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Recensione Giulia Carcasi Ma le stelle quante sono - Le prime pagine
Capitolo 1
L’odore di caffè scappa dalla cucina e mi raggiunge a letto.
La radiosveglia parte con i Blink 182.
Le do un colpo secco e la faccio stare zitta.
È la seconda sveglia che scasso questa settimana.
E siamo solo a mercoledì...
“Carlo, alzati!” dice mia madre passando per il corridoio.
Non lo dice con l’energia delle pubblicità della prima colazione.
Dice “alzati!” e lo ripete tre, quattrocento volte, come nel ritornello di una nenia.
“Carlo, sono le sette e mezzo!”
“Carlo, sono le otto meno un quarto!”
“Carlo, sono le otto!”
Fa avanti e indietro fra la mia camera e la cucina, accende me e spegne il latte che si gonfia nel pentolino. Sa già che non farò in tempo a berlo, ma lo prepara lo stesso, così, per darlo al lavello.
“Carlo, sono le otto e cinque!” continua a venire dal corridoio, tra un passo e l’altro.
Non i passi di mio padre, lui è uscito da un pezzo.
Tornerà stasera, a cena, si siederà a tavola con noi e quando avrà finito di mangiare resterà lì, in cucina, davanti alla televisione, a spiare qualche film tra le bottiglie e le pentole. In silenzio. E quando si sarà stufato, si metterà il pigiama e se ne andrà a letto.
Mio padre è un mondo che gira su se stesso.
Sarebbe bello se fosse un satellite, se facesse almeno un’orbita intorno a me. Sarebbe padre.
“Carlo, sono le otto e dieci!”
La voce di mia madre non è nata lamentosa, lo è diventata, perché, dopo un po’, ti stanchi di cantare da solo.
“Carlo, sono le otto e un quarto!”
“Alzati!” la anticipo io e faccio scivolare la testa sopra al cuscino.
Scaccio le coperte, infilo i vestiti della sera prima.
E della sera prima ancora. E ancora.
È quello che offre la sedia; l’armadio è avaro.
Incastro gli occhiali sul naso.
Niente caffellatte, pure l’orologio è tirchio, non concede fette biscottate e marmellata.
Un bel sorso d’aria e scatto all’inseguimento del tempo.
Lui continua a essere un grande atleta, io sempre poco allenato. Corro e ingoio la polvere del mio avversario.
La porta dell’aula sta a tre metri, sì e no. È stanca di aspettare.
Non abbandonarmi proprio ora, arrivo...
...mi volta le spalle a un centimetro dal naso.
Il brutto dei ritardi è che devi trovare una scusa veramente buona, una buccia di banana bella liscia su cui far scivolare la fiducia di qualche professore credulone.
E ti tocca persino ringraziare per poter entrare in classe, a scontare chissà quali colpe in quello strano girone, tanto mostruoso che persino Dante si metterebbe le mani nei capelli. Ci sono animali di ogni specie e qualità: galli col crestino, corvi punk, ragazze che scimmiottano o fanno le panterone, lingue a sonagli, teste di capra e code di tonno.
Li hai così vicino che potresti toccarli.
Non hanno paura di niente e di nessuno, solo da me scappano, come se potessi contagiarli col mio essere strano, come se fossi un animale in via d’estinzione.
A me non dà fastidio: mi piace quasi spaventarli.
Ci tengo alle distanze, questione di abitudine...
Capello sconvolto, occhiali che barcollano.
La maglia mi tira indietro, vuole fare retromarcia.
“Dai che siamo ancora in tempo” dice.
La sistemo e la convinco a restare.
Tiro la porta verso di me e mi lascio ingoiare dall’aula.
“Carlo Rossi, sei in ritardo di secoli.”
Nome e cognome... e sanno tutto di me.
Chiedo scusa con una smorfia.
In questi momenti sono contento di essere io, mi risparmio la mia vista.
“Ma te sei pettinato con lo sguardo stamattina?” urlano dalla curva sud. Tutto lo stadio esplode in una risata.
Abbozzo e vado a sedermi.
Sto al banco col sonno che m’è rimasto addosso.
A ricreazione prenderò un veleno alla macchinetta: offre di tutto, dall’immortale espresso all’esotico ciolat.
Sì, prenderò una di quelle miscele, una a caso... non importa di che morte muori.
Faccio una panoramica per vedere chi è presente.
Alice è dietro di me.
Gioca con la penna, il suo foglio è ancora bianco.
Le mani mi sudano, le appoggio sulla copertina del libro di greco e aspetto.
Aspetto che mi salga in mente qualcosa di intelligente da dire, qualcosa che la colpisca, che le faccia capire che non sono poi tanto male, anzi!... Niente.
Allora aspetto qualcosa di stupido da dire, tanto per attaccare bottone, per farle notare che esisto. Perché, se uno parla, esiste.
Ma dalla bocca non mi esce un’acca.
Andrea appoggia lo zaino per terra e si siede accanto a lei.
“L’ispirazione è in ritardo oggi?” le chiede.
Alice alza le spalle.
“Si fa sempre aspettare, come Carlo” risponde. Mi guarda.
Sorride?
Sì, ma di un sorriso composto, che s’incastra alla perfezione sulla sua bocca.
Sì, mi guarda e sorride.
Giusto un attimo, non può perdere tempo: deve rincorrere qualche pensiero e imprigionarlo in una poesia.
Chissenefrega del 1933, di Hitler, della destra, della sinistra, del centro... c’è la poesia!
E il mondo di fuori scompare.
Resta il mondo di dentro, che non ha date e non ha bussole, che è difficile capire.
Alice impugna la penna e le fa ballare un tango serrato sul foglio.
Mi rigiro verso la cattedra, fisso gli occhi, dormo dentro.
Paolo mi tira un cartoccetto.
“Ehi! Secchio! L’hai fatta la traduzione?”
Tiro fuori il quaderno dallo zaino e glielo passo.
“È fatta bene?”
Faccio cenno di sì con la testa.
“Guarda che, se è fatta male, sei morto!”
Allora sono vivo.
Paolo copia da bravo amanuense il prologo dell’Edipo Re.
Ricci entra in classe col solito giornale sottobraccio e la camicia sporca di caffè. Apre il registro al contrario, lo capovolge, fa l’appello e interroga Ludovica.
“Professore, io mi giustifico!” dice lei senza scomporsi.
“Ma ha già sei giustificazioni...” ribatte Ricci.
“Questa è la settima!” risponde Ludovica, si avvicina alla cattedra e mette nel registro un foglietto con la firma improbabile di suo padre.
Ricci sbuffa e interroga l’unico nome a caso che conosce: Carlo Rossi.
Sa già che non farò storie, che andrò alla cattedra buono buono.
Gli faccio la lettura in metrica e la traduzione, è soddisfatto e mi mette 9.
Raccolgo la mia sedia e me ne torno al posto.
Il bilancio della giornata è in positivo, penso.
Poi guardo gli altri che giocano a Nomi-Cose-Città-Animali e a Tresette agli ultimi banchi, che si raccontano il week-end e le ultime conquiste, che si passano foto scolorite di quest’estate e indicano col dito ragazze più o meno carine con un asciugamano sulle spalle e la spiaggia sotto i piedi, ragazze che si sono lasciate consolare per quindici giorni, un mese e ora sono a chilometri di distanza, ragazze che continuano a mandare squilli e messaggini ma si sono già rimesse con gli ex, gli stessi ex che le avevano fatte piangere, ma che ci puoi fare?, si sa, il tipo stronzo piace.
Ricci sbatte il registro sulla cattedra e ripete “Silenzio!”.
E mi piglia la paura che un giorno sarò anch’io così, che crederò a tutto quello che dicono i libri e cercherò di fare stare zitta la vita che sta seduta agli ultimi banchi e mormora.
Cercherò d’imprigionare il mondo in una formula matematica e lo lascerò lì, a ringhiare dietro le sbarre.
Ti stai chiedendo che c’è d’interessante in questa storia?
Magari l’hai buttata sul comodino e già non ti va più di andare avanti. Forse la voglia di leggere ti è sempre mancata, forse no.
A me è mancata quella di parlare.
Allora facciamo uno sforzo in due, ok?
Io racconto e tu leggi.
Può darsi che, tra qualche pagina, ci accorgiamo che non siamo così distanti, che la tua storia è la mia e la mia la tua.
E scopriamo che ci ha fatto bene questo sforzo.
Ci vuole pazienza. Prima o poi passa il vento e si va.
Si va nel verso giusto, che poi, forse, è proprio quello sbagliato, chissà... Sì, prima o poi passa il vento, arriva un soffio e ti regala un po’ di movimento.
Per me è arrivato all’uscita di una di quelle mattine tutte uguali. Ho scontrato una magia.
E da quel giorno è cambiato tutto.
Perché, a volte, ti serve un passo falso per capire come si cammina e dopo prendi il via... Ti serve un inciampo, poi metti un piede dietro l’altro e non cadi, no, stavolta no, hai trovato equilibrio.
Ed è una gran conquista.
© 2005, Feltrinelli editore
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