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Topics - Leon8oo3

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Mio padre era un uomo arrabbiato e divertente. Quando non beveva faceva la corte a qualche donna non proprio raccomandabile che puzzava di sigaretta e non sempre, per giunta, aveva fortuna. Quando non pensava né al bere né a scopare si trovava immerso in qualche casino con il lavoro. Cambiava spesso impiego, era litigioso, dal carattere irsuto come il pelo di un cagnaccio randagio, con un senso dell'umorismo tutto suo che si esaltava improvvisamente nei momenti più strani. Non usciva quasi mai nulla di buono da una sua nuova occupazione e spesso lo si poteva vedere mentre cercava negli annunci mettendo cerchi in quelli meno qualificati, che erano i più interessanti per lui: aveva più volte fatto il cameriere, il magazziniere, aveva lavorato negli alberghi, nei centri commerciali, in ditte di pulizie. Sembrava farlo apposta ad ubriacarsi nei momenti sbagliati, a fare casino e spesso era costretto a prendere la porta a volte in maniera tutt'altro che dignitosa. Ma aveva dei contatti, alcuni suoi amici che venivano da quella che lui chiamava la sua "vita di prima", lo tenevano in grande considerazione nel campo editoriale. Gli mandavano manoscritti da leggere, da commentare, da perfezionare, faceva sinossi, scartava materiale, spesso si era trovato a decretare l'uscita di un autore che nessuno conosceva. Il più delle volte se lo vedevate seduto di fronte al suo tavolino con una bottiglia di vodka a portata di mano, faceva una faccia sofferente e sembrava invecchiare di vent'anni tutto di colpo colpo. Odiava quegli scatoloni che sembravano perseguitarlo ovunque andasse, ma era l'unica cosa che lo teneva lontano dalla totale indigenza, quei quattro soldi che alcuni incravattati dirigenti e creatori di collane editoriali gli davano per fare il lavoro al posto loro. Molti facevano affidamento sul suo talento e alcuni gli pagavano regolarmente piccoli anticipi per un romanzo che, si diceva stesse scrivendo. Faceva anche traduzione in Spagnolo e inglese. Aveva il suo bel da fare, ma nessuna fretta di farlo. Era capitato che, nel suo spostarsi, potasse con sé una quantità di averi nella media di una persona comune. In altre occasioni i suoi averi si contenevano comodamente in una valigia sola. Ma con lui, che fosse ai limiti della vita da strada o attraversasse un periodo buono aveva sempre qualche busta, qualche scatola o un plico portadocumenti, con del lavoro da fare per "quei maiali", come li chiamava lui. In molti mi hanno detto che era bravo nel suo lavoro ma io non saprei che dire in merito. Di certo non era un bravo padre, non di quelli che potevano dirsi pronti al ruolo. Non era del tutto colpa sua comunque, la sua strada, come quella di tutti, del resto, era stata una continua peregrinazioni di scelte obbligate, sbagliate o giuste. Anche se il confine tra il giusto e sbagliato è notoriamente inesistente e alla fine tutto ciò che ci rimane sono le conseguenze del tutto casuali di ciò che ci accade.
Sono nata il giorno della festa della donna del 1993, già allora, da piccola, il colore dei miei capelli era rosso quasi come quelli di mia madre che li aveva solo un po' più tendenti al biondo, un docile rosso miele che sembrava un fuoco di quelli buoni, tranquilli, che non fanno danni. Ma di danni, mia madre non aveva mai smesso di farne. Prima di  finire il liceo si era messa a convivere con un uomo molto più grande di lei. Lui era uno che aveva i soldi, gli piaceva vivere bene, ma era un tipo tranquillo tutto sommato. Non aveva proprio l'aria del pappone. Solo che pare, almeno questo mi hanno raccontato, che fosse un po' maniaco a letto. Insomma, gli piaceva il gioco pesante ed aveva quasi cinquant'anni. Cominciava ad avere una età in cui si suppone che la gente vera dovrebbe avere già una famiglia, una casa, una vita regolata. A lui i soldi per la casa e la vita regolata non gli mancavano di certo, e ne aveva così tanti di soldi che, si scoprì in seguito, di famiglie non aveva né una né due, ma contando l'idillio avuto con mia madre si arrivava a tre, perché aveva la moglie, l'amante ufficiale con tanto di figli al seguito e anche la giovanissima mantenuta, che era mia madre. E in un certo senso, mia madre, che aveva appena compiuto diciotto anni, era la sua donna ideale. In realtà era stata la donna ideale di tanti e i suoi famigliari, mia nonna in testa, mi hanno chiuso la porta in faccia quando ho cercato di sapere qualcosa sul suo conto. Semplicemente non se la vogliono ricordare. Quella vecchiaccia mi ha guardato dallo spioncino della porta per tutto il tempo e ho avuto ben il tempo di dirgli che ero sua nipote, ma niente. Anzi, poco prima di chiudere la porta mi aveva lasciato uno sguardo come se rivedesse in me un fantasma schifoso. Un po' esagerata la stregaccia di merda non credete? La casa di mia madre era grande, sembrava di quelle delle famiglie per bene, mi hanno detto che mio nonno che era morto tempo prima aveva un negozio di abbigliamento ma presto ne aveva aperti altri tre, diventando un marchio molto importante nella nostra provincia. Aveva formato una famiglia grande, quattro figli in tutto, tra cui, la più piccola, mia madre, era il loro gioiello. Finché non ha ritenuto in maniera del tutto arbitraria di darla via, il tutto contro il parare dei suoi genitori e fratelli, che ben presto la screditarono in famiglia. A quel tempo aveva quindici anni appena da fare, e già era stata pizzicata più di una volta in garage di casa sua, in un aula appartata della scuola, nei bagni di una discoteca pomeridiana da i suoi parenti che la seguivano sempre. Una volta era la madre a beccarla, per esempio, nel bagno della stanza degli ospiti con un ragazzo di diciassette anni che scappò via rapidissimo e mia nonna gli disse solo "ma non hai un po' di dignità?". Altre volte era il fratello, nel giardino davanti alla scuola, nel garage invece la beccò il padre che cercò di tenere la cosa nascosta per un po'. Ma sua madre lo venne a sapere, e furono altri silenzi, altri sguardi di disapprovazione. Perché pare che mia nonna fosse così, non sgridava, non diceva nulla. Eppure lasciava sguardi che serpeggiavano freddi e crudeli, lasciava quelli e una sentenza secca. Come quello sguardo che aveva lasciato a me che avevo solo la colpa di somigliare fisicamente a mia madre. Ebbene questa famiglia si concentrò morbosamente sulla sua biografia sessuale, anche se lei pare non dicesse nulla a nessuno o quasi. In realtà una sua amica, l'unica che ha accettato di parlarmi, mi ha detto che lei con i ragazzi ci andava ma non a letto. Giocava. Penso che a quell'età lo facciano tutte, solo che lei era più convinta delle altre che non ci fosse nulla di male. Insomma, cresceva con il marchio della mignotta e alla fine, quando cominciò ad avvicinarsi ai diciotto deve aver pensato: dite che sono mignotta? e allora che mignotta sia. E lì, non l'ha più fermata nessuno. Ma i genitori adesso facevano finta di non sapere niente. Pensavano si potesse recuperare e comunque temevano di muovere troppo le acque per paura che lei facesse una scenata. Solo mio nonno pare dicesse in giro cose tipo "mia figlia è una ragazza che piace" per difenderla "vorrei vedere se voi foste giovani e belli come lei cosa fareste". Ma lo diceva sempre lontano da mia nonna, altrimenti sarebbe stata la fine. Poi un giorno, la videro tornare da scuola con un macchinone, accompagnata da un signore molto più grande di lei, che di anni ne aveva fatti da poco diciotto. Lui era evidentemente sopra i quaranta. Scandalo tremendo in casa, mia nonna prese la decisione di cacciarla. Meglio di così per il tizio non gli poteva andare. Stava per arrivare l'estate e mia madre andò a vivere da lui, che la portava a Ponza in barca e la riempiva di soldi. Quella fu il periodo più bello della vita di quell'uomo, mentre per mia madre sembrava tutto normale, perché la sua bellezza giustificava tutto, secondo lei. Non gli importava niente che la gente la guardasse e gli leggesse mantenuta scritto in faccia ovunque andassero. La famiglia gli aveva dato della mignotta sempre, ormai era abituata. Era bella, eccome. Erano felici, lui la portava in giro, gli fece girare l'Europa e andarono anche negli Stati Uniti. Naturalmente in gran segreto perché lui era sposatissimo, perché la moglie e l'amante ufficiale erano gelose. Lei riceveva tutto con quella tipica indolenza delle mantenute belle e intelligenti, ma sapeva anche apprezzare il contributo che lui dava per la sua formazione. Pagava per lei il fior fiore delle università private. Aveva disposto un conto per la sua formazione di prestigio. Aveva anche un appartamento a disposizione a Roma. Tutto questo durò un anno, mia madre e il suo amante ci stavano dando dentro in un camera d'albergo a Venezia, dove spesso passavano lussuosi fine settimana tutto buona cucina, bei paesaggi e scopate. Lui, ve lo dicevo prima, era uno di quelli che non si accontentavano del sesso normale, doveva sempre fare di più. Mia madre era legata al letto, costretta in posizione prona con il culo all'aria e lui ci dava dentro da dietro, e beveva e ci dava dentro e l'atmosfera non poteva essere delle migliori. All'improvviso lui ha tirato la testa all'indietro, ha allungato un braccio come se volesse prendere qualcosa sul tetto e poi è stramazzato a terra senza un rumore in più. Lei, in qualche modo, riuscì a liberarsi dalle corde e lo raggiunse. Lui disse solo "non chiamare nessuno, sono morto".
Pare poi che sia riuscito a dire solo un'ultima cosa. Disse "povera piccola". E morì sul pavimento dell'albergo, nudo come era nato. Se fosse buono o cattivo quell'uomo non lo giudico. So solo che alla sua morte i suoi soldi sembrarono svanire del tutto. A quanto pare era cosciente del fatto di essere malato di cuore, si era fatto liquidare di nascosto un sacco di proprietà, e si era goduto la vita, quegli ultimi anni pazzi. Di certo aveva usato le persone, mia madre compresa, ma aveva anche pagato per tutto. Forse riteneva di non avere avuto il tempo di essere una persona migliore. Appena lui morì le due donne stabilmente nella vita di quell'uomo (la moglie e la prima amante) cercarono di prendere tutto quel che c'era, ma era come raccattare le monetine al volo. Il suo patrimonio era disposto in mille rivoli di spese da saldare, spuntavano debiti, tutto era in disordine. Aveva lasciato solo dei soldi da parte per i figli di primo e di secondo letto. Mia madre viveva ancora in quell'appartamento di Roma dove si ritrovò sola, con quelle due che gli mandavano lettere di minaccia, cartoline di avvocati, la aspettavano sotto casa. Una delle due gli mandò anche un tizio che la riempì di botte. Quella sera si contò i lividi in faccia, il dente scheggiato, gli occhi anneriti dall'ematoma e prese al decisione: doveva andarsene.
Anni dopo mia madre era nel pieno di un tracollo, la sua famiglia non la voleva, era impossibile che si conservasse qualsiasi lavoro, smise di studiare, ma quello in fondo non aveva mai cominciato a farlo per cui poco male. Non era una persona autosufficiente, non lo era mai stata. Un giorno, anni dopo un tizio prese a seguirla. Erano stati insieme per un po', lei si era stancata, aveva altro per la testa. Ma questo tizio continuava a seguirla, a dirgli che se non fosse tornata con lui l'avrebbe uccisa, che se la vedeva con un altro la strozzava e tutto il campionario dello stronzo maniaco. Lei era terrorizzata, non osava uscire di casa neanche per fare la spesa con tutte quelle storie di donne che venivano ammazzate davanti agli occhi della famiglia e lei invece era sola come un cane, ma non poteva rimanere in casa pero sempre. Era sola, non aveva un lavoro, nona aveva di che pagare l'affitto  per giunta questo simpaticone si era messo a pedinarla. Se lo trovava di fronte nei momenti più strani. All'inizio era gentile, diceva che si erano incontrati per caso, le chiedeva come stava. Ma poi i loro incontri casuali furono troppo frequenti e lei mangiò la foglia. Gli incontri successivi furono sempre più violenti, finché lui non cominciò a minacciarla di brutto. Insomma, c'era di cui avere paura. Prese una corriera e andò dalla sua famiglia per cercare aiuto solo dopo che la polizia gli fece capire che non potevano fare molto per aiutarla. La scena me l'ha raccontata uno dei miei zii, fratello maggiore di mia madre, l'unico che abbia accettato di parlarmi. Lei era arrivata di sera, in casa c'era una specie di ricevimento. Si festeggiava l'apertura di un nuovo punto vendita e un altro di questi miei zii avrebbe approfittato della serata con amici e parenti per annunciare il suo fidanzamento ufficiale con conseguente matrimonio. In casa non c'erano più foto di mia madre. Lei era presente in molti quadretti fotografici, cornici piccole e grandi e aveva anche un suo ritratto. Ma questo fu prima della sua partenza. Da allora, la sua cameretta era stata svuotata, molte isole di immagini poco significanti costellavano le pareti di casa dove tutto invece sembrava aver avuto una sua armonia. Le foto di famiglia, quelle di prima erano come sparite. Mia nonna aveva avuto un culto per le immagini di famiglia, ci teneva tanto, ce n'erano anche alcune in negozio, addirittura. Ma per la sua figlia puttana non ci fu più posto. Scomparve il grande ritratto di famiglia che la mostrava, insieme ai suoi fratelli splendida diciottenne. Via le foto da bambina, il ritratto, finì in soffitta solo perché a dipingerlo fu un pittore bravo guai a buttare via qualcosa di valore. Mia madre aveva solo 22 anni, e già era uno spettro come quelli delle case infestate, con un quadro in soffitta immalinconito dalla polvere e dall'oscurità. In quella serata nessuno avrebbe menzionato il suo nome, come accadeva da tempo sotto lo sguardo severo della nonna che tutto vedeva. (...dovrebbe continuare)

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Altro / Il senso della vita
« il: Luglio 13, 2012, 18:12:34 »
Era estate. Una mattina calda di estate di quelle che tagliano le gambe appena ti svegli: che ti dicono "oggi stai a casa, non fare nulla, vai al mare, non ti muovere". Solo che io, in quella calda mattina di estate, mi dovevo muovere e pure molto. Dovevo andare a Roma con il treno, un treno che sarebbe stato caldo e,nonostante l'estate, affollato. Perché le persone non possono ascoltare la voce delle stagioni il più delle volte. Non possono percorre i cammini più comodi e consigliati e quindi, capita non di rado, che debbano andare tutti insieme, contro la corrente del tempo e dei desideri e remare, con grande fatica verso una meta irta di piccoli, grandi ostacoli. Era estate come dicevo e faceva caldo, ma non bastava. Carica come ero da borse e borsine, mi rammaricavo delle mie scarse forze, già rimaneggiate dal caldo, dal sonno e la nostalgia di desideri lontani. Desideri che tremolavano come le immagini sulla strada calda e mi portavano con la mente in una spiaggia tranquilla e l'ombra sugli occhi. E invece, lenta e carica di valige, mi incamminavo verso la stazione. La nostra stazione è una piccola macchia di cemento e pietra in un orizzonte di alberi stanchi e di prati bruciati dal sole. Guardando attraverso le colonne si vedono i treni che vanno e vengono come muli rassegnati e prossimi al tracollo fisico e morale. Quando il vento ti sfiora, porta con sé i suoni della stazione che si risveglia per pochi attimi di frenesia e poi si riassopisce come un drago sazio dopo essersi divorato l'ennesimo cavaliere. Il rombo della gente che dilaga brevemente avanti e indietro, il suono dei "cavalli di ferro" e la voce metallica e svogliata del controllo della stazione che per lo più annuncia ritardi, arrivi e partenze. Ma sopratutto ritardi. Mentre carica di borse e scarica di voglia mi incamminavo verso la stazione non potevo fare a meno di provare a distrarmi con grandi pensieri: "allora è questo il senso della vita-pensai-un faticare ossequioso e riverente per raggiungere modesti scopi". Mi passò di fianco una grossa macchina scura, una di quelle così grandi da sembrare camper in gita con i vetri oscurati e la voglia, celata dal para-vacche anteriore cromato, di fare a pezzi proprio una mucca, ma con eleganza tutta urbana. In pochi istanti -questa è una storia di pochi istanti- l'auto raggiunse la stazione e una ragazzina, più o meno della mia età, elegante e rapida, scomparve all'interno di essa con una piccola valigetta al suo seguito. "Il senso della vita-sentenziai mentre osservavo arsa d'invidia la facilità dei gesti di quella ragazza- è un continuo confronto, dove alcuni partono vincitori e altri forse potranno arrendersi senza annegare nel disonore". Troppo pessimista lo so, ma sotto il sole di luglio, feroce come due soli d'agosto, carica e scoraggiata dalla lunga distanza finisce che non ci riconosce più. Ecco allora che nel cercare di riprendermi da questo pessimismo cosmico dove io ero relegata sempre nel peggiore dei mondi possibili, la mano del vento si muove commossa verso di me, insinuandosi nelle maniche e scomponendo con leggiadria i capelli, placido, come una benedizione. Lo si sentiva proprio dove ce n'era bisogno, nella schiena, nelle gambe, bel collo umido di stanchezza. Una fredda e salvifica carezza. Assaporo quel dolce brivido e penso "il senso della vita è fatica, ma anche gioia". mentre lo penso ecco che insieme al grazioso vento mi sovviene la sgradevole voce gracchiante dell'altoparlante della stazione: "il treno per Roma delle 9:26 è in arrivo sul binario uno". Si ripeteva un paio di volte, ma io non sentivo perché stavo tutta in sollievo per il regalo di Eolo. Poi mi rendo conto. Il mio treno, misteriosamente e malauguratamente in orario, si avvicinava minacciando di andarsene senza di me. Non uno né cinque minuti di ritardo. Manco fosse un treno svizzero si presentava proprio dove doveva essere nel momento in cui doveva arrivare e io invece ero come un normale treno italiano: in ritardo e sfiancato. Il fragore dei vagoni che scivolano stridendo sui binari, la gente che si avvicinava, le ruote delle valige che si spostano tutte insieme, il risveglio della bestia dormiente e io, sono lontana. Troppo lontana per arrivare. "il senso della vita- incido queste frasi nella coda di un pensiero rapido- è non arrivare" e con questa sentenza nella mente cominciai a correre. Nonostante il caldo, nonostante il desiderio di resa, nonostante il treno fosse già fermo e stesse accogliendo gli altri viaggiatori e io non potessi arrivare in nessuno caso. Ma la mia ormai era una corsa calda, di quelle che non si fermano se no bruci, di quelle che i polmoni sembrano di vetro e tagliano ad ogni respiro, che le gambe sembrano scrollarsi di dosso il peso del mondo, e correvo, con la spalla che implorava pietà martoriata dal rimbalzo della borsa, simile ad un sadico torturatore. Uno scatto lungo, tortuoso che annullava il pensiero e che continuava nonostante il treno avesse ripreso la sua marcia e scorresse davanti ai miei occhi pigramente ma inesorabilmente. Supero la stazione schivando i passanti, saltando ostacoli con le gambe che ormai si sono adattate al passo, reattive, dinamiche come quelle di una cacciatrice; una cacciatrice di treni in corsa, una cacciatrice di draghi stridenti e troppo puntuali per essere afferrati. E quello, il treno, se ne va, scorre finestra dopo finestra, porta dopo porta davanti ai miei occhi. Ormai ha preso velocità, non lo recupero più. Il suono di aria e metallo che sentenzia la chiusura delle porte automatiche pone fine alle mie speranze, e anche l'ultimo vagone, sta per scorrermi davanti. Un miracolo, uno di quelli che capitano a volte e che sentenziano drammi e fortune. L'ultima porta è aperta, guasta e tentennate accenna a chiudersi ma rimane bloccata. Io salto pensando a come poteva finire in quel momento: come potevo finire sui giornali come una incosciente che salta sui treni in corsa e finisce spalmata come la marmellata su una fetta di pane nel cemento ruvido e scontroso, caduta nel mio sciocco assalto, mica in guerra. Invece salto in quel momento, in una porta che non doveva essere aperta, in un treno che ormai era partito non più disponibile ad accogliermi. Lo assalto letteralmente contro la sua volontà e mi trovo sul pavimento del treno,da sola, con un sorriso arcigno e predatorio sul volto. "Il senso della vita è lavorare per ciò che non potresti ottenere e sperare che una porta resti miracolosamente aperta". E il treno si infilo dentro un orizzonte caldo e rarefatto, di un mattino d'estate.

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Introspettivo / Il sogno del torturatore.
« il: Luglio 09, 2012, 04:30:12 »
Faccio spesso un sogno: mi guardo riflesso nello specchio del bagno mentre sto per lavarmi i denti e un attimo prima di mettermi lo spazzolino in bocca mi rendo conto che un dente, un incisivo inferiore, mi sanguine e allora mi avvicino per guardarlo meglio. Lo tocco con lo spazzolino e lui cade come se niente fosse sul lavandino, senza farmi male, senza quasi incontrare resistenza. La mia bocca comincia a sanguinare molto ma prima di tutto penso al dente che per un breve istante rimbalza nel lavandino e allora cerco di prenderlo. Darei qualsiasi cosa per recuperarlo, freneticamente cerco di prenderlo mentre rimbalza ma non riesco a fermare la sua caduta e finisce nel buco del lavandino, perduto per sempre. Mi dispero, mentre il sapore del sangue invade la mia bocca. L'ho perduto, era attaccato a me fino ad un attimo fa, anzi, era parte di me, e ora, è nel fondo di una oscura e viscida tubatura. E' morto in un istante ed ora è un cadavere destinato alla putrefazione, mentre solo un attimo fa, si rigenerava con il mio sangue, con il mio ossigeno, con i nutrimenti derivati dal mio corpo. Mi metto una mano in bocca e sento che tutti denti, quelli davanti sopratutto, sembrano instabili, destinati a cadere. Il mio primo pensiero va all'assurdità della cosa che però sembra proprio reale, mi stanno cadendo tutti i denti di colpo.  Adesso tutta la bocca sanguina, i denti sembrano scivolare via dalle gengive e non capisco. Mi metto una mano sul viso, mi sento svenire, più che paura, una angoscia tremenda si impossessa delle mie viscere, installandosi nel più profondo insondabile anfratto della mia anima, come un piccolo animale feroce e soffiante infilato dentro una buca nel terreno che ti guarda da sotto terra con occhi brillanti di furore. Nel toccarmi il volto sento che anche il naso è instabile, mi passo le mani suoi capelli e dentro di me sento l'animale che urla, e un brivido mi percorre “cosa mi succede” penso. E poi i capelli si sfilacciano, mi rimangono in mano a ciocche. Ma io sto bene, per il resto, non mi fa male nulla. Dovrò uscire in quello stato, correre da un medico. Rassegnarmi, forse, al fatto che non sarò mai più quello di prima. Forse non morirò, forse, ma la prospettiva di uscire vivi da quel momento non si presenta. Girarmi e percorre il corridoio mi sembra una impresa titanica, muovermi significa agitare il cuore. Anche lui sembra molto instabile . E c'è sangue in ogni punto del bagno. Vorrei piangere, ma ho troppa paura, non riesco a fare nemmeno quello. Sto perdendo tutto, in quel sogno, tutto quello che mi rende umano. Sto sanguinando, sputando, forse a breve anche soffocando nel mio stesso sangue e nella mia saliva raggrumata nella bocca tumefatta. Ingoio qualche dente, comincio a respirare più velocemente e tutto insieme, non so nemmeno più come faccio a reggermi insieme, per paura che mi cada la faccia, forse la testa mi muovo piano. E più ci penso e più mi sembra che anche la testa mi si potrebbe staccare da un momento all'altro dal collo. Rischio di morire. Striscio fuori dal bagno ma non riesco. Muovo le gambe, cerco di usare anche le mani, devo arrivare al telefono, o forse dal vicino di fronte. Devo trovare aiuto. Ma non riesco a ad andare avanti, sento il peso nelle gambe, la reazione del terreno ma rimango quasi fermo sul posto. Mi muovo, ma sento che sono fermo. Eppure un po', pianissimo, mi muovo. Dovrò faticare di più, ma arriverò. E a quel punto, quando sono quasi sulla porta, guardo indietro e vedo una scia di sangue, denti e pezzi di carne. Mi sto letteralmente smantellando lungo il cammino, in quella macabra scia di sangue ci sono pezzi di me. C'è quasi più di me a terra che di quello che è rimasto a tenermi unito. Non sono mai arrivato oltre, a questo punto in genere mi sveglio. Troppe volte ho fatto questo sogno, mai una volta che io sia riuscito ad interrompere il filo dell'incubo smascherandolo, no. Per me resta sempre una esperienza reale, vera, tremenda. L'ultima volta, ancora poco tempo fa, mi svegliai con il cuscino davanti alla faccia. Evidentemente mi ero portato le mani al viso disperatamente anche a letto. Mi tastai come sempre la faccia alla ricerca del naso, degli occhi, dei denti fremendo “fa che sia un sogno, fa che sia un sogno” ed è sempre, naturalmente un sogno. E, anche quella volta, come tutte le altre, fu come rinascere. Davanti allo specchio del mio bagno, da sveglio, i denti sono saldi nella bocca, il collo non sembra voler cedere, il naso resta al suo posto. Subire una perdita senza rimedio è tremendo. Risvegliarsi e sapere che è stato tutto un sogno cambia le prospettive della tua vita, radicalmente, solo che, come nel sogno, l'effetto è breve. Per questo motivo, quando entro per eseguire un lavoro su un “paziente” la prima cosa che faccio è simulare la sua esecuzione. Prendo una pistola caricata a salve che porto sempre con me, gli vado incontro camminando nell'oscurità con un passo pesante, con le mie scarpe più rumorose di modo che lui si renda ben conto di quello che sta per succedere, che possa registrare il suono dei miei passi, ricordarsi di quanto sono spiacevoli le mie visite. Lui è legato mani e piedi può solo vedere ma è saldamente imbavagliato,quindi non può parlare, non può interagire e gli dico quasi sempre la stessa cosa. “Benvenuto signor Tal dei Tali” e lui legato ad una sedia metallica inchiodata al suolo già non fa altro che fissare la pistola nichelata e scintillante che io ho ben cura di ostentarli mentre cammino. Il suo respiro si accelera, non riesce a staccare lo sguardo dalla pistola. Per istinto, guarda solo quello che potrebbe colpirlo in maniera imminente e fa solo dei rapidi passaggi con lo sguardo sul mio viso, ma i suoi occhi sono tetri di spavento, sgranati, e temono di perdere il contatto con l'arma. “Nulla di personale-aggiungo- ma è arrivata la fine”. E poi, senza aggiungere altro gli punto la pistola contro e sparo. Appena alzo il braccio, già lui grida, con quel urlo soffocato e quasi comico che una persona imbavagliata emette. Poi fa un lungo respiro, tutti i suoi muscoli si tendono, quasi sembra potersi alzare in piedi, nonostante i legacci, punta i piedi con tutta la forza di cui è capace e poi BANG. Il colpo è a salve. Respirate a fondo, a fatica, il cuore rimbalza in petto e quasi sembra voler saltare fuori dal corpo, siete sudati, tremate, forse vi siete pure pisciati addosso. Ma siete vivi. E mi guardate come se tutto fosse stato un crudele gioco, e infatti lo è stato, avrete uno sguardo indignato, perplesso, tramortito, quasi mai riconoscente, pochissime volte felice. Questo è il momento in cui posso agire con decisione e tranquillità. Questa è la disposizione mentale che aspetto. Quella in cui voi avete compreso che non tutto è perduto, in cui c'è ancora una speranza. Non siete morti, avete chiuso gli occhi terrorizzati credendo di morire nel buio delle vostre parpeble serrate dal terrore e invece siete vivi, avete riaperto gli occhi e siete ancora qui. E forse lo potrete fare ancora molte volte, se vi comporterete bene. I vostri corpi, da tesi che erano, hanno uno spasmo di debolezza. Adesso sentite il peso di tutto. Avete paura, volete salvarvi, tremate. All'improvviso tutta quella adrenalina che il corpo aveva messo in circolo per salvarvi dal “Lupo cattivo” è troppa nel corpo, vorreste solo mettervi a correre fuori dalla stanza, correreste per ore, in preda ad una frenesia folle. Adesso non solo avete paura, ma avete un desideri tremendo di essere liberati. Ne avete bisogno, come si ha fame, sete, sonno, come si deve andare in bagno, avete questa necessità fisiologica. Allora faccio un sorriso conciliante. Vi dico che è tutto apposto, che collaborando tutto andrà bene e che in fondo, nulla è perduto. Che tutto potrà tornare alla normalità. Tutto sommato sono una persona anche io, ho dei sentimenti, se ci si pensa attentamente. Dovete essere consapevoli però che in quella sedia si sono seduti molti “pazienti” che, tutto sommato, non si sono lamentati. Ma nulla è gratuito in questa vita. Lasciare quella sedia è quasi sempre ragionevolmente possibile, ma si deve pagare un prezzo. Se sarete fortunati, avrete qualcosa da dire e se siete furbi lo direte in fretta. Allora il prezzo della vostra libertà dalla sedia metallica sarà la vostra parola, la vostra verità a cui qualcuno, per qualche motivo tiene moltissimo (non certo io, per me le verità non possono uscire dalla bocca di nessuno). Altrimenti, potreste dover lasciare qualcosa in pegno. E a questo punto, metto in scena un altro elemento del mio spettacolo. Uno spettacolo che ho architettato per rendere il mio lavoro perfetto. Il mio lavoro è perfetto quando non lo devo fare. Se non devo torcere un capello a nessuno per sapere quello che ci serve sto molto meglio. Nel mio “studio” ho un armadio di metallo. Dentro ho alcuni contenitori e attrezzi. Sul tavolo di alluminio al centro della stanza, bene illuminato come il centro di un palco, metto una pinza e un barattolo di vetro pieno di denti cavati a viva forza. Spesso espongono la radice con brandelli di carne ancora attaccati, sono incrostati quasi tutti di sangue. Se non cede, gliene strappo uno, un incisivo. Se non cede ancora gliene prendo, con la pinza più sottile, uno di quelli davanti, che in genere cavo con uno strattone. Ne prendo almeno cinque prima di passare alle dita. Ho un contenitore di vetro, la formaldeide fa galleggiar le dita di mani e piedi dei miei vecchi “pazienti”. Voi lo guardereste coscienti del fatto che come l'ho fatto a loro lo farò anche a voi. Guardereste quelle dita che galleggiano pensando che il vostro dito tra poco sarà lì. Se sarete fortunati e furbi non tenterete oltre la sorte, visto che i denti, in confronto vi sembreranno uno scherzo da poco. Ma vi sorprendereste a sapere quanti alluci e pollici ho dovuto staccare. Quando arrivo al punto, se non avete detto ancora niente, non si torna indietro, mi dispiace. Per farlo, ho modificato con delle molle rinforzate un tagliasigari di quelli da tavolo. Non ci metto molto, e non è tanto il dolore che pesa, è la sofferenza di perdere parti del corpo, quella coscienza cruda che nulla sarà più come prima, una brutta sensazione, la conosco bene. Io sono come un artista, e nel mio lavoro metto molto di mio, proprio come fanno gli artisti e come fanno loro io opero sulle sensazioni e le percezioni. Non dimentico mai una sensazione, non dimenticherò mai la paura del mio sogno. Me la porto sempre con me con grande sollievo. Era solo un sogno, mi ripeto spesso, ma diventerà l'incubo del prossimo. Questo fanno gli artisti, riportano il loro modo di vedere le cose nella realtà, come l'Elefante Spaziale di Dalì o una qualsiasi altra opera d'arte che sia solo il frutto della fantasia di chi l'ha prodotta. Io porto il mio incubo, la mia visione della paura e della morte ai miei “pazienti”. E se ancora non cedono, ci sono tanti altri mezzi più “tradizionali” per risolvere la questione. Magari non sarò mai l'eroe di nessuna storia ma anche io ho una storia, un passato e forse perfino un futuro. Io fabbrico incubi per chi può permettersi di pagarli, dispenso dolore con la sicurezza del risultato, non disperdo rabbia nel farlo. Non ho mai odiato nessuno dei miei pazienti. Mi potreste incontrare ovunque e non accorgevi della mia presenza al cinema o al supermercato. Oppure potreste trovarvi faccia a faccia con me e non dimenticare mai più il nostro incontro, e francamente non ve lo auguro. Potrei essere l'ultima cosa che vedrete o potreste rivolgermi la vostra ultima supplica. Se invece uscirete vivi, di certo molte cose non vi sembreranno più le stesse, nemmeno il rumore dei passi di uno sconosciuto. Sono l'ombra del dolore, lo spettro di una verità nascosta da strapparvi con le buone o le cattive, sono il prezzo delle vostre colpe o l'ingiustizia fatta persona. Io sono un torturatore, e questa è la mia storia.

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Fantasy / Umbra foglia nera
« il: Febbraio 21, 2012, 09:16:54 »
UMBRA FOGLIA NERA

"la nebbia"

Arrivò al mattino, la nebbia, densa e odorosa di un sapore nuovo e intenso. In quel piccolo e anonimo villaggio di pescatori, nessuno ne aveva mai nemmeno sentito parlare, della nebbia. E invece venne; si avventò con il passo leggero della morte addosso alle piccole case, insinuandosi come un veleno nelle vie, oscurando l’alba e il primo ritorno a riva delle barche uscite la notte prima. Il piccolo faro era ormai spento e dovettero richiamare in fretta e furia il guardiano dalla sua casetta vicino agli scogli perché lo facesse ripartire, e per tutti fu un correre su e giù in un luogo che era sempre stato la loro casa, forse piccola e sperduta, forse triste e solitaria, ma nota, certa. E invece ora tutti si aggiravano come fantasmi nel buio, senza riconoscersi a vicenda, senza riconoscere le stradine in cui avevano corso da bambini. Così poco era bastato per strappare quella umile gente dalle certezze di una vita intera: là dove non aveva potuto il vento, la pioggia, le maree e i terremoti, là dove avevano fallito gli incendi e le malattie era riuscita invece la silente nebbia dal passo di morte e lo sguardo bianco, che tutto offusca, anche la ragione. Tutti correvano intorno, nessuno sapeva dove andare. La gente si ritrovava nelle case di altri scoppiavano liti improvvise, si accedevano dei fuochi per “veder meglio” come se il fuoco potesse allontanarla, e nel tramestio di questi umili pescatori il fuoco, il panico e la perdita delle percezioni porta rapidamente alla disfatta. Fu per miracolo che non si incendiò la piccola chiesetta. Per miracolo e anche per il tetto in muratura, uno dei pochi nel villaggio. Quel miracolo non graziò la casa della filatrice, che insieme alla sua casa perse anche tutto il suo lavoro, andato letteralmente in fumo in pochi istanti. Qualcuno si fece male scappando, altri sorpresero un vicino che, nella confusione, approfittava per rubare qualcosa nella sua proprietà. Quella strana nube improvvisa sembrava tirare fuori il peggio da loro. Solo una persona, in tutta quella confusione camminava tranquilla. Era una giovane donnetta, Elindora, che in genere non si vedeva mai per strada da sola. Era cieca, la poveretta, camminava sempre con un bastone ma la famiglia la lasciava uscire poco perché sapevano che la gente ne era un po’ spaventata. Aveva gli occhi bianchi, offuscati da un male sconosciuto, e a vederla meglio, ora che camminava con strana sicumera in mezzo a quella fitta nebbia, ci si rendeva conto che i suoi occhi erano di quello stesso colore. Di nube sporca e carica di niente, che pure occupa la strada che percorri. Di un idea di pioggia rimasta abortita tra il cielo a la terra. Di nebbia insomma. Lei camminava mentre la gente correva intorno urtandola a volte, ma sembrava che la cosa non la preoccupasse. Naturalmente di suo, Elindora conosceva bene le strade che percorreva seppure non le vedesse. Sapeva il numero di passi, la approssimata direzione che doveva prendere. Conosceva il terreno sotto i piedi e le case che avrebbe incontrato intorno, aiutata inoltre da quella misteriosa scia che l’intuito crea nelle nostre menti per sopperire alla mancanza di un senso. Ma il suo passo era quello di chi sapeva ancora meglio dove stava andando. Era come se qualcosa la chiamasse. Il fratello e il padre di Elindora, nella confusione si accorsero tardi che lei non era più sulla sua solita sedia e cominciarono cercarla da per tutto “avete visto Elindora?” gridavano alla gente che li strattonava per liberarsi della loro presenza, dovevano solo fuggire. “Elindora!” gridavano, ma lei non si trovava vicino a casa. Tutti sfuggirono dal misterioso abbraccio della nebbia, rinchiusi nelle loro case ad aspettare chissà cosa. Solo il padre e il fratello di Elindora e lei stessa, erano fuori. C’era un silenzio irreale ormai, si sentiva l’odore acre del fuoco che aveva divorato la casa della filatrice e la campana della chiesa salvata per un pelo dallo stesso fuoco. Non un respiro del vento, non un canto di gabbiano, perfino il mare sembrava fermo. Scesero dalla piccola valle arrampicata sugli scogli che era il loro villaggio e puntarono verso il porticciolo, giù alla spiaggia. E gridavano nel silenzio, spaventati a morte, il nome della giovane Elindora che sembrava la vittima perfetta per quella strana essenza che aveva colpito la piccola cittadina. Ma Elindora non era la martire di questa storia. Lei era per metà ricoperta dall’acqua del mare e avanzava verso il fondo tendendo le braccia. I suoi parenti accorsero verso di lei per salvarla, ma era lontana. Alla fine al raggiunsero, correndo ed annaspando nell’acqua “dobbiamo andare” le dissero “dobbiamo andare a casa” ma Elindora si dimenava e urlava, e cercava di dire qualcosa. “No” le dicevano “vieni” e la strattonavano, quasi denudandola del pigiama per la fretta e con tutto il fiato che aveva in corpo, dopo essersi battuta per rimanere dov’era urlò disperata “io ci vedo!”.
E tutto tacque di nuovo. Nemmeno più i loro cuori sembravano battere. Rimasero a guardarsi tra loro, tutti e tre, il padre e i suoi figli. Ed Elindora poteva vederli anche lei, nei suoi occhi la nebbia non c’era più. “Per il potente e misericordioso Dio” disse il padre “davvero ci vedi?” “Sì- pianse lei- io vedo voi, padre, la vostra barba, i vostri occhi azzurri. E vedo anche il mio fratello qui, i suoi occhi sono simili ai vostri di taglio, ma il colore è diverso” disse mentre piangeva, e piangevano tutti e tre su quella spiaggia. Ma mentre piangevano non si accorsero che un suono prendeva corpo nella nebbia. Fu Elindora che se ne accorse per prima e, non seppe mai spiegarsi in seguito il perché, disse “eccola”. E dalla nebbia arrivò una piccola barchetta a remi con una scritta rossa sullo scafo. C’era scritto “Umbra”. Ma nessuno la trasportava, sembrava vuota, Eppure c’era un suono nell’aria, che sembrava venire da quella barca. La barca procedeva mossa da una corrente leggera ma costante, verso di loro. E si fermò proprio davanti ad Elindora. La trascinarono per qualche metro a riva e poi guardarono dentro. Sul fondo della barca, mezzo ricoperta dall’acqua c’era una bambina in fasce che piangeva con tutto il fiato che aveva in corpo. Accanto a lei, una spada, una spada di quelle che in quel villaggio non si erano mai viste, lunga e scintillante, argentata, carica di decorazioni sull’elsa e con una strana incisione nella lama. Era il disegno di una foglia nera, rigogliosa, carica di vita, ma nera come la pece. Non c’era altro nella barca e Elindora prese la bambina a sé come se l’avesse sempre aspettata. La strinse e se la portò via, con il suo nuovo passo sicuro, di donna che aveva ritrovato la vista e sentiva di aver trovato, in un modo molto strano, anche una figlia. Un miracolo per lei, convinta com’era che quella nebbia, il miracolo e la bambina fossero parte dello stesso disegno divino. E lei si caricò di quella infante come i personaggi delle storie che si raccontavano in chiesa, che si caricano le loro avventure che portano al divino e alla santità. Già si vedeva Santa, per aver allevato un essere soprannaturale e miracoloso. Il padre e il fratello rimasero ancora qualche istante sulla spiaggia. Presero a turno la spada che era la cosa più bella e preziosa che quel villaggio avesse mai visto in tutta la sua storia. Il figlio, che non aveva mai impugnato un arma in vita sua, la diede al padre che invece aveva fatto la Grande Guerra dei dieci anni. La guardò, la agitò un po’ all’aria cercando la reazione del peso sul polso “questa è un arma da re” disse.
E tese un fendente verso il mare. In quel preciso istante, la nebbia cominciò a diradarsi rivelando all’orizzonte uno spettacolo davvero insolito per quella pacifica spiaggia. All’inizio era solo una luce fioca, ma sempre più decisa. Poi si videro le prime fiamme e, quando la nebbia abbandono del tutto la cosa, in pochi minuti, si poteva distinguere la chiglia di una grossa nave, un galeone da guerra, sollevata verso il cielo, mentre le fiamme la inghiottivano dividendosi il boccone con le profondità del mare che bramavano la sua preda dal basso. Era uno spettacolo tremendo, si vedevano persone che si buttavano in fiamme in mare mentre l’enorme galeone perdeva pezzi ed esplodevano le cariche di polvere da sparo in ogni direzione. Una pira funeraria gigante, questo sembrava, e ora che il vento spazzava via quello che restava della nebbia, toccava sentire anche le urla tremende dei disperati che affogavano, che bruciavano e subivano ogni sorta di sconosciuta tortura. Dopo poco, la nave era scomparsa e poche ore più tardi, molti cadaveri cominciarono a fare visita alla spiaggia, depositandosi a dimostrazione di ciò che i due uomini avevano raccontato di aver visto al villaggio. I corpi emergevano a distanza di giorni con differenti gradi di decomposizione, trenta il primo giorno, altrettanti il secondo, poi sempre meno, ma sempre qualcuno, ogni giorno per due settimane. Quando non erano in spiaggia erano nel canale, oppure ai piedi del faro. Per due lunghe settimane i pescatori della zona pescarono quasi più cadaveri umani che pesci. Uomini, donne e bambini. Una grande nave da trasporto. Nessuno venne a dire nulla, arrivarono solo dei soldati dalla città a fare dei rilievi, ma nessuno puliva, nessuno domandava. Nessuno si domandò per esempio se c’erano superstiti. E così loro non dissero nulla a quelli della città della bambina miracolosa perché avevano paura che la portassero via con tutto il suo carico di magia positiva. Quando la filatrice vedeva Elindora con la sua nuova piccola sputava per terra, e intanto continuava a costruire la sua nuova casa. Una volta si avvicinò per vederla e disse “questo sgorbietto mi è costata la casa” e andò via. Nessuno sapeva ancora come chiamare la bambina. Qualcuno suggeriva Nebbia- ora che dalla città qualcuno gli aveva spiegato che cos’era la nebbia- ma nessuno voleva pensarci più alla nebbia. E così, la chiamarono con l’unica cosa che la identificava. La chiamarono Umbra, come la barchetta che l’aveva portata a riva, il suo nome completo- doveva averlo, tutti lo avevano- era “Umbra foglia nera” per via del disegno sulla spada. Nessuno sapeva cosa voleva dire ma gli sembrò il migliore dei nomi. Il giorno che Umbra arrivò sulla spiaggia venne con la nebbia che nessuno aveva mai visto prima in quel villaggio. Portò miracoli e sfortune e una scia di morti la seguirono. Era solo l’inizio della sua vita, ma sembrava già carico di conseguenze.

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Altro / Cosa ti tiene in vita?
« il: Febbraio 21, 2012, 09:11:47 »
‎"Come ti senti adesso?"
La domanda non suonava casuale. Sembrava una di quelle domande tirate appositamente per rompre le palle
"E dai, mica abbiamo tutta la notte"
"Perché? eravate invitati ad un party su un traghetto a vapore? sapete, quelli dei bei tempi di New Orealns? erano belli, pensate che il primo produttore di quei batteli..."
"Nonono, non cominciare con le stronzate, che tanto non ne esci con le chiacchere qui".
"E che volete che vi dica, mi sento...come mi sento? Mi sento e basta".
"Questa è una di quelle tipiche cagate con non vogliono dire niente che vi inventate voi scribacchini quando non avete niente da dire" disse quello che fino a quel momento aveva taciuto.
"Ci sarà un modo per descrivere il tuo stato d'animo, per Dio" irruppe quello magro dei tre che teneva il fucile in mano. Il passamontagna lo faceva sembrare ancora più magro di quello che era in realtà, ma ci si sarebbe potuti sbagliare facilmente in merito. Era uno di quelli che una volta lo vedi scendere le scale e giureresti che è un tipo robusto e poi lo vedi salire in macchina e sembra un mingherlino. Si poteva comunque intuire il guizzo di un naso appuntito da caucasico sotto la stoffa.
"Non lo so" risposi io in mezzo ai loro sguardi dubbiosi. Intanto, intorno a me la gente tremava con le mani alzate e nessuna sirena era venuta a rassicurarci con la sua presenza. L'allarme non doveva aver funzionato perché fuori dal negozio tutto procedeva normale come sempre. Dalla vetrina si poteva vedere il postino che apriva la cassetta delle lettere all'angolo della strada mentre confidavo le mie speranze sul maniaco delle 18 che veniva sempre a fare scorta di video porno prima della sua serata di "fuego". Era un po' che non lo vedevo in verità, ma confidavo che fosse della "vecchia scuola" e non si fosse abbandato alla semplice abbondanza dei video disponibili su internet e preferisse affidare le sue numerose raspe ad un nuovo, emozionante film in cd appena sfornato da un isola caraibica. Intanto quelli aspettavano.
"Ma dovete proprio farla questa cosa?" provai a protestare io timidamente.
"Te lo abbiamo già detto" disse il capo dei tre "abbiamo intenzione di ammazzare qualcuno e abbiamo deciso di affidare questa scelta alle vittima potenziali. La signora qui ha figli a cui badare, il vecchio non vuole morire perché dice che, nonostante l'età ha molto ancora da imparare, ed è stato molto convincente. E il ragazzino, bé, è un ragazzino e quindi ha più motivi di vivere di tutti e quindi resti solo tu, che francamente per ora non ci stai dando grande prova di essere attaccato a questa vita".
"In effetti no" dissi io "però mi sembra pure una stronzata morire così, perchè ve lo siete messi in testa voi".
"Non è che ce lo siamo messi in testa "disse quello con la voce da giovanotto del sud "è che, dopo tante rapine abbiamo deciso di fare il grande passo, capisci. Un po' come un salto di carriera"
"Già, gran bel salto!" disse la donna che però tacque subito non appena si accorse di essere guardata. Forse temeva di tornare in ballo.
"Allora" tagliò corto il capo "come ti senti, come giudichi la tua vita fino ad ora. Perché dovresti vivere".
Se mi avessero domandato perché comprare un computer, ascoltare una canzone o toccare le tette ad una ragazza avrei saputo rispondere. Ma sul rimanere vivo non avevo le idee molto chiare. Sapevo solo che era una cosa che facevo tutti i giorni. Che accadeva, così, per consuetudine. E che presto o tardi non sarebbe successo più, e basta.
Lanciavo sguardi tenaci alla vetrina. Erano le 18 passate. In questa bettola puzzolente non sarebbe venuto più nessuno fino a chissà quale ora. Ero stanco, mi bruciavano le braccia a suon di tenerle alte.
"Sentite" dissi ad un certo punto "io le braccia le abbasso. Tanto l'allarme già l'abbiamo suonato e non è servito a nulla, quindi posso pure tenere le braccia abbassate così sto più comodo". Mi parve che tra i delinquenti non vi fosse motivo di scontento in questo mio accorato appello ai miei diritti e quindi abbassai le braccia. In effetti ero stanco. Presi una sigaretta e continuai a scrutare le vetrine in attesa del maniaco. Forse sarebbe diventato un altro ostaggio, buono comunque per l'allegro gioco di società che avevamo ingaggiato. Io avevo almeno una donna, da qualche parte. Mi odiava a morte ma esisteva, mi aspettava in qualche misura. Non che non avesse ragione per volermi morto, ma sono certo che il mio freddo cadavere, ad un certo punto, non gli sarebbe stato di soddisfazione alcuna. Quello invece non aveva nessuno, sicuramente. Avreste dovuto vederlo. Era il tipico maniaco grassoccio e sudaticcio che non fareste mai avvicinare ai vostri figli nemmeno se avessero trent'anni. Veniva spesso da noi e chiedeva consigli sui pornazzi in prima visione. E che potevo dirli io? ultimanete aveva una predilizone per i manga. Sono convinto che fosse per quella ambiguità vergongosa e molsta che la sessualità giapponese rinchiude in sé.
Ma il tizio non arrivò. Che si maledetto internet. Sicurmante doveve aver ordinato del cibo cinese e adesso era in piena attività. Così che non poteva entrare nel bel gioco di questi allegri tizi che tenevano armi spianate pronte ad uccidere il più sfigato tra noi. Il più sfigato non era arrivato e quindi, di logica conseguenza, rimanevo io.
"Bé" conculse il capo "arriviamo al dunque. Vorrei anche cenare".
"Sì capisco" dissi io "non è bello andare a dormire con lo stomaco vuoto". A dire il vero non era bello nemmeno morire a stomaco vuoto, ma non aggiunsi questa considerazione per non sembrare troppo patetico. Ormai era sera. La strada libera dal sole sembrava esseresi inquinata di un oscurità senza il confornto di una materna luna o il bacio di una stella. Senza che il sole avesse lasciato nessuna traccia del suo passaggio né l'uomo si fosse impegnato a cercare un po' di rimedio a quel buio assoluto che dominiava la strada e ciò che la circondava, che ora diventava più irrilevante che di giorno, visto che veniva inghiottito da quel buio insopportabile.
"Arriviamo al dunque" dissi io.
Udii le armi che si caricavano e le canne dirigersi verso di me. Solo in quel momento, un brivido freddo di rabbia e di paura mi raggiunse come se fosse arrivato in ritardo con molte scuse "mi scusi, capo. Ho perso l'autobus" sembrava dirmi mentre prendeva possesso delle mie gambe e poi saliva, con diligente accuratezza sulla schiena, stringendo lo stomaco e aggrottando le mie sopracciglia.
"Allora" disse il capo "come ti senti? cosa ti tiene in vita?".
"Sono due domande molto diverse..."
"Come ti senti?" mi disse seccato.
"Come mi sento? come ti senti tu? io mi sento disperso. Mi sento come un mucchio di foglie al vento. Come un fiume disperso in mille rivoli. Mi sento come se non fossi mai nato e fossi vissuto mille volte. Come ti sentiresti tu se non avessi mai concluso davvero nulla nella vita? almeno hai una carriera da accrescere, ma io. Io rincorro pezzi di vita quà e là come fanno le gazze con le cose brillanti. Metto da parte, mi illudo. Cerco un oggetto luminoso che mi rifletta la luce altrui. Cosa volete che vi dica?" "Ma hai detto che scrivi" disse quello quasi stupito.
"Scrivevo, quando avevo qualcosa da screivere. Quando credevo che ci fosse qualcosa da scrivere e qualcuno che avrebbe letto. Adesso cosa dovrei scrivere? della vita che faccio? di quel misero istante di felicità che ogni uno di voi rincorre con occhi sognanti salvo poi scopire che era un giocattolo guasto ad attirarli? che è tutto falso dalla cima alle fondamenta di questo mondo e che l'unica cosa che conta è come riflette la nostra vita sugli altri? perfino ora, che mi si domanda di fare un sunto della mia vita mi si chiede come sto, come se fosse importante. Ma a qualcuno potrebbe mai importare come sto io? non importa a me, mi annoio solo a pensarci, perché dovrebbe fregare a qualcuno".
"Insomma, tu sei uno scrittore che non scrive" mi disse il capo con sguardo tra lo stupito e il deluso.
"Sì, maledizione, cosa volete che vi dica oltre? che sono un vivente che non vive? un senziente che non pensa? un cuore che non ama ma batte freddamente? Sono uno scrittore che pensa che siate così noiosi da preferire la morte piuttosto che parlare ancora di voi".
"E i tre mi guardarono divertiti. Si allontanarono dal bancone senza dire più nulla e se ne andarono. Io mi guardai intorno. A terra era tutto rovesciato. Questi tre avevano rotto il registratore di cassa e portato via quello che potevano. Avevano preso anche un paio di confezioni di birre e una scatola di patatine. Una festicciola notturna in effetti ci stava tutta. Avrei giurato anche che uno di loro si era infilato una scatola di preservativi in tasca. E aveva pure fatto bene attenzione a prendere quelli "perduranti per un lungo amore". Il che ci diceva qualcosa, ma non credo andasse bene per un identikit. Tutti si alzarono e si ricomposero e io finalemtne potei telefonare. Telefonai a Dora e gli dissi se voleva prendersi una birra con me. Mi mandò cortesemente a fanculo. Che bello se avessi potuto dirgli che l'ultimo mio pensiero era riservato a lei. Ma già il rischio era lontano e io sfoderavo l'ennesima sigaretta e,in fondo, avevo trovato qualcosa da scrivere.

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Cinema e Tv / La (s)versione di Barney
« il: Febbraio 22, 2011, 19:41:13 »
Qualcuno ha visto l'avvilente trasposizionen cinematografica della Versione di Barney???

7
Anch'io Scrivo narrativa! / Dora capitolo 1 (il risveglio nella neve)
« il: Febbraio 19, 2011, 13:36:50 »
Gli occhi di Dora si aprirono di colpo, e si sveglió immersa nel freddo abbraccio della neve.
Cercava in vano nei ricordi un solo motivo al mondo che l’avesse portata in quella piccola valle, nel pieno di un mondo sconosciuto, ad addormentarsi nel manto bianco di quel prato innevato. Era sdraiata faccia a terra e non si sentiva piú il lato sinistro del volto per colpa di quel bacio freddo e crudele che l’inverno aveva appoggiato a forza sulla sua guancia arrossata. Eppure, nonostante il freddo e i dolori, Dora si alzó in piedi verificando, con sua stessa meraviglia, di essere tutto somato in buona salute. Si accorse di essere vestita di abiti pesanti, di pellicce e di scarponi, di guanti avvolgenti, di un grosso giaccone bianco e un pesante cappello. Dopo essersi tastata il petto, le braccia e le gambe alla ricerca di qualcosa di rotto ebbe finalmente il coraggio di guardarsi intorno per capire dove in realtá si trovasse. Per quei brevi attimi infatti, aveva cercato di ignorare quell’urlo tremendo che l’inconscio le infliggeva e che gli domandava tremante di freddo e di paura “cosa mi é successo?”.
Decise di ignorare momentaneamente quella domanda perché non aveva una risposta valida. Si accorse, man mano che si guardava attorno e vedeva il placido scenario che la circondava, di non saper rispondere a nessuna delle domande a cui il suo inconscio la sottoponeva.
“Come sei arrivata qui?”
“Non lo so”
“Dove sei?”
“Non lo so”
“Chi sei?”
“Non lo so. Ma so come mi chiamo...il mio nome é Dora”.
Gli occhi azzurro elettrici di Dora scrutarono il paesaggio ancora per qualche istante mentre dentro se stessa, nostra protagonista, reprimeva l’urlo di paura e disperazione che gli incrinava l’anima e gli tagliava il respiro. Che gli stringeva lo stomaco e gli imepdiva di vedere e capire ció che la circondava. Anche per questo, per capire cosa in realtá fosse successo, Dora cominció a contare, lí in mezzo a quel paesaggio che sembrava segnato da un eterno inverno e in mezzo a quella solitudine e quella disperazione:
“uno”
“due”
“tre”
e mentre contava il panico gli si arrampicava sulla schinea, si impossessava delle sue ossa facendole tremolare come gocce appese ad una grondaia in procinto di cadere. Continuava trascinando il suo manto nero nelle viscere e offuscando il cuore e i polmoni fino a cancellare il respiro.
 Ma non arrivava al cervello, dove trovava il suo argine finale, ultimo baluardo della ragione.
“Uno, due, tre”.
Aprí gli occhi e la paura non c’era piú, fuggita come un animale notturno sorpreso nella luce. Aprí gli occhi e si trovò finelmente libera da paure rampicanti.
“Io mi chiamo Dora” disse con un filo di voce sfidando il vento d’altura che sembrava volerla zittire. Sapeva solo questo di se stessa, ma se voleva avere salva la vita, doveva farselo bastare.

8
Presentazioni / Leon8oo3
« il: Febbraio 19, 2011, 12:12:53 »
Che dire, abbiamo dovuto abbandonare una nave che é stata la nostra casa per tanto tempo. L'abbiamo vista sprofondare in un turbinio di schiuma e sgomento nell'acqua nera come inchiostro. L'abbiamo persa di vista, trascinata dagli eventi nel buio dei fondali del web. E poi, sperduti a passeggiare nelle strade deserte di notte, a ricordare di com'era e di come poteva essere, divisi negli incontri fortuiti, a lanciare le nostre idee in spazi aperti prede del vento, a cercare qualcosa di simile, a surrogare i nostri ricordi.
Oggi, nel vedere questo nuovo spazio sembra di sentire l'odore della vernice fresca, dell'aria che entra limpida dalle finestre con il suo profumo di mare e di ricordi.
Oggi salpiamo di nuovo, increspiamo appena l'oceano del web con con lo scafo della nostra nuova piccola meraviglia virtuale. Speriamo che molti nuovi amici vengano ad unirsi a noi e che gli amici di prima si ricordino di coltivare questo giardino.
Amici, sono molto contento che Zam sia tornato :)

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