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Recensione Petros Markaris Si è suicidato il Che
le prime pagine
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La gatta siede davanti a me, sulla panchina di fronte, e mi guarda. Tutti i pomeriggi me la ritrovo qua, a controllarmi. I primi giorni mi guardava con sospetto, pronta a darsela a gambe non appena avessi fatto la mossa di avvicinarla. Ma da quando si è convinta che di lei non mi importava nulla, ha smesso di interessarsi a me e non è più venuta meno al suo contegno per causa mia. E così abbiamo sviluppato una relazione di buon vicinato. Lei non cerca mai di conquistare la mia panchina e io, le poche volte che arrivo prima di lei, rispetto la sua e gliela lascio libera. È una gatta dei tetti, ma non ha il tradizionale mantello arancione dei gatti dei tetti di razza. Il suo pelo è grigionero, spinato, come i completi che indossiamo ai balli della polizia o ai funerali. Ai matrimoni, ci vestiamo di nero.
Adriana siede al mio fianco e lavora a maglia. Da quella sera fatale in cui ho avuto la brillante idea di offrire il petto per salvare Elena Kousta dalla pallottola del figliastro, Makis, la mia vita è cambiata radicalmente.
Tanto per cominciare ho passato otto ore in sala operatoria, quindi un mese e mezzo all'ospedale e ho ancora davanti a me i due terzi del mio congedo di convalescenza trimestrale. I miei rapporti con la squadra omicidi si sono interrotti fino a nuovo ordine. Io non sono andato a trovarli neanche una volta da quando sono tornato a casa. I miei due assistenti, Vlasòpoulos e Dermitzakis, dapprincipio venivano a trovarmi ogni due giorni, quindi hanno smesso le visite per limitarsi alle telefonate, finché hanno interrotto ogni contatto. Ghikas è venuto in ospedale solo una volta, insieme al segretario generale del ministero, che non mi sopporta ma che quel giorno era tutto sorrisi ed elogi per mio coraggio. Alla fine, Adriana ha assunto il comando generale della mia esistenza e io mi limito a trascinarmi dalla casa ai giardini pubblici e dalla camera da letto al soggiorno, come un palestinese che abbia i movimenti limitati dagli israeliani. "Che ci mangiamo stasera?"
Non che mi interessi. Non ho ricuperato l'appetito e ogni boccone mi resta in gola. Ne parlo perché mi aiuta a rompere la monotonia.
"Ti ho preparato la gallina lessa e una minestrina con le stelline."
"Ancora gallina? L'ho mangiata anche l'altro ieri."
"Ti fa bene."
"Ma non me ne ha già fatto abbastanza, Adriana? Ho avuto una ferita perforante al petto, non un'ulcera perforante allo stomaco."
"Ti dà forza, lascia fare a me," taglia corto, senza neanche fare lo sforzo di sollevare lo sguardo dal lavoro a
maglia.
Sospiro e ritorno con nostalgia ai giorni in cui, nel reparto di terapia intensiva, i miei passavano a porgermi i loro omaggi un'ora la mattina e un'ora il pomeriggio e per il resto mi lasciavano in pace. In quei nove giorni, circondato da un muro e da due tende bianche, vivevo due volte al giorno la stessa cerimonia.
La prima a fare il suo ingresso era Adriana.
© 2004 RCS Libri
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