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Recensione Elfriede Jelinek

Elfriede Jelinek

Intervista

di ANGELA MAYR
[da "Il Manifesto", 10 febbraio 2000]

Elfriede Jelinek, la maggiore scrittrice austriaca vivente, già promotrice di "Offensiva democratica" che portò in piazza il novembre scorso 70 mila persone, oggi è la punta di diamante del movimento di protesta contro la "coalizione dell'infamia" nero-azzurra. Vincitrice del premio Büchner '99, il più prestigioso della letteratura in lingua tedesca, l'autrice di La pianista, La voglia, Le amanti e Nuvole casa ha clamorosamente vietato la rappresentazione delle sue opere in Austria. 53 anni, una scrittura che scava nei fondamenti del linguaggio, che viene de- e ri-costruito con la libera associazione e il gioco linguistico, di difficilissima traduzione, Jelinek è da sempre sulla breccia: ha portato sulla scena Stecken, Stab und Stangl (bastone, bacchetta e palo), sull'assassinio di 4 Rom a Oberwart, nel '95; tra le sue ultime opere le più famose sono La lingua dei morti e Un pezzo di sport.

La "coalizione della vergogna" tra i produttori di cultura ha provocato un sussulto d'ira e disperazione. C'è chi si chiede se emigrare, lei ha deciso di vietare la rappresentazione delle sue opere. Cosa cerca di ottenere, la resistenza degli intellettuali?

Io certo mi esprimerò ancora, anche in teatro, per esempio la domenica nel Burgtheater (il maggior teatro austriaco, ndr) in occasione di manifestazioni di protesta. Ma considero decisivo non dare alla cultura rappresentativa - e il teatro è anche questo - l'occasione di qualificarsi attraverso me autrice. Inoltre questa scelta scaturisce anche dalla riflessione sul fatto che noi artiste e artisti da decenni facciamo resistenza scrivendo, e questo ha reso la destra sempre più forte. Quando si prova una cosa e non serve, bisogna provarne un'altra: è il momento di sottrarsi.

Secondo il filosofo Peter Sloterdijk sulla scena internazionale si ripeterebbe ora quanto era già accaduto in Austria: Haider sarebbe stato portato al potere proprio perché bandito, dichiarato il "demone privilegiato". Perciò gli intellettuali, in particolare in Austria, dovrebbero smettere di declamare solo "recitativi morali".

C'è qualcosa di vero in quel che dice Sloterdijk. Con la sua faccia sempre in copertina su tutte le riviste, Haider da un lato è stato demonizzato, dall'altro ha avuto l'attenzione concentrata su di sé fino a diventare più grande del naturale. Ma questa è solo una parte della verità. Gli intellettuali sono stati divisi da questo dibattito sulla political correctness, sono stati oltraggiati come terroristi della virtù e Gutmenschen, buonisti, da coloro che respingono la morale come mezzo della politica. Mentre oggi è proprio l'Europa a dare di fatto ragione al discorso morale, riscoprendolo come cemento dell'Unione che improvvisamente si concepisce comunità di valori, e non più solo economica.
Certo, ci sono state anche reazioni eccessive e patetiche a Haider, ma il punto decisivo è che alla sua lingua aggressiva e semplificatrice, alle sue menzogne e al suo rapido zapping tra temi diversi, tanto da non farsi mai inchiodare su un punto, non si è saputo contrapporre nulla. In ogni caso non la lingua letteraria, che punta su mezzi espressivi più sottili.

Il prolungato dibattito sul caso Waldheim aveva già smantellato la tesi austriaca dell'innocenza collettiva, ma evidentemente non ha creato anticorpi sociali contro l'estremismo di destra e la xenofobia. Sono i fantasmi che inarrestabilmente ritornano, come i "figli dei morti" del suo romanzo?

Sembra così. I morti escono sempre dalle loro tombe. Questa è la storia tedesca e austriaca, appena la si dichiara finita ed elaborata, di nuovo la mano le esce dalla tomba, come nelle favole. La storia dei nostri paesi è quella degli "Untoten", dei non morti. E questo sarà ancora il grande tema per generazioni: perciò è terribile questa frattura di civiltà, l'ingresso dell'estrema destra al governo, in un paese che non riceve più credito presso la storia.

Lei è stata il bersaglio di una crociata di cartelloni della Fpö per le strade, insieme al ministro della cultura di allora Rudolf Scholten. Quali conseguenze di politica culturale si aspetta dai nero-azzurri. Di cosa bisogna avere paura?

Appena in carica in Carinzia Haider ha disdetto la gara letteraria Ingeborg Bachmann, perché la famiglia Bachmann non concede più il nome per il premio. In tutti gli àmbiti ci saranno inasprimenti, e non parliamo dei tagli sociali reali e di una politica a spese dei più deboli. L'arte - ha detto Haider una volta - verrà da lui veramente "liberata", cioè liberata dallo stato, il che significa che le sovvenzioni per l'arte non affermata e sperimentale saranno ancora più scarse. Si tireranno su degli artisti consenzienti, ma ancora non vedo chi potrebbe essere, perché oggi sono compatti contro di lui. Forse li alletterà con una cassa sociale per artisti che desideriamo da molto, non mi meraviglierei.

Migliaia di persone si riversano ogni giorno sulle strade. "Il sonno è finito", commenta il direttore del Burgtheater, "bisogna andare a un confronto-scontro politico, sarebbe vera democrazia". La crisi apre una chance per una ripoliticizzazione?

Certo vi è una ridemocratizzazione, da tempo necessaria in un sistema che era pietrificato, immobile. Ma - lo dico anche ad artisti come Peter Menasse - il prezzo di questa destabilizzazione è troppo alto. Non dobbiamo partire solo da noi, dobbiamo partire dai più deboli nella società, e per loro ci sarà un peggioramento: ticket sulla sanità, "servizio di lavoro" per disoccupati di lunga durata, donne trasformate in madri e basta...

Descrivendo la haiderizzazione del paese lei ha coniato il termine "kitzbuehilisierung" (da Kitzbuehel, località sciistica del Tirolo). Come lo si può spiegare al lettore italiano?

Kitzbuehelizzazione è la vittoria di quelli "in gamba", giovani, forti, fichi e sportivi contro coloro che impersonano l'attività spirituale e artistica. Il direttore d'orchestra Bruno Walter, in occasione dell'ingresso dei tedeschi in Austria nel '38 parlava di una Verlederhosung, di un'Austria ridotta tutta in pantaloncini di pelle, di una totale provincializzazione. È il dominio della provincia e della sua meschinità sulla metropoli multiculturale.


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