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Recensione Yukio Mishima Stella meravigliosa
le prime pagine
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CAPITOLO 1
In una serena notte di novembre, a ora tarda, dal garage di una grande villa della cittadina di Hanno, nella prefettura di Saitama, uscì velocemente una rombante Volkswagen del '51. Il motore emetteva un terribile frastuono a causa del freddo e indugiava a partire, mentre i passeggeri volgevano qua e là sguardi inquieti.
L'antica dimora era stata dotata da poco tempo di un garage e di una vecchia auto. Oltre al recinto di sasaragi che incominciava a marcire, v'era la porta del garage dipinta con vernice verde. Era evidente che, dopo un lungo periodo di quiete, la casa era nuovamente animata da un'insolita attività. Tuttavia erano in pochi a sapere in che consistesse tale attività. Presumibilmente qualcosa di assai differente da quella, aperta e comprensibile a tutti, esercitata dagli avi, che avevano fatto fortuna con il commercio ed erano diventati i più grandi venditori di legno a Hanno.
Akiko, la figlia, una bella ragazza taciturna e riservata, passava di tanto in tanto per la strada con un grosso pacco di lettere: v'era chi la criticava per la sua abitudine di servirsi della posta centrale di fronte alla stazione, invece di recarsi all'antiquato ufficio postale distante soltanto due o tre case dalla sua villa. Nel pacco erano solitamente incluse alcune lettere provenienti da varie nazioni e indirizzate a lei.
Nella notte profonda l'auto percorreva le ampie strade della pianura di Hanno, che pareva estendersi senza confini. Era Kazuo, il fratello, a guidare. Accanto a lui era seduta la sorella minore Akiko. I genitori, i coniugi Osugi, occupavano i sedili posteriori.
"Abbiamo fatto bene a uscire presto", commento Juichiro Osugi, il capo famiglia. "A volte si rischia di arrivare in ritardo, meglio partire in anticipo".
"È vero, se tardassimo irriteremmo i nostri amici", assentì la moglie Iyoko.
I loro sguardi erano rivolti al finestrino anteriore, a fissare il cielo che gradualmente si oscurava fra le basse case con le luci spente. I quattro avevano occhi belli e limpidi, una caratteristica di famiglia.
Non incontrarono ombra d'uomo sulla strada. L'auto passò davanti alla Camera di Commercio, volse a destra e, in prossimità delle luci del commissariato di polizia, dove qualcuno vigilava, girò a sinistra e, poco dopo, raggiunse il capolinea degli autobus interurbani. Il candido e moderno edificio quadrato del Teatro Municipale spiccava in rilievo nel cupo grumo notturno della retrostante collina Rakan, la loro meta. La collina Rakan, che si elevava di 145 metri sul livello del mare, era stata chiamata Atago da Onoya Osho, il primo capo della setta Tendai di Noninji durante il regno dell'imperatore Go Nara. Nel quinto anno dell'era Genroku, Keishoin, madre di Tsunayoshi, il quinto shogun, vi collocò sedici rakan di qui, il nome.
Kazuo fermò l'auto sotto la grande vetrata del Teatro Municipale. Le luci esterne giungevano soffuse all'interno dell'edificio, con il soffitto spropositatamente alto e sedili per centinaia di ospiti. Una fila a semicerchio di poltroncine vuote fronteggiava il palco deserto. Quasi si specchiassero reciprocamente nel loro vuoto, tra i due elementi regnava un'armonia di tensioni ancor più profonda di quando il Teatro Municipale era gremito di gente.
Dopo aver indugiato a sbirciare, Kazuo aprì il portabagagli dell'auto e ne tolse coperte e zainetti che contenevano cibarie. Li caricò in spalla, mentre gli altri componenti della famiglia portavano chi la macchina fotografica, chi gli occhiali, chi il thermos. Akiko scese agilmente dal sedile vicino al guidatore: indossava pantaloni grigi e un vivace golf da sci, aveva una sciarpa di lana avvolta intorno al collo, con i lembi che le pendevano sul petto. Il suo bel volto pallido appariva ravvivato dalla notte e il foulard che le copriva i capelli ne accentuava i contorni delicati. L'aria fresca le conferiva vitalità e la torcia che brandiva e che scuoteva energicamente per provarne l'efficacia, pareva un'arma nelle sue mani.
Juichiro, che era sceso dall'auto per ultimo, indossava un giaccone di pelle su un golf, mentre la moglie Iyoko sfoggiava un kimono con un soprabito di spesso tessuto da cui spuntava un erimaki. Il capo famiglia, l'occhialuto Juichiro che, a parte un breve periodo dedicato all'insegnamento, non si era mai impegnato in una professione, aveva un bel volto dall'ovale allungato, da cui traspariva la sua indole d'intellettuale. Il naso, lungo e sottile, pareva annusare intorno il profumo di solitudine e di malinconia da lui stesso emanato. A paragone del suo, il volto della moglie era comune e gioviale, simile a quello del figlio nell'espressione fiduciosa, e un poco ottusa.
Incominciarono a salire per il pendio circondato da criptomerie incrociando i fasci di luce delle torce. Erano i soli a farsi varco fra le tenebre. Non un alito di vento smuoveva l'aria che gravava sulla pianura, e più salivano più aumentava il fruscio delle foglie degli alberi immersi nella notte.
A poco a poco il cielo che si scorgeva fra le criptomerie assunse la tinta dell'acqua di un pozzo in cui le stelle brillavano con un fulgore sempre più intenso. Il fascio di luce della lampadina tascabile di Kazuo, che precedeva i familiari, metteva in rilievo pietre tombali lungo il sentiero largo e di scarsa pendenza. Svoltarono nel punto in cui sorgeva una stele e si trovarono su uno spiazzo erboso. Le loro torce illuminarono una fila di panchine deserte e cumuli di cartacce. Non si udiva un grido d'uccello. Attraversato lo spiazzo il sentiero si assottigliò divenendo più erto. Il cammino proseguiva ripido. Nella terra erano infissi orizzontalmente dei tronchi per facilitare il passaggio, che tuttavia era spesso impedito in entrambi i lati da rocce e da radici: la luce delle torce esaltava rilievi e convessità della pietra e ne ingigantiva le ombre. Il fruscio delle fronde pareva aumentare.
© 2000, Neri Pozza Editore
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