Autore Topic: Essere se stessi  (Letto 402 volte)

Doxa

  • Muhuhuhu
  • *
  • Post: 2666
  • Karma: +37/-15
    • Mostra profilo
Essere se stessi
« il: Febbraio 27, 2017, 00:10:13 »
150 anni fa, il 28 giugno 1867, Luigi Pirandello nasceva nella contrada “Caos”, “in una campagna d'olivi saraceni  / affacciata agli orli d'un altipiano / di argille azzurre sul mare africano...”, alla periferia di Girgenti, l’attuale Agrigento, denominata  Akragas dagli antichi coloni greci ed Agrigentum dai conquistatori Romani. Nel Medioevo la Sicilia fu dominata dagli Arabi e questa città la chiamarono Kerkent (fortezza musulmana dall’826), col tempo modificato in “Gergent”, da cui Girgenti. Questo toponimo nel 1927 fu sostituito  con Agrigento, che evoca l’Agrigentum romana.
La giunta comunale di questa città nell’aprile del 2016 per non far dimenticare alle nuove generazioni l’antico toponimo, ha deliberato che il centro storico venga denominato “Girgenti”, descritto e citato in alcune novelle e romanzi da Luigi Pirandello, premio Nobel per la letteratura nel 1934 e morto a Roma nel 1936.


Luigi Pirandello

Nel romanzo “Uno, nessuno centomila”, Pirandello scrisse: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”.  Lo scrittore spiega come una persona possa indossare centomila maschere nella vita ed apparire agli altri diversa da come è realmente. Il comportamento influenza la scelta fra l'essere e l'apparire. Ma essere se stessi non è facile quando le circostanze esterne inducono ad "apparire".

Nella commedia “Pensaci, Giacomino !”, Pirandello fa emergere  i paradossi esistenziali dell’individuo (crisi di identità, doppi ruoli, la maschera sociale e il  vero volto),  i dilemmi della vita quotidiana.

Anche nella commedia “Ma non è una cosa seria” Pirandello esplica la morale del personaggio “Memmo Speranza”:  la vita non è una cosa seria che si possa risolvere con la logica. I nostri ragionamenti la vita spesso ce li ribalta contro.

Ne “Il piacere dell’onestà” lo scrittore propone un principio etico indiscutibile: “E’ molto più facile essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini si deve essere sempre”.

Sin dall’antichità il tema dell’essere e dell’apparire fa parte della riflessione filosofica, perché  rappresenta una parte di ciò che cerchiamo di perseguire.

Essere se stessi significa possedere la forza psicologica della libertà dal condizionamento dei giudizi altrui.

Essere se stessi a volte può spaventarci per timore di non essere accettati ...,meglio essere libero con qualche problema in più che prigioniero.

Essere se stessi è toglierci la maschera e mostrarci come siamo... anche se ne abbiamo paura è la miglior soluzione per noi....
Perchè molte volte non si riesce ad essere se stessi? Perché temiamo di non piacere agli altri, di non essere accettati per ciò che siamo.

Essere se stessi significa far convivere pacificamente il proprio Io con il Me. L'Io in questo caso si riferisce alla reazione dell'individuo nell'interazione con l'ambiente sociale; il "Me", invece, indica l'assorbimento psicologico degli atteggiamenti degli altri da parte di un soggetto.

Per la filosofia esistenzialista l’autenticità rispecchia la vera realtà interiore dell’individuo, è “autentico” chi persegue l’autenticità come conquista e significato della sua esistenza. 
“Autentico” deriva dal tardo latino “authentìcus”: parola composta da  “autòs” (= autore; che fa da sé) + “en-tòs” (=in,  dentro) si riferisce alla nostra vera interiorità, al di là di quello che vogliamo apparire o crediamo di essere. In senso lato significa “avere autorità su se stessi”.

Si sente sempre più spesso, ai nostri giorni, parlare di “etica dell’autenticità”, basata sull’idea che il solo metro valido per le scelte del singolo sia la fedeltà/corrispondenza tra le proprie scelte o azioni e le proprie aspirazioni più profonde. Una tale “etica della responsabilità” è frutto della lotta ingaggiata contro i condizionamenti esteriori ed è frutto dell’aver posto il proprio centro nell’obbedienza al comando della ragione. Ma quale ragione? Non certo la ragione universale che Kant ha posto a base dell’”imperativo categorico” che, proprio per questo, impegna il soggetto ad agire come vorrebbe agisse chiunque altro, al posto suo. A differenza del fondamento della “regola d’oro” kantiana, la cosiddetta “etica dell’autenticità” è insofferente nei confronti di ogni parametro prestabilito e di ogni regola positiva di comportamento in nome della spontaneità con cui ciascuno tende ad esprimere la propria identità, i propri stati d’animo, i propri desideri. In questa prospettiva, essere autentici significa essere se stessi fino in fondo; significa essere fedeli a quel mondo intimo e rigorosamente individuale che si sottrae a ogni valutazione da parte di altri. Non si fa fatica a rilevare i limiti di una simile concezione di autenticità, esposta al soggettivismo e al relativismo più evidenti. Essa mette tra parentesi il carattere sociale e quindi relazionale dell’uomo che rende più complesso e, per ciò stesso, più faticoso il vivere nell’autenticità.

Il filosofo e moralista  colombiano Nicolás Gómez Dávila scrisse: “La nostra verità raggiunge la sua piena autenticità soltanto nella solitudine del nostro pensiero, perché è lì che il dubbio corrode e attenua la durezza dei suoi contorni”.

Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer  metteva in guardia dal “perdere tre quarti di se stessi per essere come le altre persone”.

E’ vero la patente di autenticità non possiamo darcela sa soli:  l’autenticità è il risultato della propria capacità di fare delle scelte e di realizzarle con coraggio.
« Ultima modifica: Febbraio 27, 2017, 00:12:47 da dottorstranamore »