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Arrigo Benedetti, Maestro riformatore del giornalismo

Pubblicato il 07-06-2010


Il primo giugno del 1910, cento anni addietro, nasceva a Lucca Arrigo Benedetti, giornalista-scrittore oltre che partigiano. Padre del settimanale moderno italiano, è ricordato per aver fondato e diretto i grandi settimanali "Oggi", "L'Europeo" e "L'espresso".
Studente della Facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università di Pisa, roso dal desiderio di scrivere nel 1937 lasciò gli studi per raggiungere a Roma l'amico Mario Pannunzio (li definirono «i gemelli lucchesi» perché erano conterranei e coetanei). Iniziò la carriera di giornalista collaborando al periodico culturale "Libro italiano" e scrivendo i primi racconti dedicati alla sua terra di Lucchesia (del 1938 è l'opera "La figlia del capitano"). Con Pannunzio si avvicinò a Leo Longanesi, facendo i primi importanti passi di scrittura giornalistica al neo-nato settimanale "Omnibus" (soppresso da Mussolini dopo due anni, nel 1939).
Nel 1938 aveva sposato Caterina, conosciuta da bambina, l'amatissima "Rina" cui fu legatissimo e dalla quale ebbe i figli Agata e Alberto. Con Mario Pannunzio nel 1939 fondò "Tutto" e "Oggi", anch'essi soppressi dal regime nel 1941 (Missiroli disse loro: «Amici miei, vi hanno soppresso non tanto per quello che avete pubblicato ma soprattutto per quello che non avete pubblicato»). Nello stesso 1941 pubblicò "I misteri della città". Dopo l'8 settembre 1943, Benedetti si diede alla resistenza sull'Appennino tosco-emiliano ma il giorno di Natale del 1943 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Reggio Emilia, dal quale riuscì a evadere durante un bombardamento. Dopo essere andato a Lucca e a Roma, e dopo aver pubblicato il romanzo autobiografico "Paura all'Alba" (1944) che rievoca le difficili esperienze della lotta partigiana, Benedetti si trasferì a Milano, ove iniziò a lavorare come critico teatrale per il "Corriere Lombardo".
Uomo vulcanico e intraprendente, nel 1945 fondò "L'Europeo" (moderno già nel nome), che - con i suoi straordinari articoli di fondo, le sue ricche fotocronache, l'umanità delle notizie e l'attenzione all'economia (sino ad allora negletta) - ebbe tanto successo da dargli onori e benessere. In seguito però al cambio dell'editore e della linea editoriale, dopo un estenuante «muro contro muro», fu costretto a dare le sue dimissioni nel 1954 (ufficialmente per «dissensi di ordine politico ed editoriale»).
Fiducioso e tenace, fondò nel 1955 "L'espresso" con Eugenio Scalfari (cui lascerà la direzione il 10 aprile del 1963) e ne fece un settimanale nuovo, dalla strutturazione moderna, in grado di fare dell'attualità e del giornalismo d'inchiesta il suo perno e della libertà d'informazione il suo credo. Divenne ben presto uno dei più prestigiosi periodici italiani. Giornalista ormai famoso, Benedetti mantenne soltanto la rubrica "Diario italiano" sino al giugno 1967, anno in cui si allontanò del tutto da "L'Espresso" sia per contrasti interni sia per dedicarsi alla letteratura. Tra le altre sue opere sono da ricordare: "Il passo dei Longobardi", romanzo che narra la storia dell'amata Lucca dal 1921 al 1944 (pubblicato dalla Mondadori nel 1964), che non gli diede purtroppo le soddisfazioni che si aspettava; "Ballo angelico" (1968); "Rosso al vento" (1974); e - usciti postumi nel 1977 - "Cos'è un figlio" - da un pezzo comparso sul "Corriere" e dedicato al figlio Alberto, morto per un incidente subacqueo a 31 anni nel mare della Sardegna (scrisse Cassola: «Benedetti tenne per sé lo strazio, offrendo agli altri una meditazione sulla sua vita») - e "Diario di campagna".
Fu poi inviato speciale de "La Stampa", direttore de "Il Mondo" (1969-72) - che fece ritornare in vita con i caratteri di una rivista politico-letteraria per ricordare Pannunzio e le sue battaglie civili, e che avrà tra i suoi collaboratori Cassola, Flaiano, Cancogni e Tobino (anch'egli lucchese e coetaneo di Benedetti) - , scrittore per la terza pagina del "Corriere della Sera", e direttore di "Paese Sera" (1975-6), dopo aver aderito al partito comunista (ha scritto Ajello: «Un giornale stanco, guidato da un uomo stanco»). Quasi contemporaneamente, Eugenio Scalfari fondava e mandava in edicola "Repubblica". A chi gli rimproverava la sua scelta politica, Arrigo rispondeva: «Un liberale italiano che deve cambiare partito approda facilmente al partito comunista che in fondo ha la stessa matrice culturale». Benedetti morì prematuramente a Roma il 26 ottobre del 1976.
Grande maestro di giornalismo forse oggi piuttosto dimenticato, pretendeva idealmente che il suo giornale fosse «una sorta di specchio che riflettesse la realtà nella sua interezza... fluido, quasi impersonale, una specie di trapianto anglosassone in Italia», con insegnamenti ricavati non soltanto dal giornalismo di Londra o di New York ma anche dalla letteratura europea (amava soprattutto Flaubert e Proust). Formò molti bravi giornalisti, tra i quali Marialivia Serini, Mino Guerrini, Camilla Cederna, Ugo Stille, Giancarlo Fusco e Alfredo Todisco. In un suo articolo celebrativo, ha scritto Nello Ajello: «... la severa lezione tecnica da lui impartita resiste al tempo... In via Po, sede originaria della redazione, Benedetti imperava con burbera energia. Irascibile, autoritario, instancabile, non concedeva pause alla propria tensione. La comunicava agli altri... Abitava in via Paisiello, vicino al giornale. La sua religione degli orari era legata, nel fondo, a un'avversione da toscano per Roma, i romani, il romanesco...» (è sua la citazione: «Che differenza c'è tra Roma e Milano, a parte il fatto che lassù si lavora?», e a lui si deve l'inquietante titolo «Capitale corrotta=Nazione infetta», dato all'articolo scritto da Manlio Cancogni, relativo all'inchiesta sugli scandali delle società immobiliari romane). Da «nume collerico» rivendicava per i suoi giornalisti - e per sé - uno «stile asciutto oggettivo», e la sua ruvida severità verso di loro è rimasta proverbiale: era solito stilare dei rigidi ordini di servizio che riguardavano come scrivere sul giornale (quello di "Paese Sera" si concludeva così: «Con preghiera di fare più giornalismo e meno ideologia»). Ha sostenuto Manlio Cancogni: «C'era gente che piangeva...».

Di Silvia Iannello


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