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Recensione Vidiadhar S. Naipaul

Vidiadhar S. Naipaul

Intervista

La tua prima visita in India risale a 35 anni fa. Sei poi tornato, in vacanza e per scrivere. Perché ti affascina tanto l'India?

È una questione che definirei ancestrale. Sono nato con una conoscenza del passato che terminava giusto coi miei nonni. Non potevo risalire oltre. Buio assoluto. Ecco le ragioni di questa fascinazione: è il tentativo di esplorare quel buio, che io ho chiamato "area di tenebra".

Ritieni che sia cruciale per la tua formazione di scrittore conoscere da dove vieni e da cosa sei profondamente originato?

V.S. NaipaulSenza il minimo dubbio: a maggior ragione se, come me, si è nati in un posto di cui nemmeno si immagina la storia e di cui nessuno ti racconta la storia e, a tutti gli effetti, la storia non esiste se non nei documenti. Se si nasce in simili condizioni, è necessario conoscere da dove si proviene. E questa ricostruzione occupa un tempo estremamente lungo. Non è possibile scrivere semplicemente di quel mondo, anche se apparentemente è lì, messo a disposizione. Se si è scrittori francesi o inglesi, si nasce automaticamente con un'incredibile e completa conoscenza del proprio Paese, della propria storia, della propria origine. Se invece, come me, si nasce in una colonia agricola tanto distante, bisogna apprendere tutto - la scrittura diviene un processo di indagine e apprendimento.

V.S. NaipaulA diciott'anni hai lasciato Trinidad e sei approdato in un mondo per te alieno: Londra. Chi era il Naipaul di quei tempi? Cosa cercava?

Beh, l'ambizione ricopriva un ruolo fondamentale. Volevo diventare famoso. Volevo essere uno scrittore. Volevo essere famoso per il fatto che ero scrittore. E l'assurdità di quest'ambizione era che nemmeno mi immaginavo di cosa avrei scritto. Era assurdo, davvero. L'ambizione di diventare scrittore nacque ben prima che io avessi scritto alcunché. All'età di dieci anni volevo già fare lo scrittore. È quest'ambizione che mi spinse in Inghilterra. Vinsi una borsa di studio. Studiai tantissimo per la borsa di studio, senza la quale - data l'estrema povertà della mia famiglia - non avrei potuto lasciare l'isola. A quei tempi pochi lasciavano il posto in cui erano nati. Quella borsa di studio, istituita dal governo coloniale per ragazzi particolarmente brillanti, ammontava a una cifra notevole. Ne hanno concesse altre tre o quattro, dopo che la vinsi io. Era aperta a ogni professione: potevo diventare quello che volevo, un dottore o un ingegnere. Ma io, più semplicemente, volevo studiare inglese a Oxford. Non perché si trattasse dell'inglese o perché fosse Oxford; piuttosto perché era lontano da Trinidad e perché pensavo, nel giro di tre o quattro anni, di trovare la mia strada. Sarei diventato, per miracolo, uno scrittore. Scelsi il diploma in inglese: che, come si sa, è una laurea di minore prestigio. Per dirla tutta: non vale nulla. Eppure, oltre all'ambizione, c'era un ulteriore fattore che mi portò a Londra: l'ignoranza e l'oppressione che si sperimenta nel crescere in una colonia. Volevo andarmene da quell'ambiente moralista, fitto di dispute familiari e di condanne implicite. Non era un mondo benevolo: né quello coloniale né quello indù - i due mondi in cui sono stato allevato. Pensavo che nel mondo esterno, così più vasto di quello ristretto della colonia, la gente venisse apprezzata per quello che era.

Parliamo dei tuoi esordi da scrittore...

Ho iniziato a scrivere seriamente quando lasciai Oxford, in condizioni estremamente dure, peraltro. Cercavo di trovare la mia voce, il mio tono, ciò che era realmente mio, che non fosse finzione o posa. Questa ricerca mi gettò non so come in una profondissima depressione, che durò finché qualcuno a cui avevo inviato il mio manoscritto mi disse di lasciare stare. E di colpo, dopo cinque anni passati a non fare praticamente nulla, trovai la mia voce. Qualcosa accadde. Fui travolto da un'enorme necessità di scrivere: non si trattava di un hobby, ma della mia stessa verità di uomo. Dedicai a questo la mia vita. Trovai soggetti, scene, ambientazioni: insieme, essi costituivano la mia più intima voce.

Durante quel periodo di depressione hai anche tentato il suicidio...

Sì. A Oxford, per la precisione. Mi sentivo solo, senza fondamento. Furono anni terribili. Anche adesso, a dire la verità, odio Oxford, odio l'ambiente universitario, odio le lauree. Non sono andato a Oxford perché era Oxford, ma per trovare libertà. Ma non ero pronto. Ero molto più intelligente dei miei compagni - ma Oxford era tremenda. Non auguro a nessuno di passare anni simili.

La scrittura si è manifestata come un'autentica e nobile vocazione...

Infatti. Secondo me si tratta dell'unica nobile vocazione. È nobile in quanto ha a che fare con la verità - e io non posso tollerare un altro genere di scrittura che non sia pura letteratura. Non posso leggere scrittura commerciale - o anche quella fraudolenta forma di letteratura che è la narrativa cosiddetta "coloniale". L'imitazione, poi, non posso praticarla a nessun livello. La questione è la verità: è necessario occuparsi profondamente della propria esperienza. Bisogna comprendere la propria esperienza, bisogna comprendere il mondo. Si tratta di uno sforzo costante per giungere a una comprensione sempre più profonda. È ciò che costituisce la nobiltà della letteratura. Non è proprio questione di rifare la stessa cosa, sempre la stessa cosa. Non è questione di fare Agatha Christie o Graham Greene o qualcosa di similare - trovi la tua formula e continui ad applicarla. No, io non l'ho fatto. Ho agito in modo diverso.

Hai sempre dichiarato che la poesia non ti interessa. In particolare la poesia contemporanea...

La formazione scolastica mi ha danneggiato: non riesco a leggere i Romantici, ma nemmeno il Novecento. Prendiamo Auden: tutti parlano di Auden, ma io credo che ci sia davvero poco senso in ciò che Auden ha scritto - è meraviglioso a giocare con le parole, ma finisce lì. Quanto a Eliot, penso che si tratti di banalità filosofiche esagerate all'estremo. Quel che scrive è falso. Non è una visione. È esagerato. Di Yeats non penso nulla, nel senso che non so niente dell'Irlanda. Penso che l'Irlanda sia cresciuta sulle spalle dell'Impero Britannico. Tutto ciò che è partorito in Irlanda gode di un'attenzione esagerata. L'Irlanda è un Paese minuscolo. Quello che produce è per me di poco conto. Sia detto che questo giudizio include anche Joyce. Che cosa c'è in Joyce di valido per me? Un cieco che vive a Trieste e scrive di Dublino. Non c'è nulla per me in Joyce - non è universale. Un uomo di immaginazione tanto ridotta, che registra la vita attorno a lui coi modi della vecchia narrativa... No, non fa proprio per me.

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