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Recensione Antonia S. Byatt

Antonia S. Byatt

Natura morta

le prime pagine
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Prologo

Postimpressionismo:
Royal Academy of Arts, Londra 1980

Firmò il registro dei visitatori con la sua grafia elegante: Alexander Wedderburn, 22 gennaio 1980.
Lei, perentoria come sempre, gli aveva detto di andare direttamente alla Sala Tre, dove avrebbe trovato «roba miracolosa». Di buon mattino. Così era lì, noto personaggio pubblico e a suo modo pittore, che in una mattina plumbea attraversava obbediente la Sala Uno (scuola francese 1880-1890) e la Sala Due (scuola inglese i 880- 1900), diretto verso l’ambiente grigio pallido, classico, tranquillo, dove l’intensa illuminazione brillava e riverberava sul pigmento in modo tale che l’espressione «roba miracolosa» appariva a dir poco esatta.
Su un’unica parete erano appesi numerosi Van Gogh, tra i quali un Giardino del poeta di Arles che non aveva mai visto, ma di cui ricordava piccole riproduzioni e vivaci descrizioni nelle lettere del pittore. Si mise a sedere e vide un sentiero che si biforcava nel baluginio dell’afa dorata e su cui si innalzavano, ampi e spioventi, i rami blu-nero-verdi di un grande pino, il cui rigoglio continuava fin dove la cornice ne interrompeva l’ascesa. Sotto quel fitto baldacchino avanzavano mano nella mano due figure piene di dignità. Più lontano, erba verde verde e gerani come chiazze di sangue.
Alexander non dubitava che Frederica sarebbe venuta. Aveva perso l’abitudine di arrivare in ritardo, la vita le aveva insegnato la puntualità, forse la sollecitudine. Quanto a lui, a sessantadue anni sentiva, non del tutto a ragione, di essere ormai troppo vecchio, troppo posato perché lei, o chiunque altro, potesse irritarlo. Pensò con tenerezza all’imminente arrivo di Frederica. C’era stato un disegno, una ripetizione fin troppo evidente nelle relazioni della sua vita, un disegno a cui Frederica si era testardamente rifiutata di adattarsi. Era stata di volta in volta una seccatura, una minaccia, un tormento, e adesso era un’amica. Gli aveva proposto di andare con lei a vedere Van Gogh, stabilendo un’altra forma di ripetizione, deliberata, artificiosa ed estetica. Il dramma di Alexander, La sedia gialla, era stato rappresentato per la prima volta nel 1957 non amava ripensarci troppo, come non amava ripensare a nessuna delle sue opere. Contemplò l’appassionata serenità del giardino creato con un turbine di pennellate gialle, un impasto verde veronese, una massa di linee verdazzurre furiosamente piumate, isolati riccioli neri, spruzzi rosso arancio d’un chiarore crudele. Gli era costata molta fatica rendere con un linguaggio appropriato l’ossessione del pittore per il mondo materiale illuminato. Se si fosse limitato a raccontare il dramma più accessibile degli elettrici scontri con Gauguin nella casa gialla di Arles; del fratello Theo, indispensabile e lontano, che gli forniva colori e affetto; del mozzicone d’orecchio consegnato alla puttana nel bordello; del terrore del manicomio, Alexander avrebbe avuto l’impressione di mentire. Sulle prime aveva pensato di scrivere versi piani, esatti, senza espressioni figurate, in cui una sedia gialla era la cosa in sé, una sedia gialla, come una tonda mela dorata è una mela, e un girasole un girasole. Qualche volta rivedeva le pennellate, per cosi dire, di quella scrittura nuda, il modo in cui aveva dovuto ripensare daccapo quel giardino, separare l’idea di ali nere dalle fronde dipinte, depurare l’idea volgare delle chiazze di sangue dalla notazione sui gerani. Ma era un’impresa impossibile. Tanto per cominciare, la lingua era contro di lui. La metafora si annidava nel nome stesso del girasole, che non solo si gira verso il sole, ma somiglia al sole, fonte di luce.
Anche l’idea che Van Gogh si faceva delle cose aveva giocato contro di lui. La sedia gialla, oltre a essere pennellate e pigmento, oltre a essere una sedia gialla, era solo una di dodici acquistate per una comunità di artisti che avrebbe dovuto abitare nella casa gialla, le cui pareti bianche avrebbero dovuto ardere di girasoli come le vetrate delle cattedrali gotiche ardevano di luce colorata. Non era solo una metafora, era un fattore culturale, una religione immanente, una fede e una chiesa. Ogni cosa sempre connessa un’altra. Come il Giardino del poeta , dipinto per decorare la stanza da letto del «poeta Gauguin», era più di ciò che sembrava.

Arles, 1888
Qualche tempo fa ho letto un articolo su Dante, Petrarca, Boccaccio, Giotto, Botticelli. Mio Dio, che impressione mi ha fatto leggere le loro lettere.
E Petrarca viveva poco lontano da qui, ad Avignone, e io vedo gli stessi cipressi e oleandri,..
Attraverso il lato Tartarin e Daumier di questo strano paese, dove la brava gente ha l’accento che sai, c’è già tanta Grecia e c’è una Venere di Arles proprio come c’è una Venere di Lesbo, e si sente ancora quella giovinezza, malgrado tutto...
Ma non è forse vero che questo giardino ha un carattere fantastico, che consente di immaginare i poeti del Rinascimento mentre passeggiano tra questi cespugli e sui prato fiorito?...

© 2003 Giulio Einaudi editore

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