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Recensione Jonathan Safran Foer

Jonathan Safran Foer

Intervista

Jonathan Safran Foer, un giovane studente americano, si reca in Ucraina per trovare Augustine, la donna che probabilmente, molti anni prima, salvò suo nonno dai nazisti.
Per ricostruire la geografia dei villaggi ebraici spazzati via dal nazismo e ripercorrere gli ultimi giorni del suo progenitore in quel paese, Jonathan si appoggia in Ucraina all'agenzia "Viaggi Tradizione", costituita per l'occasione dal suo coetaneo Alex, improbabile interprete reclutato a forza dal titolare dell'agenzia (suo padre), da un autista cieco (ma di una cecità psicosomatica), nel nonno di Alex, e da una cagnetta maleodorante dal nome di Sammy Davis Jr Jr in onore del cantante preferito dal nonno. Ogni cosa è illuminata cresce nel racconto a due voci dei protagonisti: Alex che narra nel suo buffo inglese (abilmente trasposto nella traduzione italiana) le esilaranti peripezie del viaggio e Jonathan che ripercorre, sul filo della memoria familiare, la storia di un villaggio ucraino dal Settecento fino alla sua distruzione ad opera dei nazisti.

Sì, lo studente americano protagonista del romanzo si chiama proprio come l'autore del libro. E le coincidenze tra i due non si fermano qui. Anche dietro l'incredibile vicenda narrata si cela un pezzo di storia dello scrittore. "Anche se è un'opera di pura narrativa, è molto vicina alla mia vita: ho fatto un viaggio in Ucraina, qualche anno fa, di soli tre giorni però, e avevo con me una foto di qualcuno che pensavo avesse salvato mio nonno. Ero partito alla sua ricerca. Quando giunsi lì gli eventi andarono in modo molto diverso dal libro. Non c'era nessun nonno e nessuna cagnetta, né gli altri personaggi del libro." Jonathan, quello vero, è un giovanissimo autore americano (questo romanzo lo ha scritto a 20 anni e ora, che ne ha 25, sta terminando il secondo), che ama "Kafka, Borges, Márquez e pochissimi americani: Joseph Roth e Saul Bellow, direi, però mi piace molto di più la narrativa europea". Quando uscì il suo libro in America, nell'aprile di quest'anno, non c'era giornale che non ne riportasse una recensione entusiastica (il New York Times lo ha incensato quattro volte in dieci giorni): è stato un grandioso successo di vendite e di critica.
Ma questo non sembra proprio aver rivoluzionato la vita di Jonathan che vive nello stesso (modesto) appartamento nel Queens, a New York, e continua ad andare in biblioteca a scrivere le sue storie. "In effetti la mia vita non è cambiata un granché: frequento gli stessi amici, continuo a scrivere… L'unica grande differenza è che prima dovevo fare un sacco di lavori per guadagnarmi da vivere: il centralinista, il tutor, etc. Beh certo, un tempo nessuno mi invitava a Milano per presentare un libro."
Sarà anche per questo, perché il successo non ha cambiato la sua vita, che la stampa americana lo ha definito un personaggio eccentrico. "Sì, forse sono eccentrico. Mi piace ad esempio collezionare le cose più strane. E poi scrivo lettere anche a persone che non conosco. Se qualcosa mi interessa, la porto avanti assolutamente, con testardaggine. Il fatto è che molta gente è incredibilmente noiosa. Soprattutto tra gli scrittori - non lo diresti mai. Per ciò forse, quando una persona fa qualcosa di diverso è facile che venga definita eccentrica." Qualcosa di diverso come il suo Self-portait Project: Jonathan si porta appreso sempre un sacco di buste, preaffrancate, che distribuisce un po' a chiunque perché componga il proprio autoritratto e glielo spedisca. "Quando leggi un libro di fatto leggi un po' l'autoritratto di una persona. Così quando io ne leggo uno vorrei fare uno scambio.Vorrei dare all'autore del libro, in cambio di ciò che lui mi ha dato, il mio autoritratto. Con questo progetto penso si possa realizzare questo tipo di scambio." Ma che te ne fai? Utilizzi gli autoritratti per le tue storie o li archivi nel tuo cassetto? "Certo che finiscono nel mio cassetto. Sono autoritratti così personali che non penso possano essere resi pubblici".
E quanto a peculiarità e scarti dalla "norma" il suo libro ne presenta alquanti: a cominciare dagli aspetti tipografici. Ad apertura di pagina è tutto un rincorrersi di corsivi, parentesi, interi periodi scritti in maiuscolo, margini di scrittura che si allargano e si stringono, per non parlare dei titoli di tanti capitoli composti sulla pagina a formare il turgore di un'onda… "Questo stile nasce dal desiderio di dire le cose nel modo più chiaro possibile. Non sempre, quando ci si vuole esprimere in modo chiaro, lo si può fare nel modo più semplice: molte cose sono già state dette così tante volte che bisogna trovare un nuovo modo per esprimerle se si vuole che assumano un significato. Ti faccio un esempio: se tu avessi avuto trentanove fidanzati, ognuno dei quali ti avesse regalato un anello di diamanti, e il quarantesimo ti regalasse un filo d'erba da attorcigliare attorno al dito, forse il messaggio ti arriverebbe molto, molto più chiaro. Lo stesso avviene nel mio libro. Per dire le cose nel modo più chiaro e diretto possibile ho dovuto dirlo nel modo più originale." Poi c'è l'inglese di Alex fitto di arcaismi, neologismi e sgrammaticature. Alexander, detto Alex, detto Shapka (dal padre, per il cappello di pelliccia che calza in testa anche nei mesi estivi), detto "Alexi-basta-di-ammorbarmi" (dalla madre, per evidenti motivi), l'inglese l'ha imparato (o quasi) sui libri ma, dal suo primo incontro con Jonathan alla stazione, capiamo subito che nessuno - all'infuori del padre - si sarebbe azzardato ad affidargli l'incarico di interprete. Alex ha una conoscenza approssimativa e molto personale dell'inglese, così come dell'America, d'altronde, dove sogna di trasferirsi un giorno, per frequentare una scuola di commercialisti. Ciò che Alex sperimenta è una metafora di qualcosa che ci riguarda molto da vicino, ci dice l'autore, "la difficoltà di comunicare, la distanza tra quello che vogliamo dire e quello che effettivamente siamo in grado di esprimere. Tutti i personaggi del libro, in fondo, un po' come tutti noi, vivono la frustrazione di una comunicazione mancata".
Inutile dire che lo sproloquio di Alex, oltre che metafora del fallimento dello sforzo comunicativo, è anche esilarante fonte di calembour ed espediente che contribuisce a iscrivere il romanzo nel registro del comico: "l'umorismo è lo stile migliore per me per esprimere qualsiasi tipo di sentimento. Si può ridere di cose diverse e per diversi motivi. Credo che quando ridiamo apprezziamo qualche particolare combinazione o coincidenza che la vita ci propone, ridiamo della sua stranezza o della confusione e frustrazione che ci causa, ma anche per la meraviglia".
E' infatti un tema serissimo quello che Safran Foer qui affronta, con la sua vena comica che isola pochi centrali momenti drammatici - quando riaffiora la memoria delle stragi naziste nel racconto di un sopravvissuto: Foer ci parla degli effetti dell'Olocausto sui sopravvissuti e sui loro familiari. Ma lo fa a modo suo. Ed è un modo che ci ricorda tanto "La vita è bella" di Roberto Benigni. A noi, però. Perché a Jonathan il film non è piaciuto.

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