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Recensione Claudio Magris

Claudio Magris

Microcosmi

le prime pagine
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Caffè San Marco

Le maschere stanno in alto, sopra il bancone di legno nero intarsiato, che proviene dalla rinomata falegnameria Cante - rinomata almeno un tempo, ma al Caffè San Marco le insegne onorate e la fama durano un po' di più; anche quella di chi, quale unico titolo per essere ricordato, può accampare soltanto - ma non è poco - il fatto di aver passato degli anni a quei tavolini di marmo dalla gamba di ghisa, che finisce in un piedistallo poggiato su zampe di leone, e di aver detto ogni tanto la sua sulla giusta pressione della birra e sull'universo.
Il San Marco è un'arca di Noè, dove c'è posto, senza precedenze né esclusioni, per tutti, per ogni coppia che cerchi rifugio quando fuori piove forte e anche per gli spaiati. A proposito, non ho mai capito quella storia del Diluvio, qualcuno ricorda che dicesse il signor Schönhut, shammes tuttofare dell'adiacente Tempio israelitico, mentre la pioggia picchiava contro i vetri e i grandi alberi del Giardino Pubblico - in fondo a via Battisti, subito a sinistra per chi esce dal Caffè - sbattevano fradici nel vento sotto un cielo di ferro. Se era per i peccati del mondo, tanto valeva farla finita una volta per tutte, perché distruggere e poi ricominciare daccapo? Mica le cose sono andate meglio, dopo; anzi, macelli e crudeltà a non finire, eppure niente più diluvi, addirittura la promessa di non estirpare la vita dalla terra.
Ma perché tanta pietà per gli assassini venuti dopo e nessuna per quelli di prima, affogati tutti come topi? Lui doveva ben sapere che con ogni vivente, bestia o uomo, entrava nell'arca il male; quei tipi che gli avevano fatto compassione si portavano dentro i germi di tutte le epidemie di odio e dolore destinate a scatenarsi sino alla fine dei tempi. E il signor Schönhut si beveva la birra, sicuro che la cosa finisse lì, perché lui poteva dire quello che voleva del Dio d'Israele, anche peste e corna, tutto restava in famiglia, ma da parte degli altri sarebbe stata un'indelicatezza e, in certi periodi, una bella vigliaccata.
Lei è tutto spettinato, vada alla toilette a rassettarsi, così gli aveva detto quella volta, severamente, l'anziana signora. Per andare alla toilette, chi è seduto nella sala in cui si trova il bancone deve passare sotto le maschere, sotto quegli occhi che sbirciano avidi e spaventati. Lo sfondo che circonda quelle facce è nero, un buio in cui il Carnevale accende labbra e guance scarlatte; un naso pende sguaiato e ricurvo, uncino buono per afferrare qualcuno che sta là sotto e trascinarlo in quella festa oscura. Pare - le attribuzioni pittoriche sono incerte, nonostante la pazienza di studiosi che cercano di accertarle come se il San Marco fosse un tempio antico - che quei volti o alcuni di essi siano di Pietro Lucano, il quale nella chiesa del Sacro Cuore - non troppo distante dal Caffè, basta attraversare il Giardino Pubblico o risalire via Marconi, che lo costeggia - ha dipinto i due angeli dell'abside che reggono due cerchi di fuoco, saltimbanchi dell'eternità cui l'artista fu costretto, dai padri gesuiti, ad allungare il gonnellino quasi sino alle caviglie, per non lasciarne scoperte le gambe androgine.
Alcuni sostengono che qualche maschera sia di Timmel, forse autore di quella di una dama in un'altra sala. L'ipotesi è vacillante; indubbiamente a quell'epoca, verso la fine degli anni Trenta, "il preferito della strada", come amava definirsi il randagio pittore nato a Vienna e venuto a completare la sua autodistruzione a Trieste, si procurava qualche sera sopportabile, capace di distrarlo per qualche ora dall'impossibilità di vivere, nei caffè, regalando qualche piccolo capolavoro a uno o all'altro dei ricchi commercianti triestini, mecenati per i quali un artista era un orso da far ballare e inciampare, in cambio di generose bevute che gli permettevano di passare la serata e a poco a poco lo mandavano a fondo.
Timmel si reinventava la propria infanzia, raccontando che la meningite avuta da bambino era una menzogna escogitata dai suoi genitori per odio verso di lui, e scriveva, mentre la sua mente e la sua memoria si sfaldavano, il Magico taccuino, miscuglio di folgoranti epifanie liriche e di singulti verbali prossimi all'afasia e sbriciolati dall'amnesia, ch'egli chiamava nostalgia, desiderio di cancellare tutti i nomi e tutti i segni che irretiscono l'individuo nel mondo. Il viandante ribelle, che avrebbe finito i suoi giorni nel manicomio, cercava, già prima di questo estremo rifugio, di sfuggire ai tentacoli della realtà chiudendosi in un'inerzia vuota e vertiginosa, "accantucciandosi ozioso e disinteressato" a mani incrociate, immobile e appagato di sentirsi roteare insieme alla terra nel vuoto. Cercava la passività e celebrava il fascismo, che lo liberava dagli assilli della responsabilità e gli risparmiava lo scacco di inseguire la libertà senza trovarla, risospingendolo nella sottomissione dell'infanzia: "bisogna assolutamente dipendere per raggiungere l'atmosfera beata".

© 1997, Garzanti Editore s.p.a.

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