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Recensione Agota Kristof

Agota Kristof

Intervista

di RAFFAELE PANIZZA

Agota Kristof non scrive più. Ed è difficile capire se questo la faccia soffrire, se le sia indifferente, oppure se le procuri un antico senso di colpa, come quello che provava da ragazzina quando la sua passione per la lettura toglieva spazio all’urgenza per la scrittura. E’ così e basta. E si fatica a crederlo, visto che da quasi dieci anni non apparivano contemporaneamente due suoi titoli inediti in libreria. E’ infatti appena uscita una piccola autobiografia, L'analfabeta (Casagrande, € 10), ed Einaudi ha pubblicato da pochi giorni 25 racconti inediti col titolo La vendetta (€ 8.50), a loro volta appena editi in Francia.

8806173235.jpgC’est egal c’è scritto sulla copertina dell’edizione francese, con una scelta forse più vicina all’anima di queste storie «disperatamente nichiliste», come le definisce lei, lunghe alcune non più di due pagine, col sapore legnoso dell’apologo: «Ma La vendetta è uno dei racconti che avrei potuto scrivere anche ora, quello che sento ancora mio» aggiunge. Invece è materiale di qualche anno fa, che Agota ha dato il compito di disseppellire dall’archivio letterario di Berna – al quale ha regalato decine di manoscritti incompleti – grazie all’interessamento dell’editore Casagrande di Bellinzona, anche se poi, per motivi di diritti, è stata la casa editrice torinese a pubblicarlo: «I racconti de La vendetta risalgono agli anni Settanta. Sono le prime cose che ho scritto in francese, molto dopo la fuga dall’Ungheria del 1956 e l’arrivo qui a Neuchatel, città dalla quale non mi sono mossa più» racconta, seduta su un divano che appare enorme rispetto a lei, nella piccola casa rosa in cui vive sola, nel cuore della città vecchia. 8877134267.jpg«Mentre L’analfabeta è fatto di scritti più recenti, contributi per una rivista letteraria di Zurigo, Du, che mi aveva chiesto di raccontare la mia vita» aggiunge. E la sua storia personale, che fino a oggi era rimasta attorcigliata e nascosta tra le frasi scarne dei suoi romanzi (più difficilmente distinguibile ne La triologia della città di K, più intelligibile in Ieri, da cui Silvio Soldini ha tratto il film Brucio nel vento), adesso è a disposizione di tutti. L’infanzia felice a Köszeg, lei orgoglio del nonno, capace di leggere il giornale già a 4 anni, esibita come un trofeo. I giorni coi fratelli, a fare gli stessi giochi di crudeltà dei gemelli Lucas e Klaus, protagonisti della Trilogia: impiccare il gatto, e poi restare a guardarlo. Poi il collegio a 14 anni, il padre in galera perché non comunista e la madre a impacchettare veleno per topi dodici ore al giorno. «Iniziarono gli anni cattivi» dice, culminati nella fuga, per paura che il marito – suo professore di storia ai tempi del liceo e anticomunista – venisse arrestato dalla polizia politica. Infine operaia in una fabbrica di orologi a scrivere poesie al ritmo delle macchine utensili. «I miei anni “non amati”», li chiama. Quelli che ha sopportato solo grazie alla scrittura.

E questi che vive adesso, invece, che anni sono?

Questi sono gli anni banali. Gli anni in cui non succede nulla e nulla mi interessa.

Per quale motivo non scrive più?
E’ successo e basta, non l’ho voluto. Il problema è che non posso scrivere meglio di come ho già fatto.

Forse la stanchezza.

Sì, sono stanca di riflettere. Scrivo un passaggio, e poi lo ricomincio da capo accorgendomi di averlo rifatto uguale, sempre lo stesso.

Si è bloccata prima di cominciare una storia o ha lasciato qualcosa a metà?

A metà. Ho scritto molte pagine di un romanzo. Ho trovato anche il titolo: Aegle dans les champs.

Chi è Aegle?

Il mio primo amore. Era il pastore protestante del mio villaggio, in Ungheria. Io avevo 5 anni, lui era amico di mio padre. L’ho amato per tutta la vita, e un giorno glie l’ho anche detto! (e ride, di quelle sue risate corte, secche, che sembrano implodere).

Ma non è l’uomo con cui ha vissuto. Dei suoi due mariti, nei libri, non parla quasi mai.

Non è un argomento interessante.

Li ha amati?

Credo di no. Ho troppo da rinfacciare.

Cosa non perdona al suo primo marito?

Di avermi portata via dal mio Paese.

E al secondo?

Di avermi trasformata in una domestica.

Come trova l’idea di avere un uomo in casa, oggi?

Insopportabile.

Le avranno pur dato qualcosa…

I figli. Mentre io a loro solo cattiveria. Il secondo non voleva che scrivessi, continuava a chiedermi se compariva nelle storie. Ma non poteva esserci, lui non era interessante.

E i suoi figli le hanno dato una nipote.

Ha 11 anni, con lei gioco a scacchi.

Non si è mai sentita imbarazzata di fronte a loro, per la durezza dei suoi romanzi, per la sessualità violenta che vi compare?

No, erano già grandi. Ora mia nipote sta leggendo Il grande quaderno (prima parte della triologia, n.d.r.) ma non mi pare sconvolta. Forse la madre l’ha preparata.

I suoi figli vengono spesso a trovarla?

Mia figlia abita a Parigi, scrive opere di teatro, la sento al telefono. Il maschio fa il musicista, suona cose tristissime alla chitarra classica. Mentre un’altra figlia è responsabile della cultura della provincia di Neuchatel. Loro vengono spesso, a pranzo.

Cosa cucina?

La mia specialità è il pollo alla paprika.

Nella sua vita c’è spazio per l’allegria?

L’allegria è quando mi vengono a prendere gli amici, quando mi portano al ristorante. Purtroppo ultimamente ho dei problemi alle gambe, alla circolazione, faccio fatica a camminare. Guardo molta televisione però.

Cosa guarda?

Film. Ma non me ne piace nessuno.

Sta per subire un’operazione pericolosa, e il prossimo 30 ottobre compirà 70 anni. Le capita di fare bilanci?

Il mio bilancio è che 70 anni sono sufficienti, ho vissuto abbastanza.

Almeno ha avuto il privilegio di vedersi pubblicata postuma pur essendo ancora in vita…

Eh già, ma se non fossi così distaccata farei come il mio scrittore preferito, Thomas Bernhard, che ha impedito che venissero pubblicati i suoi archivi. Ma in fondo, che differenza fa?, è uguale.

Avrebbe voluto essere una scrittrice più prolifica?

No. Non mi piacciono gli scrittori che pubblicano troppo e mi infastidisce la gente che trova tutto interessante.

Per quale motivo si alza la mattina?

Così, per bere un caffè.

Un’altra cosa curiosa è che, oltre ai mariti, lei sembra poco interessata alle donne.

Perché su di loro si scrive già troppo: storie di figli, storie di divorzi, cose così. Gli uomini parlano di cose più generali, e l’intimità che si crea tra loro è dolce. Sarà che ho avuto due fratelli che ho amato molto, e che anch’io avrei voluto essere un maschio…

In uno dei racconti c’è un emigrato che chiede alla famiglia di non essere sepolto nell’orribile città industriale in cui ha vissuto e lavorato, ma di essere riportato a casa.

Anch’io desidero essere sepolta in Ungheria.

Nel ’56, prima di arrivare qui, il suo sogno era scappare negli Stati Uniti. Come vede quel paese oggi?

Con disprezzo. Stanno diffondendo brutte abitudini, tipo il divieto di fumare.

Da esule, non la infastidisce vivere in un Paese duro con gli immigrati, in cui ricevere cittadinanza è sempre più difficile?

Quando mi sono sposata, in seconde nozze, l’ho ottenuta automaticamente. Adesso so di figli d’immigrati, anche di terza generazione, che non hanno ancora il passaporto. Gli svizzeri sono così, io li conosco, hanno paura di tutto.

E invece di cosa bisognerebbe avere paura?

Stanno per aprirmi la pancia per mettermi una protesi arteriosa. La prima parte dell’operazione l’ho fatta a Berna, e tutti parlavano tedesco e non capivo nulla. Ero ritornata analfabeta, come i primi anni in Svizzera: questo fa paura. Poi ho paura di sparire, di non poter ascoltare le persone. Forse non parlo molto, ma mi piace tanto ascoltare le persone, sa?

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