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Recensione Assia Djebar

Assia Djebar

Ombra sultana

le prime pagine
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Ombra e sultana; ombra dietro la sultana.
Due donne: Hajila e Isma. Il racconto che tratteggio delinea un duo peculiare: due donne che non sono sorelle e neanche rivali, benché, l'una sapendolo e l'altra ignorandolo, si siano ritrovate mogli dello stesso uomo - l'"Uomo", per riprendere l'eco del dialetto arabo che si mormora nella camera... Quest'uomo non le separa, e tuttavia non le rende complici.
Una di loro, Isma, ha scelto l'altra per scaraventarla nel letto coniugale. Si è voluta pronuba del proprio marito; ha creduto così, per ingenuità, di liberarsi insieme del passato d'amore e del presente fermo. Nel chiaro-scuro, la sua voce s'innalza, si rivolge via via a Hajila presente, poi a se stessa, l'Isma di ieri... Voce che stilla nella notte, che si affligge nello splendore del giorno.
Isma, Hajila: arabesco dei nomi allacciati. Quale delle due, ombra diventa sultana, quale, sultana delle albe, si dissolve in ombra davanti al giorno? La trama è appena abbozzata che un annullamento lentamente la corrode.
Ho voluto darti in offerta all'uomo? Credevo di ritrovare il gesto delle regine del serraglio? Queste, quando presentavano un'altra sposa al padrone, in realtà si liberavano a spese di una falsa rivale... Riaffermavo a mia volta il mio potere? No, scioglievo i miei ormeggi. Certo, ti intralciavo, te innocente, da quando tua madre era diventata la mia alleata o complice, secondo la Tradizione.
Prenderò il largo; ma mi aggiro ancora intorno a te. Ti dico "tu" per soffocare i miasmi di un rimorso incerto, come se riaffluisse il fascino delle donne d'una volta...

-Hajila!
Meriem, mia figlia di sei anni, ha gridato il tuo nome quel mattino. La mano ben stretta nella mia, ti ha chiamata per la prima volta, fuori. Ho sentito vibrare, nella violenza blu del mattino d'estate, il nome che avevo tante volte mormorato per me sola.
Meriem ha gridato il tuo nome all'alba, oh Hajila. E tu hai riso, in uno spasmo del tuo corpo magro, i capelli scossi da un oscillare ampio e brusco, quasi una sofferenza imprevista. Scendevi le scale di quel vicolo che avevamo creduto senza sbocco; non smettevi di scendere nonostante quel grido. Il movimento laterale della tua criniera scura rallentava a poco a poco. Delle passanti, bianchi fantasmi, sembravano fluttuare sullo sfondo. Baccano di bambini in lontananza. Io t'immaginavo correre giù per la città - o risalire in senso inverso tutte quelle scale. Come se lì, sotto i miei occhi, sgorgasse il tuo avvenire. E ho potuto lasciarti.
Quello stesso giorno, Meriem e io siamo uscite dalla metropoli dal bianco polveroso; volevamo raggiungere i luoghi dell'infanzia, così avevamo deciso.
-Hajila!
Mia figlia ha ripetuto il tuo nome più piano: ci avvicinavamo alle rovine romane della mia città natale rannicchiata intorno al suo antico porto per metà sommerso. Laggiù, nella capitale, tu andavi alla deriva, errante, mendica, forse donna offerta ai passanti o ai viaggiatori di un giorno. Ecco che entrambe rinneghiamo l'harem, ma ai suoi poli estremi: tu al sole ormai esposta, io tentata di sprofondare nella notte risorta.
Nessuno scambio si è stabilito fra te e me, né nei nostri richiami né nei nostri gesti. Evitando il faccia a faccia, avevamo dialogato poco prima dell'epilogo, sedute fianco a fianco nella penombra dell'hamman - l'acqua, scorrendo ai nostri piedi sulla pietra o fumando nelle vasche, diventava segno di tregua o inghiottimento.
Abbiamo invertito i ruoli? Non lo so. Tua madre e mia figlia aspettano. Quale speranza farà oscillare, in questi luoghi, la pesante eredità?
Il tuo riso disperato all'alba, oh Hajila, dopo che la mia bambina ti ha chiamata, da sopra la rampa. Sulla linea affogata dell'orizzonte, l'occhio dell'aurora dardeggia su di noi la sua minaccia. E la darsena, in basso, si gonfia del rumore degli uomini.


© 1999, Baldini&Castoldi s.r.l.

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