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Recensione Peter Høeg

Peter Høeg

La donna e la scimmia

le prime pagine
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Una scimmia si stava avvicinando a Londra. Era rannicchiata su una panca, nel pozzetto di una barca a vela, sottovento. Aveva gli occhi chiusi e una coperta sulle spalle, e anche così, raggomitolata, faceva sembrare l'uomo seduto di fronte a lei più piccolo di quanto non fosse.
L'uomo, in quel periodo, si chiamava Bally, e nella sua vita ormai c'erano solo due cose che gli andavano a genio: il momento in cui arrivava in una metropoli e il momento in cui ripartiva. Perciò si alzò, si avvicinò al parapetto e rimase lì, in piedi, a guardare la città. Fu il primo e l'ultimo errore di quel viaggio.
La sua distrazione contagiò l'equipaggio. Il timoniere inserì il pilota automatico, il mozzo andò a poppa lasciando il castello di prua ed entrambi si diressero verso il parapetto. Era la prima pausa di tranquillità dopo cinque giorni di navigazione, e i tre uomini contemplarono in silenzio le luci della periferia che, come lucciole, danzavano scivolando di fianco alla barca e scomparivano a poppa.
Durante la notte si era alzato il vento. La superficie del Tamigi era increspata da strisce di spuma e la barca, che aveva il vento in poppa, oltre alla vela maestra aveva alzato anche un grande fiocco. Era un rischio, ma Bally aveva sperato di arrivare mentre faceva ancora buio.
Capì che non ci sarebbe riuscito. C'era un mutamento nell'aria: l'alba primaverile si adagiava sulle case come un drappo grigio. Bally si ricordò della scimmia e si voltò.
L'animale aveva aperto gli occhi e si era chinato in avanti. Aveva posato una mano sul piccolo interruttore del quadro comandi che regolava il pilota automatico.
Bally teneva sempre sul ponte gli animali che trasportava perché sapeva che altrimenti avrebbero potuto morire di mal di mare, e non aveva mai avuto motivo di pentirsene. Erano legati alla sagola di salvataggio, non soffrivano il freddo e ricevevano un milligrammo di sedativo per chilo di peso due volte al giorno. Viaggiavano immersi in una sorta di dormiveglia, senza una chiara percezione di ciò che li circondava.
Probabilmente, pensò, con la rapidità con cui talvolta si riesce a pensare in un tempo troppo breve per agire, ora avrebbe dovuto cambiare metodo.
In ritardo, ma solo di un attimo, rispetto alla mano della scimmia, il pilota automatico girò la prua della barca di pochi gradi decisivi. L'imbarcazione beccheggiò goffamente su un'onda corta e piatta. Poi strambò.
In quell'istante la scimmia guardò dritto verso i tre uomini.
Molti anni prima Bally aveva scoperto che la vita era una serie di repliche sempre più insipide, un panorama scialbo dove anche gli esseri umani erano solo una ripetizione. Sapeva benissimo che la sua ostinazione nel cercare il contatto con gli animali per certi versi non era estranea al vago piacere che provava nell'esercitare il proprio potere su un organismo di rango inferiore. Ora la sua visione del mondo veniva messa in discussione. I gesti della scimmia erano precisi e misurati, ma non era questa la cosa peggiore. La cosa peggiore, che Bally non avrebbe mai dimenticato anche se durò solo una frazione di secondo, fu ciò che vide nei suoi occhi.
Non aveva parole per descriverlo: in quel momento nessuno sarebbe stato in grado di farlo. Ma forse lo si sarebbe potuto definire come l'esatto opposto di automatico.
L'albero maestro dell'Arca era alto diciassette metri, la superficie della randa era più di quarantacinque metri quadrati, quindi il movimento fu troppo veloce per poterlo seguire con gli occhi. I tre uomini percepirono soltanto una leggera inclinazione e uno schiocco, simile a uno sparo, quando il boma strappò due sartie d'acciaio a babordo. Poi furono gettati nelle acque del Tamigi.
Con un lamento di cuscinetti sottoposti a una sollecitazione eccessiva il pilota automatico si adeguò alla nuova posizione e rettificò la rotta. Con la sua velocità di dodici nodi, più due nodi di corrente favorevole, l'Arca continuò a navigare verso Londra, con la scimmia come unico passeggero.

© 1997, Arnoldo Mondadori Editore s.p.a.

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