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Recensione Susan Vreeland La ragazza in blu - Le prime pagine
le prime pagine
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Troppo amore
Cornelius Engelbrecht ha inventato se stesso. Vorrei chiarire sin dall'inizio che Cornelius non è quello che chiamerei un amico, ma lo conosco abbastanza bene da poter dire che si è confezionato una personalità su misura: scapolo, vestito sobriamente con colori indefinibili, insegnante di matematica, sostenitore del circolo degli scacchi, conoscente discreto di tutti piuttosto che amico intimo di qualcuno, era una persona che cercava di rendersi invisibile. Tuttavia, dietro l'aspetto insignificante si celava un cuore incandescente e, per ragioni che mi sarebbero apparse chiare soltanto in seguito, Cornelius Engelbrecht rivelò proprio a me l'ossessione segreta che nascondeva sotto il suo stile di vita scrupolosamente controllato.
Fu dopo il funerale del preside Merrilì che Cornelius cominciò a svelarmi il suo cuore. La morte improvvisa di Merrilì era stata un duro colpo, una perdita che ci costrinse nostro malgrado a una temporanea e inconsueta familiarità nella sala dei professori della nostra scuola privata maschile. Non fu lo sgomento per quella scomparsa o l'alcol che Gornelius aveva bevuto in quel pomeriggio nevoso al Penn's Den, dove eravamo andati dopo il funerale, che gli fece abbandonare la sua strategia di vita. Qualcuno al tavolo commentò le ultime criptiche parole di Merrill, "troppo amore", parole che ora mi feriscono come un'accusa di complicità o di incoraggiamento, anche se allora non mi colpirono affatto. Iniziammo a discutere delle ultime parole pronunciate da gente famosa o da parenti morti e Cornelius abbassò il capo, fissando lo sguardo sulla sua birra scura. Lo notai solo perché, casualmente, gli stavo seduto accanto.
Più che a noi parlò alla birra: ""L'occhio come una perla blu", disse mio padre. Poi morì. Durante la prima nevicata dell'inverno, proprio come adesso".
Il viso di Cornelius mi richiamava alla mente il ritratto del duca di Urbino di Piero della Francesca. Era per la forma del naso, stretto ma vistosamente aquilino, appoggio ideale per occhiali che non portava. Sembrava un uomo tormentato da un mistero, da un dilemma intellettuale o morale che lo consumava, tanto da farlo sentire un essere superiore rispetto a quelli come noi che si preoccupavano delle ruote dell'automobile o dell'influenza del figlio. Ogni volta che la conversazione prendeva una piega mondana, Cornelius diventava distante, come se stesse meditando su un argomento molto più profondo, e sorrideva con fredda condiscendenza.
"L'occhio come una perla blu? Che cosa significa?" domandai.
Mi studiò come per verificare se rispondessi a qualche sua valutazione personale. "Non posso spiegartelo, Richard, ma potrei mostrartelo". Insistette perché andassi a casa sua quella sera stessa, cosa assolutamente fuori dall'ordinario. Infatti non l'avevo mai sentito insistere su nulla: avrebbe attirato l'attenzione su di sé. Credo che l'espressione "troppo amore" di Merrilì l'avesse in qualche modo colpito, o forse pensava che quelle parole avessero colpito me. Ribadisco che non so spiegarmi perché scelse me, a meno che non dipendesse dal fatto che ero l'unico artista, o piuttosto insegnante di arte, che conosceva.
Attraverso un corridoio, mi introdusse in uno studio spazioso, pieno zeppo di libri, la porta stranamente chiusa a chiave nonostante vivesse solo. La stanza era gelida, per cui accese il camino. "Di solito non ricevo ospiti", si giustificò, indicandomi l'unica lussuosa poltrona di cuoio, color prugna, dallo schienale alto, posta di fianco al camino, di fronte a un quadro. Un dipinto straordinario in cui una ragazza, che indossava un corto grembiule blu sopra una sottana color ruggine, sedeva di profilo a un tavolo presso una finestra aperta.
"Mio Dio", dissi. Doveva essere quel che desiderava udire, perché la mia esclamazione innescò una valanga di informazioni che mi fornì a voce troppo alta.
"Guarda. Guarda l'occhio. È una perla. Le perle erano elementi ricorrenti in Vermeer. L'espressione colma di desiderio. E osserva la luce di Delft che dalla finestra le cade sulla fronte". Tirò fuori il fazzoletto e, attento a non sfiorare la tela, spolverò la cornice sebbene non si vedesse un granello di polvere. "Vedi, qui, la grazia della mano, abbandonata, il palmo rivolto verso l'alto. La sacralità dell'attimo in quella mano. Ma ancor più..."
"Notevole", dissi. "Indubbiamente nello stile di Vermeer. Un'imitazione sconcertante".
Gornelius appoggiò le mani sul bracciolo della poltrona e sì sporse verso di me finché sentii il suo respiro sulla fronte. "È un Vermeer", sussurrò. Sconcertato dall'assurdità della sua convinzione, farfugliai: "Esistono molti quadri dipinti nello stile di Vermeer e di Rembrandt. La scuola di Rubens e così via. Il mondo dell'arte è pieno di copie". "È un Vermeer", ripeté. La solennità del tono mi costrinse a staccare gli occhi dal quadro per spostarli su di lui. Pareva che si mordesse l'interno delle guance. "Non sei convinto?" domandò sollevando una mano e posandola sul cuore.
© 2003 Neri Pozza Editore
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