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Recensione Renzo Brollo Racconti bigami
Dal racconto intitolato Canaja scuria (Ragazzi difettosi)
Apro i rubinetti al massimo. Uno spruzzo d'acqua gelata mi raggiunge il cranio e d'istinto apro la bocca per respirare. Dopo un minuto l'acqua si fa tiepida e posso aprire gli occhi. Lascio che il getto mi massaggi la testa, i capelli lunghi si sono appiccicati agli occhi. Avevo proprio bisogno di una doccia e non credo che uscirò tanto presto. Sento la tensione diluirsi come colore e scendere dalla mia carne verso il basso. Prima lentamente, poi sempre con più velocità scivola dalla nuca e dalle spalle, fino al bacino e poi dalle cosce fino ai piedi. Li scrollo uno dopo l'altro, come fanno i cani quando mettono le zampe nell'acqua e anche gli ultimi lembi di cattiveria finiscono nello scolo assieme allo shampoo. Esco dal box, mi copro la testa con un asciugamano e mi metto l'accappatoio. Davanti allo specchio tolgo l'asciugamano dalla faccia. Quello che vedo è più confortante di quanto temessi. Gli schizzi di sangue sono andati via e quell'espressione da bestia ferita non c'è più. Al suo posto i soliti tratti del ragioniere distratto, con la barba da fare certo, ma con quell'aria da bonaccione che riconosco. A farmi ricordare cosa sia successo ci pensano i vestiti insanguinati, buttati in un angolo. Lo scarico della doccia comincia a gorgogliare e la tensione risale dai tubi in uno sbuffo di schiuma per fuoriuscire fin sul pavimento. Come una piccola piena la tensione mista ad acqua raggiunge i piedi e risale piano, controcorrente, contro gravità e contropelo, fino a riappropriarsi del mio corpo. Ho lo sguardo fisso a terra. Quando lo rialzo alla luce dello specchio ritrovo il ghigno di cattiveria e l'idea di morte che credevo abbandonate. Tolgo l'accappatoio e decido che ho bisogno di un'altra doccia...
Dal racconto intitolato La solita mattanza
"La solita mattanza!" gridavano quelli, gli altri stavano a guardare, i tonni non ne potevano più e piuttosto che starsene stretti stretti si facevano infilzare come olive durante un rinfresco.
Il sole rosso e giallo punzecchiava tutte quelle nuche, il mare rifletteva su quante diavolo di cose se ne stessero a galla sopra il suo dorso e nel farlo rifletteva anche i raggi, che rimbalzavano, abbrustolendo anche le pappagorge dei pescatori urlanti.
Che poi, urlare ai tonni cosa vuoi che serva, pensavo io. Invece quelli ci sentivano benissimo e capivano anche e sapevano che non c'era modo di andarsene in sordina da quel posto.
Annaspavo nell'odore di salsedine e nel mio vomito, giacché tutte quelle onde mi avevano scosso le viscere, mandandomi buona parte dell'intestino a bussare all'epiglottide, cercando l'aria verso l'alto e non verso il basso come da natura. Loro, i pescatori ma anche i tonni, non mi badavano, così tanto impegnati a racimolare di che vivere o morire, che la mia presenza era come un ago sulla luna. Ma a pensarci meglio trovare un ago sulla luna non sarebbe poi tanto normale e si potrebbero scatenare talmente tante ipotesi sulla sua presenza lì, che dunque anche il fatto che me ne stessi faccia al mare in giacca e cravatta, vomitando cena e colazione dentro una barca di pescatori, potrebbe risultare degno di attenzione.
Il primo a parlarmi fu un tonno, steso fra altre decine di tonni tutti simili a lui. "Fratello, come ti butta…" mi disse con l'occhio da triglia, che per un tonno significa la morte sua entro breve. Improvviso un uncino venne a finirlo e la sua bocca a punta rimase aperta, con l'acqua che usciva anziché entrare. Bagnai gli occhi con l'acqua del mare, così senza pensarci. Mi pareva di avere miliardi di spilli che pungessero il bulbo oculare e più sfregavo gli occhi più gli spilli penetravano in profondità. Era atroce, senza contare che questo attirò gli sguardi dei pescatori (e dei tonni superstiti) facendoli sganasciare dalle risate. Anche i tonni risero, per il tempo che fu loro concesso di ridere. E lo facevano stando sott'acqua, gorgogliando come lavandini e facendo bollicine schiumose. Se non fossi stato impegnato a pulirmi gli occhi dal dolore avrei riso anch'io credo. Il cielo sopra di noi era blu quasi nero, come se l'atmosfera sopra quel tratto di mare si fosse ridotta a pochi metri. Un satellite planò sopra le nostre teste...
dal racconto intitolato Lotus
Io separato Lei vedova, ma è come se vedovo lo fossi stato anch'io. Non la vedevo più da anni mia moglie, eppure abitavamo nella stessa casa. Invisibili l'uno agli occhi dell'altro, nemmeno la contavo se c'era da preparare la cena. Magneti immaginari ci respingevano e facevamo in modo che le nostre strade non si incrociassero mai dentro ai centocinquanta metri quadri di Via dell'Indipendenza numero settantasette. Ci conoscevamo da tempo, amabile come Lei dovevo ancora trovarne, deliziosa e prevedibile certezza di trovare una parola delicata quando meno te lo aspetti. Allungavo la strada ogni sera per andare a trovarla e lei sopportava la mia presenza, soppesandomi come fossi un fornitore all'arrembaggio di nuova clientela, offrendomi delle cose che un tempo erano state di suo marito. Accettavo quel vino, quel salame affettato, quei tovagliolini piegati quasi vergognandomi di farlo, come se ad importunarla fosse un essere sottilmente malvagio che si annidava nel mio cuore. Pensavo d'amarla nascostamente e credevo che Lei invece provasse della sottile pietà nei miei confronti, rinunciatario di un amore ancora presente e vivo, sprecone nel negarmi sentimenti verso una donna alla quale un tempo avevo detto un sì grande come il mondo, una donna alla quale avevo imposto le mani toccandole il corpo e assaporando delle sue grazie. Mentre Lei, che di amore aveva ancora una scorta grossa come l'Italia intera, aveva dovuto rinunciare a tutto questo, trovandosi smezzata, spaiata, slegata dal laccio che teneva Lei e suo marito uniti come aquilone e bambino...
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