Autore Topic: Il buio non tornerà  (Letto 1636 volte)

Steven Joseph

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Il buio non tornerà
« il: Giugno 20, 2013, 21:45:57 »
Il mio nome è Ryan Scott e avevo diciassette anni quando nacqui per la seconda volta.
Ma partiamo dall’inizio e parliamo della mia nascita. Io sono il secondo di tre figli, due maschi e una femmina, che i miei genitori hanno amato più di loro stessi ma che non hanno condiviso il loro amore in parti uguali. Ebbene sì, contrariamente a quanto sarebbe giusto, i miei mi ricoprivano di più attenzioni di quante ne meritassi e questo mi sembrava profondamente ingiusto nei confronti di mia sorella e di mio fratello. Sia chiaro, nei primi anni di vita ero contentissimo di tutto questo, ma con il passare degli anni, crebbe in me la consapevolezza che tutte queste premure fossero legate solo e soltanto al senso di colpa che i miei dimostravano di covare dal giorno in cui sono nato. Una rabbia che li divorava  internamente, fino alle ossa. Una rabbia per aver dato a due dei loro figli qualcosa che il terzo non possedeva. La vista. Ebbene sì, sono cieco fin dalla nascita e la mia vita sembrava agli occhi di tutti impossibile o dolorosa. A dire il vero però, io ho plasmato fin dall’inizio dentro di me la consapevolezza che non sarei mai potuto diventare come loro. Non avrei mai potuto percepire quel mondo in cui tutti sembravano così felici e che era percepibile in ogni parola, in ogni suono e in ogni sensazione.
Agli inizi della mia vita, sotto le amorevoli e forse troppo premurose cure dei miei genitori, crebbi isolato dalla realtà. Per il mio bene, dicevano, era meglio non conoscere ciò che non avrei mai potuto conoscere. E fu così che, seppure nella nostra povertà, non mi mancò mai niente. Avevo tutto quello che potevo desiderare. Mi furono regalate valanghe su valanghe di giocattolini musicali, ovvero quelli che, al tocco del bambino, emettevano delle canzoncine o dei suoni simpatici (una delle poche sensazioni che i giocattolini potevano stimolare in me, infatti, era il suono). I miei si illudevano di poter colmare il vuoto che c’era in me con quell’oceano di giocattoli e balocchi, anche se in verità loro erano ben consci di quanto questo non facesse altro che attenuare la mia curiosità. Curiosità che un giorno sarebbe esplosa come un vulcano. Quel giorno arrivò prima di quanto i miei si aspettassero. Era un tiepido pomeriggio di luglio. Faceva caldo, troppo caldo e decisi di uscire di casa. I miei e, in particolar modo mia madre, non mi permettevano di uscire da solo. Quel giorno, però, approfittai di una distrazione di mia madre. Quella poveretta non poteva sorvegliarmi ventiquattr’ore su ventiquattro e ogni tanto si svagava telefonando a qualche sua amica e spettegolando su chiunque. Non che mia madre fosse una di quelle donne tutte parrucchieri e saloni di bellezza che si comportano da snob, ma qualche volta, finito di fare la madre, si rilassava come le piaceva fare. In fondo cosa c’era di male in questo? Imparai a riconoscere quando mia madre parlava al telefono. Dopo aver detto qualcosa nessuno le rispondeva. Mia madre stava in silenzio per qualche secondo e poi riprendeva a parlare. Capii, allora che non parlava da sola, e nemmeno con una persona che non sapeva parlare, ma con qualcuno che si trovava da un’altra parte. Non feci molta strada quel giorno. Anche perché non volevo disubbidire tanto a mia madre, solo un pochino. Mi spostai semplicemente in giardino, continuando a fare quello che facevo in camera mia. Stavo giocando con le costruzioni. Affidavo al tatto il mio orientamento tra quei blocchetti di plastica e non sbagliavo. In realtà non ho mai avvertito una mancanza in me. Ero convinto di essere come tutti gli altri e credevo che tutti vivessero come facevo io. Immersi nel buio più totale si muovevano ignorando, prima del contatto, ciò che li circondava. Mia madre non aveva mai voluto rivelarmi che ci fosse un altro mondo, più grande, più dettagliato che quasi tutti potevano ammirare, tranne me. Quando ascoltavo l’anchorman del telegiornale (l’unico programma che mi era concesso, in quanto parlava di cose difficili in termini difficili per cui mi era impossibile capire e fare domande) io captavo segnali che rimandavano ad un qualcosa di altro dalle mie percezioni, qualcosa che andava oltre il mio modo di capire. Per quanto io mi sforzassi di ignorare quelle pulsioni interne che mi spingevano a chiedere e a voler sapere, a volte esse sovrastavano me e la mia forza di reprimerle, così cercavo di fare poche domande, su pochi temi che io proprio non afferravo neanche lontanamente. Captavo parole che per me non avevano significato e una volta chiesi: - Che cos’è “giallo”-
Mia madre impallidì. Uno sguardo sconfortato partì dai suoi occhi e si diresse verso quelli del marito. In quello sguardo si poteva leggere lo sconforto di una madre che avrebbe dato la vita per suo figlio, che avrebbe pagato oro per un suo sorriso, ma che in quel momento non riusciva a capire cosa fosse opportuno dire o fare. Era desiderosa di affidare al marito l’onere di una risposta, ma allo stesso tempo temeva che lui avrebbe peggiorato le cose. L’istinto le suggeriva di continuare così come aveva fatto fino ad allora, nascondendo la verità ad un bambino che non avrebbe saputo comprendere l’esistenza di un qualcosa che lui non avrebbe mai potuto conoscere. Per il momento e solo per il momento la madre avrebbe voluto zittire quell’ inevitabile “altro mondo” dal quale il suo bambino era escluso. Un impulso, però, si fece avanti in lei, emergendo dal buio più segreto del suo inconscio e bussando alle porte della sua anima. Questa strana sensazione l’avrebbe portata a rivelare ogni cosa al figlio, per una sorta di dovere materno che si incarnava nella scelta più illogica, ma che avrebbe tolto ogni peso dal cuore della madre.
- Robert, caro, tu sai che cosa vuol dire questa parola? – questa fu la reazione di mia madre, una domanda che in sé comprendeva già la risposta.
Il padre rispose prontamente. – No, cara. Sarà sicuramente una di quelle parolone usate dai giornalisti, tipo deforestazione o globalizzazione. Tutte parole di cui secondo me neanche loro conoscono il significato. –
Per un piccoletto di soli cinque anni quella risposta andò fin troppo bene anche se, crescendo le cose cambiarono parecchio.
Ma torniamo a quel tiepido pomeriggio di luglio. Mia madre si intratteneva al telefono con la signora Rosaline( di cui non ho mai conosciuto il cognome), una zitella tutto pepe che conosceva i fatti di tutti in paese e che non esitava a spifferarli in cambio di altri scoop. Lei viveva per questo e non c’era altro che le potesse interessare, per cui probabilmente era sola per sua volontà. Nessuno la cercava e lei di ricambio non si interessava al genere maschile. Viveva sola in casa sua con i suoi tre gatti Alanis, Amy e Jesse (tutti nomi femminili ovviamente). Lavorava (indovinate un po’) come parrucchiera e questo la autorizzava a dare consigli sulla vita sentimentale delle clienti che la prendevano alla lettera come il Vangelo.
Quel giorno ero intento a costruire qualcosa con quei blocchetti, non so bene cosa stessi costruendo. A dire il vero non lo ricordo, ma non è importante. Ciò che conta è che di lì passò qualcuno. Sentii i suoi passi avvicinarsi a me. Non era mia madre. I suoi passi sapevo riconoscerli, inoltre udivo ancora la voce e le risate di mia madre provenire dalla casa, segno che non aveva ancora finito di spettegolare al telefono. I passi che mi si avvicinavano erano leggeri, veloci e innocenti. Distolsi l’attenzione dai miei blocchetti e la concentrai sul nuovo arrivato.
 - Ciao, chi sei? –
Non ci fu una risposta, ma io non mi arresi e ripetei.
 - Ciao, chi sei? – Dopo un breve momento di silenzio udii una voce. Era gentile, allegra e curiosa. La voce di un bambino. – Che fai qui tutto solo? Vieni a giocare con noi. -
 - Non posso. – risposi prontamente. – Mia mamma non vuole che mi allontani da solo. – Ci fu un attimo di silenzio e poi il nuovo bambino rispose. ¬– Ma tua mamma non è qui in questo momento. –
- Proprio per questo non posso allontanarmi! – Feci accentuando il fatto che avessi ragione.
Il bambino si interruppe nuovamente. Di tutti quei silenzi non riuscivo a cogliere la causa. Con il senno di poi però, ripensandovi, capii che in quegli attimi eterni il bambino mi stava osservando. Io non potevo saperlo ma lui mi stavo scrutando profondamente. Stava cercando di capire che cosa avessi di diverso da lui. Perché tenessi gli occhi chiusi o perché sembravo estraniato dal mondo. Tutto gli pareva così strano e voleva capirci di più. 
- Come vuoi – fece, rassegnandosi. – Ti piacciono i Pokemon?- mi chiese poi.
- Che cosa? –
- I Pokemon! Come fai a non conoscerli? Li fanno anche alla Tv. –
- I miei non mi permettono di stare da solo davanti alla televisione? –
- Perché?-
-Non lo so.- feci io. – Non vogliono. –
- Quindi tu non hai mai guardato la televisione da solo? Come può essere?
- Cos’è guardato? –
- Che cos’è guardare? Ma tu sei tutto matto! Ecco perché giochi da solo! – disse il ragazzino e, accompagnato da una sonora risata, se ne andò. Lasciandomi solo.       
Immediatamente una lacrima mi scese accarezzandomi lo zigomo e discese libera fino a toccare terra. I bambini, si sa, a volte sono crudeli e dicono cose che possono far male. Inermi non possiamo che subire le loro accuse, le loro prese in giro. Ma in fondo non è colpa loro. Non capiscono cosa sia il male e agiscono per proprio interesse. Queste, però, sono considerazioni che ho maturato crescendo, capendo e interpretando. Allora, invece, ero solo un ragazzino di appena sette anni e non potevo perdonare quel bambino, non potevo giustificare la sua arroganza. Sapevo solo che mi aveva fatto piangere, sapevo solo che mi aveva fatto male. Era come se lui e tutti gli altri che lui conosceva avessero qualcosa, fossero qualcuno e si meravigliava di come io non avessi quel qualcosa, di come io non fossi quel qualcuno. Era solo meravigliato e soprattutto era dispiaciuto di non aver potuto fare amicizia con me. Mi aveva invitato a giocare, io avevo rifiutato e lui non si era arreso. Aveva cercato di trovare qualche interesse in comune e si accorse che non ne avevamo. Sorpreso, si era allontanato emotivamente da me, poi, deluso ma non vinto, aveva fatto trionfare il suo orgoglio sul suo dispiacere e si era dimostrato arrogante, allontanandosi da me fisicamente. In fondo era partito con delle buoni intenzioni, ma io, immaturo e rancoroso, non riuscivo a ricordare altro che quell’ultima frase che ancora mi rimbombava in testa. Che mi fece impazzire per quel minuto e mezzo in cui rimasi solo nel mio giardino. Solo nel mio mondo.

nihil

  • Mucchine
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Re:Il buio non tornerà
« Risposta #1 il: Giugno 21, 2013, 06:35:01 »
racconto davvero ad alto peso specifico. L'amore dei genitori protettivo ma anzichè aiutare, provoca sempre maggiore diversità. Ogni protagonista affronta la realtà cercando di non farsi e non fare male, ma la vita va avanti senza sconti e arriva il bambino che invita a giocare e senza saperlo nè volerlo dichiara che il re è nudo. Un applausio di cuore, hai affrontato un tema inusuale, con grande maestrìa.  :-* Aspettiamo altri racconti.  ;)

patriziagiangregorio

  • Mucca Trombettista
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Re:Il buio non tornerà
« Risposta #2 il: Giugno 21, 2013, 19:26:14 »
un racconto bellissimo e toccante. :rose:

Steven Joseph

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Re:Il buio non tornerà
« Risposta #3 il: Giugno 22, 2013, 00:15:22 »
Grazie mille :)