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Recensione Chaim Potok

Chaim Potok

Novembre alle porte

le prime pagine
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PROLOGO
UN INCONTRO A MOSCA


Un giovedì sera, nella prima settimana di gennaio del 1985, Adena ed io atterrammo in mezzo a una tormenta di neve all'aeroporto Seremetevo di Mosca. La mattina dopo lasciammo di buon'ora il calore del nostro albergo, Adena si infilò in una cabina telefonica lungo la strada e fece un numero, mentre io aspettavo fuori nel freddo pungente. Dopo un secondo o due la sentii dire: "Pronto, mio marito e io veniamo da Filadelfia. Siamo a Mosca e vorremmo incontrarla".
Non disse il nostro nome. Disse solo "Mio marito e io...".
L'uomo all'altro capo della linea le spiegò brevemente quale metrò prendere, quanto sarebbe durato il viaggio e dove ci avrebbe incontrato.
Adena e io non viaggiamo senza motivo durante il sabato ebraico, che incomincia al tramonto del venerdì. Ma prima di programmare il nostro viaggio a Mosca avevamo deciso che ci saremmo comportati come se fossimo entrati in una zona d'emergenza, un luogo di battaglia; tutte le volte che fosse necessario, avremmo trasgredito le leggi religiose.
D'inverno a Mosca, la luce del sole arriva verso le nove della mattina ed è completamente scomparsa alle tre del pomeriggio. Volodja Spella lavorava, e non avrebbe potuto incontrarci prima delle sei. E quel venerdì sera era l'unico momento in cui avremmo potuto incontrare lui e sua moglie, perché dovevamo vedere molte altre persone e le altre serate che avremmo passato a Mosca erano tutte impegnate. L'alternativa era rispettare il sabato e perdere gli Spella o infrangere il sabato e incontrare gli Spella.
Quella sera lasciammo l'albergo e camminammo sulla neve e sul ghiaccio oltre la cattedrale di san Basilio e il passaggio del Cremlino. Un paio di strade oltre il mausoleo di Lenin, entrammo nella stazione della metropolitana Marx Propspekt. Il treno era silenzioso, pulito, affollato. I nostri lunghi cappotti grigi, gli stivali isolanti e le sciarpe colorate di rivelavano chiaramente per americani. Era l'epoca di Reagan; il selvaggio presidente-cowboy minacciava il mondo con la guerra nucleare. I passeggeri ci guardavano con aperta ostilità.
Viaggiammo per circa mezz'ora.
Il treno entrò nella nostra stazione. Camminammo con gli altri lungo la banchina e incominciammo a restare indietro, lasciando che la folla ci superasse. Ben presto restammo soli.
La stazione ben illuminata aveva pareti di piastrelle color crema. Lucida e pulita. L'aria, che aveva odore di terra fredda e umida, echeggiava di suoni vaghi e distanti: un inquietante tintinnio di metallo, lo svolazzare di creature invisibili.
Davanti a noi, Volodja Slepak uscì improvvisamente da dietro una colonna e avanzò lentamente. Il suo viso ci era familiare grazie alle molte foto che avevamo visto. Le forti luci del metrò rivelavano i suoi occhi acuti, il suo naso largo, il suo ampio sorriso e la barba grigia, di taglio americano. Indossava un cappotto scuro e un berretto di pelliccia con i paraorecchie. Barbuto, robusto, di altezza media. Con voce bassa e profonda disse: "Shalom aleichem", il tradizionale saluto ebraico che significa "La pace sia con voi". Sorprendente, sentire parole ebraiche nel metrò di Mosca.
Adena e io demmo la tradizionale risposta: "Aleichem Shalom".
Ci stringemmo la mano.
"Seguitemi, per favore".
Lo seguimmo attraverso la stazione e su per una scalinata, nella notte fredda.
La neve soffiava a ondate lungo le strade. Sulla barba mi si formavano gocce di rugiada gelata. Riuscivo a malapena a vedere attraverso gli occhiali.
Volodja camminava in mezzo a noi lungo i marciapiedi e le strade liberate dalla neve.
"Probabilmente il nostro clima russo non vi piace", disse.
"È sempre così d'inverno?", chiese Adena.
"Non sempre, forse", rispose lui. "Ma a Mosca non è così male. In altri posti è terribile".
Io osservai che l'unica volta che avevo sentito un freddo simile era stato durante sedici mesi passati con l'esercito americano in Corea.
"Ah, ha fatto il soldato in Corea?".
"Sentivamo i venti della Siberia".
"Sì. Li conosco bene, quei venti".
Continuammo in silenzio, aggirando cautamente i mucchi di neve. Ci stava portando all'appartamento del fratello di sua moglie. Non si vedeva un'anima da nessuna parte nella notte bianca e ventosa. Enormi condomini da entrambi i lati della strada. Deboli luci giallastre alle finestre. Il suono secco e scricchiolante dei nostri stivali sulla neve mossa dal vento. Vaghe luci si avvicinarono lentamente, poi una macchina ci passò di fianco, senza fari, con le sole luci di posizione - l'unica macchina che avevamo visto dopo aver lasciato la metropolitana.
"Perché guidano senza fari?", chiesi io.
"Per risparmiare la batteria".
"Ma non è pericoloso?".
"Certo".
Chiesi qual era il tasso di incidenti automobilistici in Russia.
"Lo stesso che in America, circa 50.000 morti all'anno - ma noi abbiamo un decimo delle vostre macchine. Adesso da questa parte, per favore".
Svoltammo in un sentiero pulito, un corridoio biancastro tra mucchi di neve spalata. Di fronte a noi c'era un palazzo altissimo.
"Adesso devo pregarvi di non parlare più", disse, "finché non siamo all'interno dell'appartamento".
Aprì il portone d'ingresso. Entrammo in un androne scuro e incominciammo a salire scale appena visibili.


© 1998, Garzanti Editore s.p.a.

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