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George Meredith, il “great man” della letteratura vittoriana

Pubblicato il 22-05-2009


Il 18 maggio di cento anni addietro moriva George Meredith, grande scrittore inglese vittoriano nato a Portsmouth (Hampshire) il 12 febbraio del 1828. Figlio di un fornitore di equipaggiamenti navali, cresciuto come un gentiluomo ma con gravi problemi economici, perse la madre all’età di 5 anni e visse con dei parenti in campagna conducendo una infanzia infelice (il padre aveva sposato la sua giovane governante, rifiutandolo). Fu un autodidatta molto ambizioso nonostante la mancanza di mezzi; divenne poi un influente consulente editoriale per la “Chapman & Hall” ma fu anche giornalista free-lance e poeta-scrittore, molto amato dai contemporanei (era l’autore preferito di Oscar Wilde, che scrisse: «Il suo stile è caos illuminato da sprazzi di luce»). Nel 1849, giovanissimo, sposò Mary Ellen Peacock (figlia del noto ed eccentrico scrittore), una vedova più anziana di lui e con una bimba ma donna bella e intelligente che lo ispirò per la caratterizzazione psicologica delle sue straordinarie eroine. Il matrimonio non fu felice, sia per le condizioni di estrema povertà in cui vivevano, sia per una certa incomprensione reciproca, sia per i frequenti aborti della moglie (l’unico figlio Arthur nacque nel 1853), sia per il tradimento di Mary Ellen con Henry Wallis, un giovane pittore preraffaellita. Nel 1858 la moglie ebbe un figlio che Meredith disconobbe, e infine abbandonò George per fuggire a Capri con l’amante. Il marito abbandonato - pur continuando ad amarla - non volle accoglierla quando ritornò sola, pentita e malata, impedendole anche di rivedere Arthur (Mary Ellen morì poi nel 1861). Distrutto dai sensi di colpa, si considerò sempre corresponsabile per la fine della sua unione disastrosa nella consapevolezza che il suo egoismo - focalizzato sull’autoaffermazione letteraria - aveva contribuito ad allontanare la moglie. Nel 1864 Meredith sposò felicemente la seconda moglie Marie Vulliamy, un’attraente ragazza di origine francese, meno brillante di Mary Hellen ma votata al marito e comprensiva delle sue esigenze (Mary Ellen rimase però la donna del sogno). Memore della stridente contraddizione insita nelle sue due vicende sentimentali, aveva scritto: «In amore, non c’è disastro più spaventoso che la morte dell’immaginazione... Una donna spiritosa è un tesoro, una bellezza spiritosa è un potere», ma prosaicamente aveva anche sostenuto: «Quel dono raro, per la bellezza, il buonsenso!... I baci non durano. Saper cucinare sì!».
I suoi romanzi erano commedie romantiche e sofisticate, piene di lirismo, non gratificate da un lieto fine, spesso autobiografiche e scritte con lo scopo nascosto di esorcizzare i traumi provocati dalle carenze di affetto, dal tradimento e dalla tragedia matrimoniale. Il romanzo “L’egoista” (1879) - tradotto in Italia nel 1943 da Einaudi e purtroppo oggi dimenticato - può essere considerato il suo lavoro principale; questo testo («commedia contenente soltanto metà di me») difende con stile curato e brillante l’indipendenza emozionale e intellettuale della sua eroina e disprezza la vanità del protagonista, un gentiluomo egocentrico e snob. Accogliendo le prime pulsioni di un uomo più moderno, George fu tra i primi a occuparsi della condizione femminile e, seppur non riuscì a emancipare le donne come avrebbe voluto, seppe descriverle superbamente (con amarezza scrisse: «Penso che la donna sarà l’ultima cosa civilizzata dall’uomo»). Meredith fu anche un grande poeta: notevoli sono i sonetti organizzati in forma di romanzo di “Amore moderno” (1862), anche questi autobiografici, dolenti e malinconici.
Uomo molto amante dell’attività fisica, cominciò a soffrire di atassia motoria dal 1870 e - dopo diversi lutti familiari - morì nel 1909 a 81 anni nel suo Flint Cottage in Box-Hill (Surrey), ove si era trasferito nel 1868 con la seconda moglie conducendo una vita quieta e serena e ove - come in pellegrinaggio - accorrevano i molti intellettuali del tempo per far visita al «great man (grande uomo)» della letteratura inglese.


Di Silvia Iannello


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