovevo indossarlo sempre quando stavo sulla trivella. Inoltre mi dovevo comprare due paia di scarponi comodi, delle calze di lana e dei vestiti adatti per vivere nel deserto.

Oltre a frequentare la scuola ci preparavamo per le olimpiadi. Il professore ci seguiva ed ogni tanto in classe ci faceva fare alla lavagna gli esercizi più difficili.

Ci presentammo alla Gara del nostro Distretto e con soddisfazione sia nostra, che degli insegnanti come pure delle nostre famiglie superammo gli esami, con grande entusiasmo della classe. Festeggiammo tutti insieme ad un pranzo offerto al ristorante da mio padre. Purtroppo non ottenemmo lo stesso risultato per entrare nelle finali, ma ce lo aspettavamo. Era ancora troppo presto. Avremmo riprovato l’anno successivo.

La fine dell’anno sembrava non dovesse arrivare mai, tanto era il mio desiderio di partire con mio padre. Ero certa che sarebbe stata una bella avventura e avrei realizzato il mio sogno.

Finalmente un sabato mattina partimmo. Dopo circa quattro ore di volo l’aereo atterrò. All’aeroporto sbrigammo le formalità di ingresso e ritornammo sulla pista dove c’era un elicottero ad attenderci. Prima di salire dovemmo indossare il casco con il microfono incorporato e partimmo. Un’altra ora di viaggio.

Prima sorvolammo la città. Mi resi conto che era parecchio grande. Dopo cominciò la zona non coltivata. Il terreno non era piano. Colline rocciose si alternavano con zone pianeggianti o con vallate. Ad un tratto notai una trivella, ma era lateralmente e l’elicottero proseguì dritto. Rivolta verso mio padre chiesi che ora fosse. “Le 15 e trenta, signorina” rispose una voce. Doveva essere stato uno dei piloti.

Guardai il sole, era alla mia sinistra, era pomeriggio “Stiamo andando verso Nord?” chiesi. “Esatto, signorina” rispose la stessa voce. Mi sembrò strano sentirmi chiamare “signorina”. Fin a quel momento tutti mi avevano dato del “tu”.

Guardavo con interesse dal finestrino. Il panorama era sempre lo stesso ma mi affascinava. Notai una seconda trivella e dopo un po’ una terza. Poco dopo la voce disse ancora “Siamo sopra l’Isola, signorina, fra cinque minuti arriviamo”. Guardai in giù e vidi delle case e terreno brullo tutt’intorno. Subito la voce aggiunse “Scusi signorina, non mi sono spiegato bene, l’Isola è il centro commerciale vicino a noi”.

Ad un tratto il rumore dei motori cambiò tono ed ebbi la sensazione che l’elicottero rallentasse la sua corsa. Vidi che si abbassava e davanti a noi comparve la cima di una torre di ferro. Capii che eravamo arrivati. L’elicottero rimase fermo sospeso nell’aria. Fu una sensazione strana. L’elicottero si girò. Non vedevo più la trivella, ma una casa bassa e diverse persone a distanza.

Poi i motori tacquero e l’elica rallentava i suoi giri. Si potevano distinguere nettamente le sue pale che giravano. Uno dei piloti scese e aprì la porta dal lato di papà che scese, poi porse la mano a me per aiutarmi a scendere. “Benvenuta alla trivella numero 29, signorina” disse mentre scendevo.

Mentre ci allontanavamo dall’elicottero un uomo uscì dal gruppo che ci attendeva. Era alto, robusto, un bell’uomo, abbronzato dal sole, doveva avere circa quaranta anni, anche lui indossava la tuta gialla e il casco.

- Bentornato Ingegnere - disse porgendo la mano a mio padre.

- Bentrovato, Giacomo, tutto a posto? - rispose mio padre.

- Sissignore.

- Ti presento mia figlia. – poi rivolto a me – Giacomo qui è il capocantiere, cioè il mio braccio destro.

- Onorato, signorina. Benvenuta in questo inferno! Cercheremo di rendere il suo soggiorno meno duro possibile.

Nel frattempo il pilota che mi aveva aiutato e scendere dall’elicottero si era toto il casco e si avvicinò. Era un giovane sui trent’anni.

- Ti presento l’ingegnere X, - disse mio padre – una persona eccezionale, peccato che fra non molto lo trasferiranno.

- Non era lui che ha pilotato l’elicottero? – chiesi io.

- No, signorina, io ho fatto solo il secondo pilota.

- Sì – disse mio padre – lui è ingegnere minerario, e fra le tante cose che fa, è anche pilota di elicotteri. Mi dispiace proprio perderlo. Ma sono contento per lui che sarà promosso a ingegnere dirigente.

Nel frattempo alcuni operai si erano avvicinati e salutavano calorosamente mio padre che ricambiava i saluti e mi presentava. Mi resi conto che ero già l’oggetto della curiosità di tutti.

Entrammo nella casa. Dopo l’ingresso c’era un salone con tanti tavoli. Poi seppi che era la sala comune e che faceva anche da sala da pranzo. Da lì entrammo in un corridoio, molto largo. Mio padre aprì la seconda porta sulla sinistra ed entrammo in un soggiorno molto spazioso. Due persone che trasportavano i nostri bagagli li depositarono su un lato della stanza e andarono via.

- Questo è il nostro appartamento – disse mio padre – questo è il soggiorno, lì di fronte c’è la zona cucina, qui a sinistra c’è il mio ufficio e la porta precedente è la sala d’attesa. Ha il suo ingresso dal corridoio. Questa è la tua camera da letto – disse mostrandomela – questa è la mia camera e qui c’è il bagno.

- Lo utilizzo subito – dissi io. Quando uscii mio padre disse:

- Per l’orario di cena ci sono ancora tre ore. Voglio mettermi a letto e riposare.

- Anche io mi voglio riposare. Mi posso mettere a letto con te?

- Ti vuoi riposare assieme a me? Fai come vuoi. Io vado un attimo in bagno.

Andai nella sua camera, mi spogliai restando solo con le mutandine e mi infilai sotto le lenzuola. Lui arrivò si tolse la giacca, la camicia, le scarpe e i pantaloni restando con la maglietta e le mutande e mentre si metteva sotto le lenzuola mi vide e disse.

- Sei nuda!

- Sì – risposi e lo abbracciai. Poi cercai la sua bocca e lo baciai, anzi ci baciammo …

Quando finimmo di fare l’amore poggiò la testa sulla mia spalla vicino al collo e disse sottovoce “Era da tanto che lo desideravo …” Lo abbracciai forte forte.

La prima cosa che scoprii fu che il tempo era scandito da una sirena. Tre suoni brevi indicavano che fra un’ora c’era il cambio del turno. Questo veniva annunciato con un fischio lungo. Altri fischi annunciavano il pranzo o la cena.

Ci vestimmo per andare a cena. Nella sala comune, vicino al banco del bar c’era il capocantiere. Mio padre lo invitò a sedersi al nostro tavolo. Si fece fare il resoconto di tutto ciò che era accaduto durante la sua assenza. Io ascoltavo in silenzio, anche se capivo soltanto una parte di ciò che dicevano, comunque cercavo di non perdere neanche una parola.

Ad un certo punto entrò nella sala l’ingegnere pilota. Mio padre gli fece segnale di avvicinarsi e fece sedere anche lui con noi. Era molto interessato a ciò che discutevano mio padre e il capocantiere e di tanto in tanto aggiungeva qualche commento. Io ascoltavo in silenzio, anche se con la coda dell’occhio cercavo di osservarlo.

Più tardi, mentre a letto facevamo nuovamente l’amore, mio padre rimarcò la bravura e le capacità di entrambi.


9


Una visita improvvisa.

Il giorno dopo, domenica, stavamo facendo colazione in soggiorno quando suonò il campanello del cancello esterno. Andò al citofono, rispose e aprì. Poi rivolto verso di me disse:

- È il tuo professore di matematica, ha visto la mia macchina ed è passato a salutare.

Io ero completamente nuda mentre lui invece aveva addosso un paio di pantaloncini. Mi precipitai nella camera da letto, indossai un paio di mutandine, sopra ci misi il vestito scamiciato che portavo spesso, mi spazzolai i capelli e rientrai in soggiorno.

Appena il professore mi vide rimase visibilmente sorpreso.

- Scusate … non sapevo … ho disturbato … vado via subito.

- No, professore, non disturba affatto. Così ha la prova che quello che le dissi una volta è assolutamente vero. Non era una spacconata.

- Cosa mi hai detto, una volta? Non ricordo.

- Le dissi che ero una ragazza assolutamente libera …

- Ma io non avevo capito che tu intendessi in questo senso.

- Beh, ora lo sa. – guardai il mio amico che sorrideva. Proseguii – Si accomodi, ci tiene compagnia a colazione? Cosa le preparo, un cappuccino o un the, oppure cos’altro desidera, ci sono delle brioche e delle fette biscottate.

- Cosa posso desiderare di più che fare colazione con un mio carissimo amico e con una mia alunna che stimo moltissimo? Resto con piacere e sono contento che la mia presenza non abbia creato disturbo o imbarazzo.

Durante la colazione parlammo del più e del meno senza alcun imbarazzo. Fece anche un accenno alle Olimpiadi di Matematica.

Poi ci propose di andare a fare il bagno insieme. Chiamò a telefono il ragazzo che gli sbrigava le faccende inerenti la villa e gli disse di aggiungere una seconda poltroncina e una sdraio all’ombrellone che aveva già sistemato sulla spiaggia. Le nostre villette erano una accanto all’altra ed erano separate dalla spiaggia da una strada non asfaltata.

Restammo d’accordo che ci saremmo visti direttamente sulla spiaggia dopo mezz’ora.

Io indossai solo lo slip del bikini, senza il reggiseno, mi coprii con un pareo di tela ed uscimmo di casa. Il professore era già sulla spiaggia con i piedi in acqua.

Appena arrivata mi tolsi il pareo, che sistemai nella mia borsa e mi buttai immediatamente in acqua nuotando verso il largo. Con la cosa dell’occhio notai che il professore mi veniva dietro, mentre non notavo traccia del mio amico. Pensai che con la sua discrezione ci lasciava liberi.

Nuotai a lungo. Quando mi resi conto che mi ero allontanata oltre cento metri dalla riva mi fermai. Il professore mi raggiunse.

- Sei un’ottima nuotatrice – mi disse – ho fatto fatica a starti dietro.

- Il mare è il mio elemento, e il delfino è il mio simbolo.

- Che il mare sia il tuo elemento l’ho appena notato. Perché il delfino è il tuo simbolo?

- Perché i delfini fanno sesso in continuazione e lo fanno per diletto – nel frattempo manovravo le mie gambe per tenere i miei seni a pelo d’acqua. Il professore mi guardava senza parlare, forse osservava me oppure il mio seno. Continuai. – Una volta all’acquario ho visto una delfina che durante l’esibizione ogni volta che faceva un tuffo, si accoppiava con un delfino.

Il professore fece una giravolta e si tuffò sott’acqua. Anch’io feci lo stesso. Sott’acqua ci incontrammo e ci abbracciammo. Quando emergemmo le nostre bocche erano avvinghiate l’una all’altra e poco dopo anche i nostri corpi si congiunsero.

Poi rientrammo nuotando lentamente.

Sulla spiaggi mi distesi sulla sdraio. I miei seni puntavano verso il cielo. Con la coda dell’occhio notai che il professore non distoglieva lo sguardo da essi. Decidemmo di andare a pranzo assieme al ristorante del lido. Dopo la doccia ci cambiammo e scendemmo in cortile. Il mio amico prese la macchina e io mi sedetti dietro per lasciare il posto anteriore al professore.

Al ristorante parlammo del più e del meno. Ad un certo punto il professore disse che lui doveva rientrare necessariamente in città la stessa sera per degli impegni assolutamente improrogabili, ma che avrebbe fatto il possibile per sbrigarli rapidamente e ritornare in maniera da trascorrere altri giorni insieme.

Al ritorno dal pranzo il mio amico fermò la macchina davanti al suo cancello per farlo scendere. Aprii lo sportello e scesi anch’io dicendo “Vado con lui”. Passammo tutto il pomeriggio insieme. Poi, sempre insieme, salimmo a casa del mio amico. Ci salutammo e il professore partì per tornare in città. Io e “mio padre” andammo subito a letto.

Il mercoledì a mezzogiorno mentre stavamo rientrando dal mare arrivò una telefonata del professore. Disse che stava tornando e ci diede appuntamento direttamente al ristorante del lido.

Al rientro salii in macchina con il professore. Lo avevo già anticipato al mio amico che non obiettò nulla.

Furano giorni di fuoco, il pomeriggio con il professore, la notte con il mio amico-padre, ma potei affrontarli senza particolari disagi alla mia vagina in quanto mi ero portata la crema che mi aveva dato la mia amica “la fisioterapista non ancora diplomata”.

Fino alla domenica tutto si svolse in questo modo. La mattina il bagno tutti e tre a mare, poi il pranzo al lido. Il pomeriggio a letto con il professore. La cena, nuovamente tutti e tre al lido. E la notte con il mio amico-padre.

Mentre il rapporto col professore variava di volta in volta in maniera fantasiosa ed era molto scatenato, l’altro era sempre uniforme ed ero io a volerlo così: volevo che mi possedesse stando addosso a me, volevo sentire il contatto con tutto il suo corpo, e principalmente volevo che versasse tutto il suo sperma dentro di me, tutto, fino all’ultima goccia.

Una volta mi chiese il perché. “Non lo so – risposi –mi piace essere posseduta da te in questa posizione. Mi piace il contatto completo con tutto il tuo corpo. Il tuo sperma è solo per me. Credo che sia il desiderio di sentirmi in tuo possesso assoluto. Mi piace tantissimo”.

Durante l’estate con il mio compagno di classe facevamo gli esercizi e anche sesso. Ogni due settimane lui portava i nostri quaderni al professore che li ritirava per controllarli e gli consegnava quelli corretti. Gli esercizi cominciavano ad essere più difficili, per superare le difficoltà lo consultavamo telefonicamente.

Con il professore decidemmo di non incontrarci in città: dovevamo assolutamente evitare di essere scoperti. Due volte per il fine settimana scendemmo a mare tutti e tre e quelle volte facevo sesso quasi esclusivamente con il professore.

Quando c’era papà invece non mi muovevo da casa.

Una volta mi chiese:

- Ma tu stai sempre in casa? Non hai un ragazzo? Non esci con gli amici?

Gli risposi apertamente che quando lui era a casa non uscivo perché volevo stare con lui. Ma quando lui non c’era facevo una vita regolare. Gli dissi anche che non avevo un ragazzo fisso, ma che facevo sesso liberamente con diversi ragazzi e aggiunsi che mi piaceva moltissimo fare sesso. Mi guardò perplesso e mi domandò “Sul serio fai sesso con tanti?” Gli risposi che in quest’ultimo mese e mezzo di sua assenza avevo fatto sesso con tre persone diverse.

Precisai: “Non siete stati tu e la mamma che mi avete insegnato ad essere libera?” Fece cenno di sì con la testa, ma era perplesso.


10


In vacanza al mare.

Finita la scuola un sabato pomeriggio partii con l’amico per la sua villa al mare. Papà era stato due settimane con noi e quella mattina era partito per rientrare al lavoro. Mentre eravamo in macchina mi disse:

- Preparati perché ho intenzione di trascorrere una settimana di fuoco. È molto tempo che non facciamo sesso e ti desidero. E poi … è due settimane che sono a secco … - Mi misi a ridere. Poi gli dissi:

- Mi spieghi una cosa. Quando hai fatto sesso con me la prima volta la mamma ne era al corrente?

- Perché mi fai questa domanda.

- Perché mi è parso strano che la mamma mi avesse dato subito il permesso di venire sola con te a casa tua.

- Sì, tua mamma sapeva che con molta probabilità le cose sarebbero andate come sono andate.

- E come mai?

- Tua mamma non ha lasciato sempre libere te e tua sorella? E poi … lei, giustamente, pensa che almeno all’inizio sia meglio fare sesso con una persona conosciuta e di cui ci si può fidare anziché con un estraneo sconosciuto, avreste potuto finire anche nelle mani di una persona senza scrupoli o addirittura di uno stupratore.

- Quindi, lo stesso è stato anche per mia sorella?

- Sì.

- Me la togli un’altra curiosità?

- Dimmi.

- Mio padre lo sa che tu vai a letto con la mamma?

- È una risposta difficile.

- Credo che più che difficile sia un argomento delicato. Ma stai tranquillo, io sarò assolutamente discreta. E poi, come sai, ho capito subito la situazione.

- Posso parlare chiaramente?

- Certo.

- Con tua mamma ci conosciamo da quando eravamo studenti all’università.

- E a quell’epoca avete fatto sesso?

- Sì. Dopo la laurea abbiamo frequentato lo stesso istituto. E ovviamente abbiamo continuato ad andare a letto assieme. Io in quel periodo conobbi tuo padre e diventammo amici, amici tutti e tre. Poi tuo padre e tua madre decisero di sposarsi e lei decise di lasciare l’università per dedicarsi alla professione. L’amicizia è sempre rimasta solidissima.

- Tu e la mamma avete continuato a fare sesso anche dopo che si è sposata?

- Quando decisero di sposarsi abbiamo smesso. Poi tuo padre fu mandato all’estero dalla sua azienda. Per lavoro doveva assentarsi per lunghi periodi e mi chiese di vegliare su tua madre e tua sorella.

- Capisco. In pratica mio padre ti chiese di fare sesso con la mamma mentre lui non c’era. Anche per mia madre vale lo stesso discorso che per noi: meglio con te che con estranei.

- Più o meno sì.

- Ancora un’altra domanda. Non c’è il rischio che io o mia sorella siamo figlie tue?

- Per tua sorella assolutamente no. Quando è stata concepita io e tua madre avevamo smesso da parecchio tempo di fare sesso.

- E per me.

- Non c’è certezza.

- Quindi è possibile che tu sia mio padre?

- Ti ho detto che non c’è certezza.

- E mio padre e mia madre sono a conoscenza di ciò?

- Sì. – Ci fu una lunga pausa in silenzio.

Nel frattempo arrivammo alla sua villa a mare. Entrò con la macchina nel cortile. Salimmo in casa i bagagli e subito ci abbracciammo. Senza neanche parlare ci dirigemmo verso la camera da letto. Eravamo entrambi infoiati. Avevamo entrambi desiderio l’uno dell’altra, credo che i discorsi fatti in macchina avevano accentuato al massimo questo nostro desiderio.

Il pensiero che la persona che in quel momento mi stava penetrando potesse essere mio padre mi provocava una eccitazione stranissima, fortissima. Volevo che fosse veramente mio padre. Volevo che versasse tutto il suo seme dentro di me. Nel mio ventre. E ne volevo il più possibile.

Facemmo sesso a lungo e molto intenso. Poi ci addormentammo uno accanto all’altra. Quando mi svegliai i pensieri ripresero a frullare come sempre nella mente. Lui dormiva nudo accanto a me. Lo guardavo e si ripresentò in me l’eccitazione e il desiderio. Cominciai a carezzare delicatamente il suo corpo. Si girò verso di me. La mia mano continuava a carezzarlo. Aprì un occhio.

- Sei sveglia?

- Come vedi.

- Anche se mi accarezzi mi sembri pensosa. Cosa pensi?

- Pensavo una cosa.

- Parla.

- Pensavo che non mi sposerò mai. Ma, anche senza essere sposata, se un giorno decidessi di avere un figlio, verrò da te per farmi mettere incinta.

- Perché da me. Io potrei essere tuo padre …

- Tu sei mio padre, ne sono pienamente convinta. Io sono come te. E se io decidessi di fare un figlio lo vorrei come te e me. Anzi vorrei che fosse una femmina.

- Sei proprio matta …

- Dimmi ancora una cosa. Come mai non avete pensato di fare la prova del DNA?

- Veramente …

- L’avete fatta? – dissi e mi misi seduta sul letto. – Dimmi, l’avete fatta? Parla!

- Ascolta. Io parlo se tu mi assicuri che tutto resterà tra noi e non cambierà nulla.

- Tu sai che su me puoi sempre contare. Allora cosa è risultato?

- Tu sei mia figlia.

- E mio padre, quello che io ho sempre considerato mio padre, quello a cui voglio bene come un padre e a cui continuerò a voler bene sempre nella stessa maniera, lo sa?

- Sì. Lo ha sempre saputo fin dal primo momento. Anzi ha acconsentito alle analisi dopo assoluto impegno da parte di tutti noi che non cambiasse nulla.

- Io l’ho sempre saputo che sono stata sempre la sua prediletta anche se lui diceva che non era vero.

- Non deve cambiare assolutamente nulla. L’hai promesso.

- Cambierà una cosa sola: ora posso fare sesso con lui. L’ho sempre desiderato, ma ho sempre respinto l’idea perché era mio padre.

- Sei proprio matta!

- Sono figlia tua! … Prendimi!

- Sai come si definisce questo tuo desiderio? Complesso di Elettra.

- Sì, lo so. Ne ha parlato Jung. Ma io non ho alcuna intenzione di uccidere mia madre. Credo invece che sia più appropriato nel mio caso il riferimento alle figlie di Lot, quello descritto nella Bibbia, che si sono fatte ingravidare dal proprio padre. Ma episodi simili ce ne sono tanti nella storia, Salomé con suo padre Erode, le figlie dei Faraoni che si sposavano con il loro padre o con il loro fratello, Anche Erodoto parla di Ciro il grande che faceva sesso con la figlia.

E ritornammo a fare l’amore.



11

A colloquio con mio padre.

L’anno scolastico volgeva al termine. Nel frattempo tornò mio padre per la sua licenza periodica.

Un pomeriggio che eravamo, come al solito, soli in salotto all’improvviso gli chiesi.

- Questa estate durante le vacanze mi porti con te al pozzo petrolifero dove lavori? – Mi guardò in viso e mi chiese:

- Perché vuoi venire con me?

- Voglio stare con te più a lungo, voglio vedere il lavoro che fai, voglio imparare cose nuove che qui non posso imparare. Ti basta tutto questo?

- Sono interessi molto apprezzabili. Ma il posto dove io lavoro è in mezzo al deserto, tutto attorno sono pietre e sabbia, ci siamo solo quelli che lavoriamo, non ci sono comodità, c’è solo lo stretto indispensabile.

- Tu ci vivi e ci lavori, quindi ci posso vivere anche io! Ma principalmente voglio toccare con mano il lavoro che fai, non quello semplice e facile che c’è qui intorno, ma quello difficile e faticoso, quando sarò grande non voglio fare un lavoro semplice e monotono come fanno la maggior parte delle persone, voglio fare un lavoro importante come il tuo, anche se è difficile e pesante.

Mio padre mi guardò con tenerezza.

- Forse dovevi nascere maschio – disse.

- No! sono felice di essere femmina, anzi sono orgogliosa di essere femmina, ho l’intelligenza come i maschi e forse anche di più, ho la forza di volontà come loro o più di loro, nel mio gruppo mi guardano con rispetto e sono sempre pronti ad ogni mia richiesta, se voglio posso avere tutti ai miei piedi, proprio per il fatto di essere femmina sono più forte dei maschi.

Mio padre mi guardava sbalordito. Poi parlò.

- Ascolta. Ho compreso perfettamente il tuo desiderio e sono orgoglioso di avere una figlia come te. Ho sempre saputo che sei completamente diversa da tua sorella, ma non avrei mai pensato fino a questo punto. Ti voglio accontentare, ma per questa estate è impossibile. Ci sono degli ostacoli insormontabili che ti voglio elencare. Primo, per venire dove sono io oltre al passaporto ci vuole anche il visto di ingresso. Per sbrigare questi documenti quattro mesi non bastano. Secondo, per portarti dove io lavoro devo chiedere il permesso ai miei superiori. E sebbene sia convinto che mi autorizzeranno, per sbrigare la pratica ci vorrà del tempo. Terzo, L’alloggio che ho in questo momento non mi consente di ospitarti. O devo predisporre un alloggio più grande oppure un altro tutto per te. Ed anche per questo ci vuole del tempo. Facciamo così, se sarai ancora dello stesso parere ne parliamo nuovamente alla fine dell’estate, ti farai il passaporto e chiederemo il visto di ingresso. Nel frattempo io inoltro la richiesta ai miei superiori. Contemporaneamente adatterò i locali e preparerò il personale del cantiere perché tu sarai l’unica femmina lì.

Gli buttai le braccia al collo e lo baciai.

Adoro mio padre. Affronta e risolve sempre in maniera positiva tutti i problemi, anche quelli imprevisti e imprevedibili. E la mia richiesta era assolutamente imprevedibile. Era nata nella mia mente e non ne avevo mai parlato con nessuno. A me piacerebbe tantissimo essere come mio padre.


12

La notte.

Raccolsi i miei vestiti e mi diressi verso una stanza. Non mi voltai, ma mentre camminavo sentivo gli occhi di tutti puntati addosso a me. In pratica ero completamente nuda tranne il triangolino che ricopriva il mio sesso. Entrai nella stanza, seguita dal mio compagno per la notte, che, appena entrato e chiusa la porta, mi sbatté contro il muro e cominciò a baciarmi strofinando tutto il suo corpo nudo contro il mio. Ci baciammo con foga e voluttà, con un’attrazione e un desiderio fortissimo che era già iniziato durante il gioco ed ora poteva liberamente esplodere.

Era desiderio, era fame, era passione, era libidine, quella cui, tutti e due, davamo sfogo in maniera violenta. Ad un certo punto mise le sue mani sui miei seni e cominciò a stringerli e a strizzarli in maniera violenta.

Inizialmente il mio desiderio e la mia passione riuscirono a rendere il dolore non solo sopportabile, ma addirittura piacevole. Ma poi il dolore divenne fortissimo e istintivamente scattò in me un riflesso di difesa: il mio ginocchio si sollevò con forza e con violenza colpendolo in mezzo alle gambe.

Cadde a terra contorcendosi e rotolandosi per il dolore. Gli saltai addosso e stavolta fui io che presi a baciarlo ed a sfregare tutto il mio corpo nudo contro il suo, con la stessa passione e voluttà con cui lui aveva fatto con me un fino ad un istante prima. Ci rotolavamo per terra entrambi sia per il dolore, che per la passione come due animali selvaggi.

Poi fu lui che riprese l’iniziativa, si tolse lo slip e lo gettò lontano, strappò via anche il mio e dopo avermi penetrata cominciò a sbattermi con forza e con violenza. Qualche istante dopo le mie braccia e le mie gambe circondarono il suo corpo e si avvinghiarono a lui mentre un fiotto caldo fluiva dentro il mio corpo scosso dalle convulsioni dell’orgasmo …

Restammo così, a terra avvinghiati, io sotto e lui sopra, a lungo e con il respiro ansante e affannato. Poi lentamente tornammo in noi. Io allentai la tenaglia delle mie braccia e delle mie gambe. Lui si scosse, rotolò accanto a me e poi si mise a sedere. Si toccò i testicoli (sicuramente erano ancora doloranti).

- Mi hai fatto veramente male! – disse. Io chinai lo sguardo sul mio seno dove erano evidenti i lividi rossi delle sue mani e le ferite delle sue unghie.

- E tu, guarda come hai ridotto il mio seno! – Si chinò e prese a baciarlo delicatamente.

- Questo tuo seno nudo mi ha fatto impazzire. Stavo per saltarti addosso nella sala, di là, davanti a tutti … se ti avesse scelto qualcun altro sicuramente sarebbe scoppiata una lite …

- Sono contenta che la lite non sia scoppiata.

Si alzò. Allungò il braccio per aiutare a sollevarmi. Quando fui all’in piedi mi abbracciò e ci baciammo. Mani nella mano ci dirigemmo verso il letto e ci buttammo sopra come corpo morto.

Dopo un poco io avevo freddo e mi misi sotto le coperte. Si mise sotto le coperte anche lui. Ci addormentammo abbracciati, stanchi morti.

A mezzo della notte, non so se fui io a svegliarmi, oppure lui, ma il contatto della nostra pelle risvegliò in tutti e due il desiderio. Facemmo nuovamente l’amore. E lo rifacemmo per la terza volta il mattino seguente.

Mentre eravamo nudi nel bagno disse:

- Sai una cosa?

- Dimmi.

- Una notte così non l’avevo mai passata. Non mi era mai capitata. E a te?

- Identica a questa no. Ma episodi simili, belli e coinvolgenti, ne ho avuti, e non pochi … – mi guardò e non disse nulla.

Mentre mi lavavo e mi vestivo pensavo al mio ragazzo, ero curiosa di sapere con quale ragazza fosse andato a letto. Immaginavo che il suo desiderio fosse quello di andare a letto con la stessa ragazza con cui era già stato.

Pensai quanto fosse difficile per certe persone riuscire a scrollarsi di dosso la loro timidezza.


13

Lo scambio.

Nel gruppo di mia sorella c’erano diverse coppie, ma mi resi rapidamente conto che c’era anche molta “apertura mentale”. Un sabato sera, uno di quelli che primeggiava mi chiamò in disparte e mi fece il seguente discorso:

- Domani mattina sei libera?

- Sì, perché?

- Ci vediamo?

- Noi due?

- Sì, noi due, soli.

- E facciamo cosa?

- Andiamo a casa mia. I miei hanno una villa in collina.

- E facciamo sesso?

- Si … lo sapevo che tu sei molto sveglia …

- E la tua ragazza? – lui fece un’alzata di spalle – Non credo sia giusto lasciarla a bocca asciutta.

- Cosa intendi dire?

- Quanti letti ci sono in questa tua casa?

- Ci sono quattro stanze da letto.

- Bene. Andiamo tutti e quattro. Io vengo a letto con te, mentre la tua ragazza va a letto con il mio ragazzo.

- La proposta non è male … - disse dopo un attimo di riflessione.

- Allora, tu parla con la tua ragazza, io parlo con il mio … Se siamo tutti d’accordo si può organizzare.

- E se qualcuno non è d’accordo?

- Non se ne fa niente.

Gli voltai le spalle e rientrai nel gruppo. Feci un cenno al mio compagno prima con gli occhi e poi col capo e ci allontanammo.

- Domattina hai impegni? – chiesi.

- No.

- Allora ci vieni con lui e la sua ragazza – e li indicai, nel posto in cui erano già in disparte a parlare.

- Dove?

- Nella sua villa, in collina.

- A fare cosa?

- A fare sesso. Io lo faccio con lui e tu con la sua ragazza.

- Ma …

- Quali sono i nostri patti? Te li sei scordati? …

- E … la sua ragazza ci sta?

- Non vedi … stanno discutendo proprio di questo … Ho bisogno di sapere se tu ci stai?

- Hai organizzato tu?

- No. Me lo ha proposto lui.

- E tu cosa dici? – e nel frattempo guardava loro due che discutevano, o forse guardava la ragazza che era molto bella.

- Come cosa dico? Se te lo sto proponendo, vuol dire che per me va bene.

- Se tu dici così …

Nel frattempo i due si mossero e vennero verso di noi. Io con i miei occhi “spazzolavo” il volto di tutti e tre. Il mio ragazzo e la sua ragazza si scrutavano con attenzione e interesse. Quando fummo vicini nessuno parlava. Fui sempre io a rompere il silenzio.

- E allora?

- Per noi va bene. – disse il ragazzo che mi aveva fatto la proposta e guardò la sua ragazza che confermò con un cenno del capo.

- Anche per me va bene – dissi io, poi guardando il mio ragazzo chiesi – va bene anche per te?

- Sì, sì – confermò

- Allora ci vediamo qui, domani alle dieci. – dissi io.

Quello non fu l’unico incontro. Ne seguirono altri quattro.


14

Finalmente!

Gli incontri con l’amico di famiglia a casa sua continuavano. Una volta la settimana uscivo con lui e salivo sulla sua macchina. La sera mi riaccompagnava a casa. Ogni volta inventava qualcosa di nuovo e per me era una esperienza nuova e interessante, talvolta anche fantastica.

Anche le conversazioni a casa nostra continuavano con regolarità, anzi con una disponibilità sua a discutere e spiegare forse maggiore e per me erano altamente istruttive. Come ho detto erano esclusivamente conversazioni culturali e non c’è mai stato una parola o un gesto che facesse un benché minimo riferimento al sesso.

Fu in quello stesso periodo che la dottoressa durante una visita di controllo mi disse: “Da questo momento devi fare sesso sempre protetta; le mestruazioni potrebbero arrivare da un momento all’altro”. Mi fece vedere che il mio capezzolo era gonfio ed anche dentro le mie piccole mammelle si stava formando un nocciolo duro.

“O ti astieni completamente dal fare sesso, oppure ogni volta il tuo compagno deve indossare uno di questi” disse porgendomi due confezioni di preservativi “Assolutamente!” confermò con energia. Inoltre mi raccomandò di informarla immediatamente di qualsiasi novità si verificasse.

Parlò con la mamma e disse che mi voleva controllare ogni mese. La mamma mi raccomandò di seguire scrupolosamente le istruzioni della dottoressa.

Il mese successivo, il mio seno era un po’ più gonfio, ma non c’era stata nessuna novità. Così pure i due mesi seguenti.

Poi una mattina mi svegliai che ero bagnata e sporca di sangue. Avvisai immediatamente la mamma che telefonò alla dottoressa la quale fissò l’appuntamento per il pomeriggio.

Mi controllò, mi disse che quasi sicuramente era il menarca, voleva ricevere informazioni telefoniche il giorno dopo e fissò l’appuntamento per il giorno successivo ancora.

Tutto appariva regolare. Voleva informazioni telefoniche ogni giorno. Si aspettava che nel giro di due o tre giorni tutto tornasse regolare. Se non si fossero presentati problemi particolari mi avrebbe rivisto in occasione della mestruazione successiva. Nel frattempo dovevo continuare ad avere rapporti protetti.

Il mese successivo tutto si svolse regolarmente e il nuovo appuntamento fu rimandato alla mestruazione successiva. In questa occasione mi prescrisse la pillola e mi diede tutte le istruzioni del caso. Per questo primo periodo mi consigliò di continuare ad avere rapporti protetti, poi pensava che non ci sarebbe stato più bisogno.

Era tornato anche papà e un pomeriggio che eravamo insieme mi disse:

- La mamma mi ha detto che sei diventata donna.

- Sì.

- Mi ha detto anche che hai cominciato a prendere la pillola.

- Sì.

- Fai sesso?

- Sì.

- Con qualche tuo compagno?

- No. – A questa mia risposta il papà mi guardò perplesso. Dopo un attimo di pausa aggiunse:

- È … un insegnante?

- No. – Ci fu un’altra pausa di perplessità.

- È … il mio amico?

Risposi di sì con il capo. Per tutta risposta mi abbracciò stretta stretta e a lungo.

Nel frattempo finì la scuola e fui promossa al liceo.


15

Quattordici anni, la prima volta.

Mentre fino a quel momento era stata la curiosità che mi aveva portato ad interessarmi del sesso ora era divenuto dominante il desiderio di scoprirlo, di toccarlo, di fare sesso anch’io.

Ero in terza media ed avevo compiuto quattordici anni. In classe con molti alunni avevamo fatto insieme le elementari e le medie, quindi c’era molto cameratismo. Io osservavo i maschi con un certo interesse e spesso i miei occhi, senza farsi accorgere, si focalizzavano sui loro pantaloni. Ma non c’era nulla in loro che stimolasse la mia curiosità o il mio interesse.

Invece trovavo molto più interessanti i ragazzi più grandi, quelli del liceo, ma loro non mi calcolavano neanche: si fermavano a parlare e scherzare solo con le ragazze della loro età.

Non mi restava altro che continuare a parlare di sesso con le mie compagne. In particolare avevo una stretta amicizia con una ragazza con la quale siamo insieme dalla prima elementare. Chiacchierando mi disse che al computer si potevano vedere dei film porno che mostravano scene di sesso. Le chiesi se lei li aveva visti sul suo computer. Mi disse di no perché i suoi genitori avevano messo la censura al computer.

Le chiesi come sapeva di questi siti se non poteva vederli al computer. Mi disse che glie li aveva fatto vedere qualche volta suo cugino quando era andata a casa di lui. Le chiesi se con lui avesse fatto anche sesso. A casa di lui no, perché ci andava sempre con la mamma, ma che quando i suoi genitori la lasciavano sola a casa in quanto erano al lavoro suo cugino la andava a trovare e facevano sesso.

Mi chiese se avessi già fatto sesso. Le risposi di no, ma dissi che avevo voglia di farlo. Mi chiese se desideravo farlo con suo cugino, mi precisò che aveva un bel fisico (si riferiva al sesso) ed aveva anche la tartaruga sulla pancia. Se ero disposta lei avrebbe organizzato un incontro a casa sua.

La mamma non mi poneva problemi per uscire, anche se io a differenza di mia sorella uscivo molto poco, inoltre le nostre abitazioni non erano distanti, così decisi di accettare la proposta della mia compagna.

Qualche giorno dopo mi propose la data: quel pomeriggio suo padre e sua madre sarebbero stati contemporaneamente al lavoro. Così andai a trovarla. Poco dopo arrivò suo cugino, doveva avere diciassette o diciotto anni, era veramente un bel ragazzo e mi fece subito simpatia. Ci presentammo e ci mettemmo a parlare un po’ imbarazzati.

La mia amica ci propose di iniziare subito e non perdere tempo. Ci mostrò il letto che aveva preparato con le lenzuola di bucato e una tovaglia di spugna sopra. Io e suo cugino ci guardavamo senza parlare. Ad un tratto lui disse: “Spogliati, spogliati tu per prima” e fece un passo indietro.

Con la massima tranquillità cominciai a spogliarmi posando i miei vestiti sulla sedia. Tolsi anche le scarpe e per ultime tolsi le mutandine bianche di cotone. Notai subito che tutti e due soffermarono il loro sguardo sul mio sesso perfettamente depilato. “Vedi quanto è bella una fica rasata” disse lui rivolto alla cugina, poi rivolto a me indicando il letto disse “Sdraiati” e cominciò a spogliarsi precipitosamente.

Quando fu nudo vidi per la prima volta un “cazzo” vero! Stava dritto verso l’alto. Non immaginavo che potesse essere così grosso. Le figure lo mostravano così, ma una figura stampata non ti dà mai l’idea della realtà!

Lui si sdraiò subito addosso a me e cominciò e frugare con la mano e con il suo sesso contro il mio. Ad un certo punto mi disse “Alza le ginocchia e stai ferma che entro”. Ubbidii. Sentivo il suo sesso che spingeva cercando di entrare e stavo ferma immobile per aiutarlo. “Sei molto stretta” disse e spingeva con forza, lo avvertii in parte dentro di me, e poco dopo lui si accasciò addosso a me. Contemporaneamente sentii un flusso caldo dentro il mio corpo.

Rimanemmo così per un poco. Poi si alzò e andò in bagno a ripulirsi. Io, invece rimasi sdraiata a letto. Riflettevo. La sensazione più piacevole che avevo provato era stata il contatto di tutto il suo corpo nudo addosso al mio. Il rapporto sessuale forse per la mia impreparazione, o forse per la sua eccessiva velocità, per me era stato deludente. Non avevo provato dolore, ma neppure piacere.

La mia amica mi disse “Non ti preoccupare, la prima volta è sempre così. Il piacere lo prova il maschio, non la femmina!”

Tornando a casa pensavo a quello che mi aveva raccontato mia sorella. Per lei, invece, era stato molto bello!

Perché per lei era stato bello e per me no?

Pensavo a come sarebbe stato fare sesso con il nostro amico. Non ero certa, ma pensavo che mia sorella dovesse avere ragione. Un uomo adulto è molto più esperto, a me non era accaduto nulla di tutto quello che mi aveva raccontato mia sorella.


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