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Diceria dell'untore (La rosa dei venti)


Gesualdo Bufalino Libri


Nel 1946, in un sanatorio della Conca d'oro - castello d'Atlante e campo di sterminio - alcuni singolari personaggi, reduci dalla guerra, e presumibilmente inguaribili, duellano debolmente con se stessi e con gli altri, in attesa della morte. Lunghi duelli di gesti e di parole; di parole soprattutto: febbricitanti, tenere, barocche - a gara con il barocco di una terra che ama l'iperbole e l'eccesso. Tema dominante, la morte: e si dirama sottilmente, si mimetizza, si nasconde, svaria, musicalmente riappare. E questo sotto i drappeggi di una scrittura in bilico fra strazio e falsetto, e in uno spazio che è sempre al di qua o al di là della storia - e potrebbe anche simulare un palcoscenico o la nebbia di un sogno... "Ingegnoso nemico di se stesso", finora sfuggito a ogni tentazione e proposta di pubblicare, uomo, insomma, che ha letto tutti i libri senza cedere a pubblicarne uno suo, Gesualdo Bufalino - professore a Comiso, oggi sessantenne - è con questa "Diceria" al suo primo libro. Scritta negli anni, come lui dice, "della glaciazione neorealista", questa contemplazione viene alle stampe in un tempo meno gelido, più sciolto e più libero perché sia giustamente apprezzata.
 
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E questo era bello: andarsene cos a spasso con passi daria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita.


 


 


Ci sono romanzi che iniziano in sordina, quasi che lautore sia timoroso di offendere il lettore travolgendolo da subito, ma che poi pagina dopo pagina, riga dopo riga si intrufolano, ma sempre in punta di piedi, nellanimo di chi dapprima scettico sente crescere in s un entusiasmo che non lo lascer fino alla fine.


C una narrativa che, pur non cercando di indulgere alla commozione, poco a poco insinua nel cuore una vena di malinconia, mettendo a nudo e alla prova la capacit di sentire e di umanamente comprendere.


Cera un vecchio insegnante che ha voluto parlare della vita di uomini vicini alla morte e in tal modo riuscito a far comprendere quanto, in quellattesa, si possa ancora essere uomini.


Ecco, Diceria delluntore di Gesualdo Bufalino tutto questo.


Pubblicato per la prima volta nel 1981 ottenne subito un grande successo di critica e di pubblico, vincendo il Campiello lo stesso anno.


E stato, quindi, un debutto clamoroso, sia per la qualit dellopera che per let dellautore, che allepoca aveva sessantanni.


Bufalino racconta lesperienza autobiografica della degenza nel sanatorio della Rocca di Palermo, un percorso della memoria che dapprima lo port ad abbozzare il testo verso il 1950, scrivendolo poi nel 1971 e dedicando i successivi dieci anni a continue revisioni.


La trama in s, che potremmo definire una tresca damore e di morte,  si pu ben riassumere, senza per questo togliere il piacere della lettura, in quel che al riguardo dice Bufalino:


Si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in un sanatorio della Conca dOro, nel 46. Fra il protagonista e una paziente dai trascorsi ambigui (Marta) nasce un amore, puerile  e condannato in partenza, pi di parole che datti, il cui sbocco una fuga a due senza senso, e, subito dopo, la morte di lei in un alberghetto sul mare. Egli, invece, guarisce, inaspettatamente, e rientrando nella vita di tutti, vi porta uneducazione alla catastrofe di cui probabilmente non sapr servirsi, ma anche la ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre.


E una interpretazione delleterno connubio di eros e thanatos, in cui nulla lasciato al caso, tanto che Marta, amante dellio narrante, ha le stesse consonanti della morte.


Fra laltro, in questo romanzo stupiscono lo stile e labbondanza del linguaggio, che a tratti presenta caratteristiche baroccheggianti, soprattutto prima di introdurre profonde riflessioni, quasi che il ricorso a parole inconsuete, anche se nel passato utilizzate da letterati, servisse a procedere con maggior lentezza, predisponendosi cos a una pausa meditativa.


Resta il fatto che sovente ci si trova di fronte a ampi laghi di parole, messe in bocca anche a personaggi che per le loro caratteristiche dovrebbero avere invece un lessico pi modesto, il che dapprima mi ha indotto a pensare che in tal modo Bufalino volesse dare dimostrazione della sua erudizione, ma poi riflettendo, accostando le parti dellopera fra di loro, credo daver capito i motivi e cio evidenziare la forza dirompente del verbo in un ambiente immobile quale quello di individui che si trascinano alla fine, dove i suoni normalmente dovrebbero essere solo i frequenti colpi di tosse, e che invece danno un senso di intensa vitalit - potremmo quasi pensare agli ultimi fuochi in chi solo in attesa.


I personaggi, che potremmo chiamare i morituri, non sono mai semplici comparse, perch ognuno ha la sua storia nella storia comune dellimminente fine, un residuo di vita che ogni giorno si spegne e che retta da un patto tacito di non sopravvivere gli uni agli altri.


Compagni di sventura, emblemi di unumanit che parte del ciclo generale della vita, un cerchio infinito di nascite e morti che Bufalino ben tratteggia nel corso della fuga dei due protagonisti principali con limmagine dellagave, a cui occorrono dieci anni per fiorire, ma che, subito dopo, muore, una metafora per dire che la vita necessariamente salda  con la morte il debito contratto per esistere.


Del resto, nellopera sono contenuti diversi messaggi, anche se elementi salienti sono certamente il sentimento della morte, il sanatorio visto come luogo di sicurezza, pi dalla vita che dalla morte, e addirittura quasi incantato, nonch limprevista guarigione considerata come un tradimento nei confronti dei compagni di sventura, quasi una diserzione da un destino che si comunemente accettato.


Diceria delluntore sicuramente un romanzo stupendo.



Renzo.Montagnoli

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