Autore Topic: Il mio tacchino di Natale  (Letto 1695 volte)

valdobear

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Il mio tacchino di Natale
« il: Dicembre 14, 2015, 19:50:02 »


Lo so, il Galateo lo vieta, ma quando si è soli con se stessi, al diavolo le convenzioni!
E poi, detto tra noi, chi legge ancora monsignor Della Casa?
Così, quando consumo un pasto in solitudine, a me piace leggere; e certamente non il Galateo.
Il Natale era alle porte, e sarebbe stato il mio settantesimo; un numero che, riferito all’età, incute seri timori: il conteggio alla rovescia vede lo zero sempre più vicino; però dopo, quando Qualcuno preme il pulsante rosso, non si parte per la luna.
Da alcuni giorni, in solitudine da anacoreta, mi ero rifugiato nel mio Rascard, a quasi duemila metri di altezza in una remota valle ai confini con la Francia.
Stavo facendo il bilancio di tante cose e, forse perché andavo scoprendo che il passivo superava di molto l’attivo, o forse perché l’inverno stava facendo il proprio mestiere mandando una fitta nevicata, insomma, qualunque ne fosse il motivo, avevo deciso di rileggere un piccolo gioiello: "A Christmas Carol" di Charles Dickens. In lingua originale, per rendermi la vita un po’più difficile di quanto già fosse.
Avevo trasferito una parte dei miei libri, così come una parte dei miei dischi preferiti, in quel rifugio, perfetto per godermi gli uni e gli altri.
Misi sul lettore un disco; avevo scelto “Quadri di un’esposizione” di Mussorsgsky che, per le sue atmosfere magiche, mi pareva un ottimo accompagnamento alla mia lettura, poi mi diressi agli scaffali della libreria.
Solo i miei libri preferiti possono fregiarsi dell’Ordine della Macchia d’Unto, che inevitabilmente onora le pagine lette sulla tavola, accanto ai miei piatti; e quelle che mi apprestavo a leggere erano già state decorate più volte.
"Marley was dead, to begin with."
Tanto per cominciare, Marley era morto. Un incipit folgorante che non potevo fare a meno di associare al mio tacchino, assaporato in ricca porzione: in effetti, era defunto come un chiodo in una bara, il povero tacchino Marley. Di lui giacevano nel mio piatto, ma ancora per poco, le saporite, invitanti, spoglie mortali.
Meno di un'ora dopo, del tacchino non era rimasto che qualche ossicino, del contorno di radicchio nemmeno quello, visto che gli scienziati ancora non sono riusciti a creare il radicchio vertebrato transgenico ma, se qualche multinazionale intravvede un “business”, date loro qualche annetto e ci arriveranno… ma questa è un’altra storia.
Quanto al vino, nel decanter non rimaneva altro che il profumo: il soave, corposo, ben strutturato Fumin di Grosjean, annata 2003, mi aveva deliziato e poi infuso un certo torpore.
Spensi la musica, sulle note del quadro “La capanna dalle zampe di gallina” e, prima di arrivare alle ultime pagine del libro, mi andai ad avvoltolare anzitempo nelle coperte per godermi il totale silenzio di una notte di neve in montagna.
Presto mi svegliai, allarmato.
Qualcosa si muoveva nella casa, non c'era dubbio.
Accesi la luce e mi guardai attorno. Nulla.
«Chi c'è? Ho il cellulare, chiamo la polizia!».
Un bluff, come rilanciare con una coppia di due: pur trascurando il fatto che lassù il cellulare funzionava oppure no, secondo indecifrabili umori, i carabinieri più vicini erano a una ventina di chilometri di strada di montagna innevata, quindi un malintenzionato avrebbe fatto in tempo a spennarmi, cucinarmi e rosicchiarmi sino all'ultimo ossicino, proprio come io avevo fatto col tacchino Marley.
Per tutta risposta, dalla stanza attigua mi giunse un rumore, come di uno zampettio. Poi un chiarore intermittente, dove diversi colori si alternavano con ritmo lento.
Decisi che dovevo andare a vedere, costasse quello che costasse. Impugnai il bastone da trekking che tenevo accanto alla porta-finestra e mi diressi verso l'altra stanza.
Mi piacerebbe dire che lo feci risolutamente; in realtà l’avverbio più adatto, se solo esistesse, sarebbe “tremebondamente”. Invito i signori accademici della Crusca a sancirne l’esistenza.
Di certo, agli occhi di un malintenzionato, magari armato, avrei avuto un aspetto impressionante: scalzo, mutande alla Fantozzi, maglia di lana e bastone, un’apparizione da farlo schiattare, ma dalle risate.
Subito vidi la fonte di quel chiarore policromo: il piccolo albero di Natale, uno di quelli di plastica che si acquistano al supermercato già addobbati. Ma io ero certo di averlo lasciato con la spina staccata, non avevo alcuna intenzione di accenderlo.
Per quello che viene dopo, occorre intenderci subito, se no è meglio che cambiate lettura.
Il padre di Amleto è già morto e sepolto all'inizio del dramma.
Se non credete agli spettri, la sua passeggiata sugli spalti del castello di Elsinore e tutto quello che ne consegue, incluso il sin troppo famoso “ To be, or not to be…” sono una solenne baggianata. Ora, chi vuole sostenere che l'Amleto sia una solenne baggianata?
Dicevo dell'alberello acceso. Subito dopo, mi sentii rimescolare la cena nello stomaco: in un angolo, ritto su due zampe scheletriche, proprio come quelle che sorreggono la capanna di Baba Yaga nell’omonima fiaba russa, stava una figura da incubo. Traslucido come un miraggio, enorme, oscenamente spennato, gli occhi che mi fissavano iniettati di sangue, non vi era dubbio: si trattava di Marley, come avevo battezzato il tacchino della mia cena.
Era verde, poi giallo, era rosso, poi ancora verde. Era il colore delle luci dell'albero che si accendevano in sequenza.
«Ma... ma tu sei morto e mangiato», dissi stupidamente.
«Certo, ma non te ne voglio, non sono qui per questo.».
Parlava. Chissà perché la cosa non mi sorprese più di tanto.
«E allora cosa fai qui, cosa vuoi da me?».
«Io? Non voglio molto e a dire il vero non sono nemmeno un tacchino. Ho pensato di presentarmi in questa forma per non spaventarti troppo.».
«Grazie, molto gentile, in verità sono abbastanza spaventato anche così. Ma se non sei un tacchino, chi diavolo saresti?».
«Hai appena riletto un certo racconto, quindi puoi ben immaginarti chi io sia.».
In effetti non ci voleva molta fantasia, una volta accettata la situazione assurda nella quale mi trovavo. Mi feci coraggio e risposi:
«Veramente, in "A Christmas Carol", di spettri ce ne sono a bizzeffe. Ma io non ho soci d'affari defunti di fresco, quindi suppongo che tu pretenda di essere uno degli spiriti del Natale.».
«Io non pretendo, io sono! Per l'esattezza, sono lo spirito del Natale Presente e il perché della mia venuta è semplice: tu mi devi delle scuse.».
Spettro o tacchino che fosse, non vedevo per quale ragione avrei dovuto chiedere scusa a qualcosa che, in fondo, nemmeno credevo reale, e glielo dissi.
Per tutta risposta venne fuori con una specie di ruggito che fece tremare i doppi vetri della sala.
«Tu non accogli più lo spirito del Natale! Dovresti vergognarti, implorare il mio perdono, correre fuori a comprare i regali e fare felici tante persone!».
Io sono un pò' timido e pure incline a mediare, ma non aggreditemi soprattutto quando penso di essere dalla parte della ragione. A quel punto l'arrabbiato ero io, e ben deciso a farmi valere.
«Bene, sono contento che tu sia venuto, almeno ti dico di persona perché ti detesto, e mi risulta che in tanti la pensino come me!».
«Ma cosa dici? In tutto il mondo brillano le luci, si canta "Jingle bells", si scambiano doni, io sono ovunque, più vivo e presente che mai!».
«Ecco, questo è proprio un aspetto del problema: sei fin troppo vivo.».
«E da quando essere troppo vivo sarebbe un problema?».
«Lascia che ti spieghi. Vedi, quando ero piccolo...» m’interruppe con un secondo ruggito:
«Aaah che palle, sempre la solita solfa! Voi umani siete monotoni e banali! Tutti a dire com'era bello il Natale da bambini, il calore di mamma e papà, dei fratellini o sorelline, l'abete, i regalini poco costosi, altro che gli smartphone e i videogiochi... bla bla bla, che lagna! Possibile che non vi rendiate conto di quanto io sia più bello adesso, più allegro e sopratutto più ricco?».
«Questo è proprio il punto, mio caro. Sei sfacciatamente ricco, come uno sceicco del petrolio e se non bastasse, sei pure cieco, muto e sordo. Rassomigli alle tre scimmiette, sai quelle che si mettono le mani sugli occhi, sulla bocca e sulle orecchie? È inutile che adesso inizi a sferragliare trascinando chissà quali catene, saranno certamente d'oro massiccio e proprio non mi fai pena.».
Il tacchino, o spirito, o chiunque fosse, divenne rosso, questa volta non per le luci dell’albero ma per la rabbia. Forse avevo esagerato e ne avrei subite terribili conseguenze?
Invece si calmò e riprese a parlare quasi in tono affettuoso.
«Sei tu che mi fai pena, pover’uomo: e pensare che ho acceso il tuo miserando alberello perché volevo tirarti su di morale, magari farti venire voglia di prendere la tua automobile e andare giù, in paese. Sai, c'è festa nel Pub, c'è la musica e tanta gente felice.».
«Gente che pensa di comprare la felicità, vuoi dire. Felice era un tempo, sì proprio quel tempo con mamma e papà, l'angelo di cartone, il regalo povero ma atteso come un miracolo. Se tutto ciò ti fa dire "che palle" puoi dirlo, ma io ti vorrei ancora così, con quelle serate in famiglia, col calore di una stufa a legna e senza il bisogno di decine di pacchetti costosi per sentirsi felici. Tu sei qui, bello grasso e chiassoso, ma non sei come dovresti essere.».
«Se parli di queste forme da tacchino, hai ragione, ma per il resto come dovrei essere, di grazia? Tutto si evolve, tutto cambia e pure io sono cambiato, c'è qualcosa di male in questo?».
Oramai il timore aveva lasciato il posto alla mia voglia di sfogarmi con qualcuno, fosse pure un sedicente spirito, e nulla mi avrebbe trattenuto; così gli snocciolai una tiritera che avevo bella e pronta da tempo ma che nessuno era ancora riuscito a tirarmi fuori.
«Oh no, non è il cambiamento in sé, per quello hai ragione, tutto cambia. Il punto è come si cambia. E tu sei cambiato troppo e troppo male. Ma guardati! Se ti prendessi la briga di usare quelle aluccie da tacchino e di andare un po' in giro per il mondo, vedresti quello che vedono tutti, vedresti ciò che accade ogni giorno: dove sono la solidarietà, la tolleranza, l’amore per il prossimo? Semplice, queste cose le mettiamo in uno scatolone assieme alle palline colorate, ai fili d’argento, alle statuine del presepe e le tiriamo fuori una volta all’anno. E cosa vuoi che sia un giorno d’ipocrita bontà rispetto ai trecentosessantaquattro dove tu non ti fai vivo?».
«Io veramente... », tentò di interloquire l'ombra del pennuto, ma io ero lanciato e non lo lasciai continuare.
«Era una domanda retorica, e ora te ne faccio un'altra: dove sei tu, quando i mercanti nel tempio svendono la giustizia, l’onestà, la salute, la fede, persino il Bambino, il bue e l’asinello? La capanna non la toccano solo perché c'è la crisi del mercato immobiliare, l’IMU e tutto il resto, non è il momento per vendere.».
Era un tantino sconcertato, si vedeva dai bargigli più penduli che mai e si percepiva dal tono della voce quando tentò una risposta.
«Ma nei tempi passati esistevano cose persino peggiori di queste, eppure il Natale era un giorno felice.».
«In passato era molto più facile far finta di non sapere. Oggi sappiamo, sappiamo tutto. Vediamo bambini addestrati a uccidere o a farsi esplodere, vediamo i poveri del mondo morire di fame mentre distrattamente gettiamo nell’immondizia tonnellate di cibo, vediamo coloro che dovrebbero guidarci intenti ad azzuffarsi per il loro potere e il loro tornaconto… e qui smetto, ma una cosa è sicura: l’uomo è l’unica, autentica belva feroce, l’unico del creato che sorride con i denti arrossati del sangue del fratello mentre ti augura “Buon Natale”.».
Avevo finito. Restammo a fissarci per lunghi istanti, mentre gli occhi di Marley cambiavano colore: verde, giallo, rosso, ancora verde.
Poi, nelle sue pupille, vidi il riflesso di un lampo improvviso, seguito immediatamente da un tuono vicinissimo.
L'alberello si spense mentre il buio tornava padrone della casa.
Mi trovai sul letto, sudato, con i piedi sul cuscino e la coperta per terra.
La luce era davvero saltata, ne dedussi che il tuono era stata l’unica cosa reale di quella strana nottata, ma tutto era tremendamente vivido nella mia mente. Di solito il ricordo dei miei sogni dura il tempo di infilarmi le pantofole.
Andai a tentoni a ripristinare l'interruttore che era scattato, accesi tutte le luci e confesso che, entrando in sala, ebbi un brivido vedendo l’albero di natale con le luci accese. Forse, mi dissi, avevo inserito la spina prima di buttarmi sul letto, mezzo brillo per quel vino.
Però continuai a ispezionare la casa con circospezione, guardando persino sotto il letto, come un imbecille.
Naturalmente non trovai nessuno.
Alla fine mi convinsi di aver avuto uno strano incubo, complici il defunto pennuto, la musica di Mussorsghj e un bicchiere di troppo.
Ma chi avrebbe potuto ancora dormire?
All'alba aveva smesso di nevicare, il cielo era sgombro da nubi e lo spettacolo era meraviglioso.
Mi vestii, presi le racchette da neve e uscii per andare a fare un giro lungo i sentieri che conoscevo bene.
Forse il freddo e l'aria tersa mi avrebbero rischiarato del tutto le idee.
Mi avviai senza fretta, ricordando di essere un visitatore, un ospite rispettoso e ammirato; persino i miei deboli rumori, il respiro e il fruscio ovattato delle racchette, sembravano fuori posto.
Una breve salita, poi un pascolo illuminato dai primi raggi. Ciascun singolo cristallo di neve rifletteva il sole, erano milioni di piccole luci che tremolavano, si spegnevano e si riaccendevano a ogni movimento degli occhi.
Sulla morbida superficie, una serie di minuscole impronte raccontava storie di abitanti notturni, di ricerca di cibo, di passi furtivi e improvvisi fruscii di ali mortali, di tragedie e di speranze del piccolo popolo della montagna.
Non mi meravigliai troppo se per un lungo tratto del primo sentiero, dalla porta, lungo il pascolo, sino ai margini del bosco, ben riconoscibili tra tutte le altre, mi accompagnò una serie di orme ancora fresche; al mio occhio poco esperto parevano proprio quelle di un grande tacchino.
« Ultima modifica: Dicembre 22, 2015, 19:01:28 da valdobear »

presenza

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Re:Il mio tacchino di Natale
« Risposta #1 il: Dicembre 26, 2015, 00:07:35 »
... e di nuovo ritorna il bisogno di tutti di sfogarsi a parole e poi andare oltre!

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Re:Il mio tacchino di Natale
« Risposta #2 il: Gennaio 12, 2016, 10:58:27 »
che bella storia, di un Orsone in piena forma! sempre arguto, sempre zampillate, un poco sarcastico ma sincero. Quasi quasi non mangerò più tacchino!  ;D

valdobear

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Re:Il mio tacchino di Natale
« Risposta #3 il: Gennaio 14, 2016, 10:49:36 »
Grazie seppure in  ritardo, ma ho avuto giorni movimentati. Anche ora digito avendo in braccio la nipotina piccina piccina,tre chili e mezzo di tenerezza😆

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Re:Il mio tacchino di Natale
« Risposta #4 il: Gennaio 18, 2016, 14:21:59 »
un'orsacchiottina! abow