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Recensione Anthony Bourdain Il viaggio di un cuoco - Estratto
Dall’introduzione
Dopo aver risalito per un lungo tratto il delta del Mekong, ora sono in mezzo alla foresta, seduto a gambe incrociate a bere liquore vietnamita di contrabbando da una bottiglia di coca in plastica. Con me c’è Charlie. È buio, l’unica luce proviene da una lampadina solitaria alimentata da un generatore. La cena è appena stata servita su un telone steso a terra, fatto di sacchi di riso e di fertilizzante cuciti insieme. È un semplice pasto di contadini: anatra arrosto, zuppa d’anatra e fiori di banano, insalata e melone amaro ripieno. Il mio ospite, che tutti chiamano "zio Hai", siede alla mia sinistra e con la mano destra mi artiglia il ginocchio. Ogni tanto mi dà una strizzatina, giusto per assicurarsi che io sia ancora al mio posto e mi stia divertendo.
E io mi sto divertendo. Mi diverto da pazzi. Di fronte a me un uomo di novantacinque anni, con la bocca completamente sdentata e un occhio bianco e lattiginoso, vestito con una specie di pigiama nero e dei sandali di gomma, solleva il bicchiere colmo del famigerato whisky di riso fatto in casa e mi invita a un altro brindisi. È un eroe di guerra, mi è stato garantito. Ha combattuto contro i giapponesi, contro i francesi, ha combattuto nella "guerra americana". Ci scambiamo un saluto rispettoso e vuotiamo i bicchieri di colpo.
Il problema è che tutti i commensali, a quanto pare, sono eroi di guerra. Il delta era una sorta di incubatrice, un focolaio di attività vietcong durante la presenza del nostro paese da queste parti. Tutti, uno dopo l’altro, vogliono brindare con me. Il nonno di fronte, seduto sui talloni come un agile sedicenne, ha già sollevato sei volte il bicchiere verso di me, fissandomi con l’occhio latteo prima di vuotarlo. Immediatamente dopo, qualcun altro mi tira per la manica.
"Scusi, Sir... il signore là in fondo... anche lui è un grande eroe di guerra. Vorrebbe bere con lei."
All’altro estremo del telone apparecchiato individuo un uomo robusto, sulla quarantina, con il collo taurino e le braccia gigantesche. Mi sta fissando, per niente intimidito. Mi sorride anche, sebbene il suo sorriso non sia caloroso e amichevole come quello del nonno, ma sembra piuttosto dire: di tipi come te ne ho ammazzati parecchi, adesso vediamo se sai bere.
"Sono pronto, Pezzo di ghiaccio", dico cercando di non farfugliare, "fatti sotto." Lo fisso con il mio più truce sguardo da avanzo di galera e mi scolo un altro bicchiere di quel liquore. Ho finalmente riconosciuto il sapore, ne sono quasi convinto, è formaldeide.
Tre funzionari del Partito comunista, membri del Comitato popolare di Can Tho prendono l’insalata con i bastoncini e intanto osservano con interesse lo stupido americano che ha fatto tutta quella strada – in aereo, in macchina, in sampan – per mangiare l’anatra arrosto con un coltivatore di riso e la sua famiglia, e che, dopo aver già ingollato dodici cicchetti, guarda preoccupato tutti gli altri eroi di guerra che aspettano di bere con lui. Intorno al telone ci sono circa venticinque uomini seduti a gambe incrociate, che mangiano anatra arrosto e mi osservano. Le donne si limitano a servire, emergendo di tanto in tanto dal buio con altro cibo e liquore. Le sento dire qualcosa, con tono di ammonimento.
"Non fargli tagliare l’anatra", immagino stiano dicendo, "è americano. Troppo stupido e maldestro. In America servono tutto già tagliato a pezzi. Non saprebbe da che parte iniziare. Rischia di tagliarsi, l’idiota, e sarebbe una vergogna per tutti."
Arriva un vassoio di carta con un piccolo coltello e un’altra anatra fumante tutta intera, testa, zampe, becco e viscere compresi. Posiziono alla meglio la bestia ustionandomi le dita e dopo qualche tentativo non proprio aggraziato riesco a tagliare le cosce, il petto e le ali secondo la migliore scuola francese. Spacco la testa e offro il cervello al mio amico Philippe (è francese, a loro piace questo genere di cose), poi porgo la prima fetta di petto al mio ospite, lo zio Hai.
I commensali sono soddisfatti. Applaudono. Dietro di me sento i bambini che giocano nel buio. All’inizio erano in pochi, ma quando si è sparsa la voce dell’ospite americano e del suo amico francese sono aumentati, così come i partecipanti alla cena. Hanno continuato ad arrivare dalle fattorie vicine per tutta la sera, in gruppi di due o tre hanno percorso il fiume con le loro piccole barche approdando al minuscolo pontile dello zio Hai. Hanno camminato in fila indiana lungo la riva, su un sentiero di fango secco che serve sia da via di comunicazione nella giungla sia da argine e fa parte di un antico e complesso sistema di irrigazione che si estende per centinaia di chilometri quadrati.
Di tanto in tanto un bambino mi si avvicina, mi tocca la mano o mi pizzica la pelle, impressionato dal mio colore, dai peli sulle braccia. Sul suo viso c’è un’espressione stupefatta. Probabilmente i suoi amichetti più grandi lo hanno sfidato ad andare a toccare il selvaggio gigante americano che un tempo bombardava e distruggeva i villaggi e oggi viene in pace a mangiare anatra e a bere pessimo liquore con gli eroi della patria.
Prima, in uno dei miei momenti da divo del piccolo schermo, ho posato con una ventina di loro per una fotografia e poi ho lasciato che mi dessero la caccia in una radura. Mi hanno inseguito simulando le mosse delle arti marziali di Hong Kong e mi hanno legato con una fune, divertendosi come matti.
La carne dell’anatra è piuttosto dura e sa di fumo, perché è stata cotta su un fuoco di paglia. Il whisky Mekong va giù come acido per sgorgare le tubature. Mi preoccupa un po’ il pensiero di che cosa capiterà quando tutto quest’alcol comincerà a produrre i suoi effetti. Non posso evitare di chiedermi come farò a tornare alla mia piccola barca traballante nel cuore della notte, a percorrere il fiume nel buio assoluto della giungla, a sbarcare (mantenendo una posizione eretta) sul pontile di bambù e mangrovie e a raggiungere il villaggio preistorico dove ho lasciato la macchina a noleggio. Da lì poi bisogna ancora proseguire per le strette e tortuose piste della giungla e superare i fragili ponti in legno fino ad arrivare alla statale 1 e a Can Tho senza vomitare addosso ai tre rappresentanti del Comitato popolare.
Non voglio disonorare la mia gente. Non voglio che i miei simpatici e gentili ospiti mi vedano inciampare o cadere. Non voglio allontanarmi da questa cena su una barella, la testa ciondoloni oltre il bordo del sampan, e vomitare nell’acqua nera. Ho qualcosa da dimostrare. Avremo anche perso la guerra. Avremo bombardato, minato, ucciso senza scopo per poi squagliarcela come fosse stato tutto un terribile equivoco, ma che cazzo, saremo pur capaci di bere come questa gente, o no?
Osservo il nonno che sta di nuovo riempiendo il bicchiere mentre un bimbetto gli si arrampica in grembo e non ne sono più così sicuro. Ma chi se ne frega. Mi sto divertendo. Sorrido al vecchio e sollevo il bicchiere. Mi piace lui, mi piace questa gente, il loro cibo e il loro modo di divertirsi. Sono le persone più fantastiche che abbia incontrato da quando sono arrivato in Asia. Dei veri festaioli, per gli standard vietnamiti: calorosi, generosi, premurosi e socievoli, a volte davvero divertenti, sinceri nell’ospitalità come nell’orgoglio. Non voglio andarmene. Voglio continuare tutta la notte.
A un tratto uno degli eroi di guerra più giovani, dall’altra parte del telone, si alza e si mette a cantare. Tutti gli altri ammutoliscono. Canta accompagnato da una chitarra sgangherata, le mani giunte come se stesse pregando, lo sguardo rivolto a un punto indefinito nella giungla, oltre le nostre teste. È un canto bello, sentito, con un suono dolce e ammaliante. Alla luce fioca della lampadina l’uomo ha un aspetto angelico. Non si sente volare una mosca, ma riesco a sussurrare una domanda all’interprete seduto al mio fianco.
"Cosa dice?" chiedo.
"È una canzone patriottica", mi risponde, "sulla gente di questo villaggio, le famiglie di contadini che hanno nascosto i soldati e li hanno aiutati durante la guerra americana. Sulle difficoltà che hanno dovuto affrontare. Sul loro coraggio."
So che nella canzone si parla di uccidere la mia gente (e non è passato neppure troppo tempo), ma ne sono conquistato. Affascinato. Lusingato. Nelle ultime ore sono stato trattato con una gentilezza e un rispetto mai conosciuti prima. Lo zio Hai mi strizza ancora una volta il ginocchio. L’uomo anziano che mi sta di fronte solleva il bicchiere vuoto nella mia direzione, invita un giovanotto a versargli da bere e a fare lo stesso per me. La luna si mostra indolente da dietro soffici nuvole, resta appesa sopra le cime degli alberi al di là del fiume. Stanno arrivando altri ospiti. Li sento avvicinarsi, sento lo scalpiccio dei sandali e dei piedi nudi sull’argine di fango secco del fiume, li vedo emergere dal buio e prendere posto intorno al telone. […]
© Feltrinelli
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