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Topics - marisa alberti

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Sentimentale / cara me.......
« il: Gennaio 01, 2021, 20:18:39 »

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Cara me......
« il: Dicembre 28, 2020, 11:43:06 »
CitazioneModificaRimuovi
Cara me…………….

Come sei diventata fragile……
Tanto quanto sei stata forte nell’amare.
Forte fino a rinunciare alla spensieratezza della gioventù.
Forte al punto di accettare compromessi che ferivano.
Forte tanto da essere in grado di cercare di tagliare quel cordone ombelicale che non sei mai riuscita a recidere.

Avrei voglia di abbracciarti.
Mi fai tenerezza!
Ma in questo momento non ce la faccio: ho la mente annebbiata e le braccia stanche.
Ho camminato troppo e troppo a lungo controvento.
Ora ho bisogno di riposare per ritrovare le forze.
E quando queste forze torneranno,  allora sarò li ad accarezzare il tuo viso su cui il tempo e i dispiaceri hanno lasciato il loro ricordo
Accarezzerò i tuoi capelli
E sarà la mia mano ad appoggiarsi sulla tua spalla per dirti ………..
Vai, non è ancora finita.
Avanza lentamente ma, qualche volta, accelera il passo.
Sei ancora in grado di correre
Ma, soprattutto, non avere paura.
Niente e nessuno potrà più ferirti a sangue.
La tua corazza è diventata così  dura che il metallo di una lama non la spaventerà più
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                                QUANDO I  RICORDI…   
                                         
Quando lo incontrai lo stavo aspettando. Non gli avevo ancora dato la sua faccia ,le sue mani, le sue gambe, ma lo riconobbi subito e da subito lasciai che la mia pelle lo toccasse. Con lui mi persi e mi ritrovai: ero sempre io ma una parte di me si era arricchita della vita di un altro.
Fui felice e imbarazzata ma non fui mai un “per me voglio”.
La prima volta che mi baciò mi sembrò tutto naturale, scontato,  quasi avessi già saputo.
Sentii lo stomaco contrarsi improvvisamente poi, rilassarsi piano. Non suonarono campane, ma il mio paradiso e il mio inferno, anche se ancora non lo sapevo, erano già cominciati.
Guardai per un attimo le colline che si vedevano oltre la strada; ne segnai distrattamente il contorno con le dita, lasciando visibili striature sul vetro dell’auto Dietro di loro la montagna si stava colorando di scuro. Una macchia nera saliva serpeggiando tra i rami di quercia, partendo dalla valle per arrivare piano fino in cima, quasi a nasconderla, a darle un po’ di tregua a quell’essere esposta allo sguardo di tutti. Io avrei superato le colline, mi sarei arrampicata sulla montagna, sarei caduta, avrei pianto, avrei avuto paura della macchia scura, ma mi sarei rialzata e, anche zoppicando, sarei arrivata lassù dove la macchia nera scompariva.


La prima volta eravamo nella stanza di un albergo alla periferia di Venezia. Fu dolce e imbarazzante, un misto di sensazione strane. Lui non mi conosceva, non mi stava aspettando ma questo non mi interessava perché non volevo sapere. Era come io lo vedevo e lo sentivo che mi bastava. Le sue mani si muovevano esperte e io cercavo di imprimermi bene nella mente il calore e il ritmo di ognuna di quelle carezze.
Mi svegliai prestissimo. Fuori erano caduti alcuni centimetri di neve e i campi attorno all’albergo sembravano essersi macchiati disordinatamente di chiazze bianche.
Fu allora che mi disse di essere sposato e di avere due bambini. In piedi ,di fronte all’armadio, continuai a sistemare le mie cose. Non cambiai espressione, mi muovevo con gesti rapidi, precisi e risposi con uno scontato “ Lo immaginavo “. Ma non mi voltai mai verso di lui. Concentrai lo sguardo e l’attenzione sul listino prezzi attaccato alla porta. Distinsi caratteri scuri e chiari, i primi stampati, gli altri in corsivo, ma non riuscii a leggere perché le righe continuavano a sbiadirsi.
Eppure non stavo piangendo!
Nella strada del ritorno nessuno dei due disse niente. Lui guidava apparentemente calmo, oppure lo era davvero. Io restai quasi immobile con la faccia rivolta fuori. La neve si stava già sciogliendo, scaldata da un sole invisibile che a malapena riusciva a far filtrare un po’ della sua luce attraverso la nebbia che cominciava ad ovattare. Se avessi potuto mi sarei nascosta anch’io tra quella massa grigiastra. Lì avrei raccolto il mio corpo e come un feto mi sarei lasciata cullare. Non ci sarebbe stato nient’altro. La nebbia sarebbe diventata la mia placente, sacca dolcissima, impenetrabile e io avrei anche potuto lasciarmi andare nel liquido caldo che conteneva. Nessun altro movimento che galleggiare nel nulla, nessun contatto con l’esterno, tranne, di tanto in tanto, qualche rumore attutito per assicurarmi che fuori esisteva qualcun altro.
Non pensare, non vedere, non parlare. Non parlavo, ma non potevo non vedere e non pensare. Lui era lì e io a pochi centimetri di distanza. Che diritto aveva di essere l’uomo che avrei voluto amare.
Mi voltai di scatto e lo guardai. Mi sorprese perché sembrava triste. Mi appoggiai allo schienale del sedile e restai così per alcuni istanti. Solitudine, tristezza, lacrime. Eccole finalmente. Le sentii salire su dalla gola, attraversare il naso, uscire dagli occhi e scendere piano lungo le guance. Ne assaporai il gusto salato e cercai altri motivi per piangere ancora.
Vuotai la mia delusione poi, restammo sole io e la mia voglia di lui. Mi si attaccava con prepotenza quando la respingevo, mi si abbandonava addosso quando la cullavo, la rassicuravo, poi restavamo così, abbracciate, fiduciose, spaventate.
Volevo solo amarlo e avrei anche fatto a meno del suo amore. Sarei stata la donna di una notte e, finché i morsi della gelosia non si fossero fatti sentire, avrei potuto continuare.
Diventai la donna di tante notti, di notti fatte di tenerezza, di incontri decisi da lui all’ultimo minuto. Feci uscire da me quanto di più bello potevo contenere e godetti ogni attimo di quanto mi veniva offerto. Potevo ispezionare il suo corpo, guardarlo mentre dormiva, sentirlo parlare, essere con lui in mezzo a tanti altri che non si sarebbero neanche accorti della mia presenza. Ad ogni sua telefonata mi tuffavo in preparativi frenetici: dovevo essere il meglio di me, sia dentro che fuori. E riuscii ad esserlo perché lui se ne accorse. Cominciò a conoscermi e a farsi conoscere e più mi addentravo in lui, più scoprivo che era lui che volevo incontrare, era lui che volevo far penetrare nei vicoli più nascosti del mio io, quelli piastrellati di insicurezza, di voglia di essere, di bisogno di amore… amore con tutte le A, maiuscole, minuscole, scritte con inchiostro multicolore.
Iniziò a telefonarmi più spesso e più spesso io temevo che la macchia scura mi avrebbe impedito di andare avanti.
Teneva molto a mantenere intatte le sue posizioni socialmente rispettabili ma, in quelle strade, io stavo già camminando. Niente di particolarmente preoccupante: c’era ancora tanto spazio per andare avanti indisturbati. Ma lui non si preoccupò, mi lasciava fare e i miei spazi continuavano ad allargarsi. Arrivai ad occupare la strada per intero e allora lo vidi diventare insofferente, lo sentii fare discorsi confusi che a volte interrompeva prima di concludere. Parole che costruivano frasi scontate dove io dovevo leggere solo i suoi sensi di colpa, le sue preoccupazioni, le sue paure, che mi obbligavano a sentirmi in colpa, a preoccuparmi, ad avere paura. Ma in quelle frasi io leggevo anche che era di me che aveva bisogno per raggiungere la cima.
E allora avrei voluto gridargli: - Non preoccuparti, lasciati andare con me in questo piccolo cerchio, non muovere l’acqua se non vuoi allargarlo. Lascialo essere per un anno, un mese, o anche solo per un giorno, ma non cercare di distruggerlo. In quel minuscolo spazio ci siamo noi e non riusciremo più a costruirne un altro così perfetto!-
Invece restavo zitta: non potevo chiedergli qualcosa che avrebbe avuto valore solo se fosse stato lui ad offrirmela. E lui cominciò un po’alla volta a darmi la possibilità di restare nel cerchio e parlandomi delle sue paure mi chiedeva indirettamente di poterci restare con me.
Mi disse di amarmi mentre eravamo al ristorante.
Feci finta di non aver sentito. Mi alzai solo quasi di scatto ed uscii.
Ero felice, toccavo il mio paradiso, ma le gambe mi tremavano. La mia parabola stava per essere raggiunta dalla sua e, una volta allineate, avrebbero potuto scontrarsi. Allora forse sarebbero ritornate a scorrere piatte, in direzioni diverse.

La strada si srotolava su per la montagna come un nastro, quasi a voler scappare da chi gli camminava sopra. Nella furia della corsa, si addentrava tra i pini, costeggiava burroni altissimi poi tornava a riprendere fiato e allora scivolava calma tra i prati. Seguivo con gli occhi il suo percorso man mano che ci avvicinavamo al paese dove, finalmente esausta, essa si fermava sciogliendosi in una serie di vie e viuzze. Era la nostra prima vacanza!
Tutto di lui mi sarebbe appartenuto, dal mattino quando aprivo gli occhi fino alla sera prima di chiuderli. E tutto di lui mi appartenne. E io bevevo assetata ogni più piccolo istante e, come un cammello, ne facevo scorta per i periodi di deserto che sarebbero venuti subito dopo. Insieme formavamo uno spazio unico, il resto era sfondo, comparsa.
Guardavamo la gente passare ma non ci riconoscevamo in nessuno di loro. Eravamo gli unici, i migliori, la perfezione della coppia.
Non c’erano progetti, non esistevano domani programmati ma esistevamo noi con la nostra voglia di raccontarci, di scivolare l’uno nell’altro per carpirci anche i segreti più nascosti. Gli raccontavo la mia vita, gli indicavo le strade che avevo percorso per raggiungerlo. Strade così lontane e qualche volta sbagliate. Guardavo la sua faccia: non mi capiva, soffriva dei miei errori ma sentivo la stretta della sua mano sulla mia spalla farsi più forte, possessiva.

- Ora ci sono io. – E questo significava ti amo, sono qui per accompagnarti e ti ho scelto come compagna di viaggio. Viaggeremo insieme e insieme grideremo, salteremo. La nostra strada attraverserà paesaggi così belli che alla loro vista non potrai fare a meno di commuoverti. Insieme sbaglieremo, ma forse uno dei due farà in tempo ad avvertire l’altro, lo spingerà dalla parte opposta pur di non perderlo, a costo di fargli male, di violentare i suoi desideri.

Per lui stavo diventando unica, splendida, meravigliosa. Come poteva non uscire da me qualcosa di meraviglioso, di splendido, di unico?
La sera, con la testa appoggiata nell’incavo del suo braccio, gli raccontavo la nostra vita. Non tralasciavo nessun particolare di come volevo che fosse. Smantellavo le parti della sua esistenza in cui non entravo poi, le ricostruivo minuziosamente a modo mio. Ogni volta diverse, ogni volta più belle. Sogni guidati, fiabe dolcissime senza maghi né streghe. Un uomo e una donna che entravano in una miriade di personaggi. Eravamo principi, principesse, servi, naufraghi, gente comune che in comune aveva un’unica cosa preziosa, incomprabile, invendibile: il bisogno di esistere per l’altro. Lui mi lasciava fare, non suggeriva modifiche e la mia ninna nanna andava avanti con un ritmo sempre più lento finché si spegneva del tutto.

Conobbi lui e attraverso lui prese forma nella mia mente  la figura di lei.
Io diventai l’altra, l’altra da cui si corre appena possibile, l’altra con cui si ride, si ama.
Ma ero anche l’altra che stava cominciando a soffrire, che avvertiva i primi sintomi di quella gelosia che sarebbe durata fino al prossimo incontro. E allora mi sentivo persa, ingannata. Cominciarono le prime cadute. Sentivo il dubbio arrivare da lontano e impossessarsi a poco a poco del mio cervello. Era inutile concentrarsi su altro . Lui era con lei e con lei mangiava, parlava, dormiva. Non entravo in quella parte domestica di giornali sportivi letti durante il pranzo, di resoconti giornalieri detti a bassa voce prima di dormire. Non ero la donna che presentava agli amici di famiglia e che il sabato sera portava fuori e la domenica a pranzo.
Della sua presenza a me restavano brevi frasi segnate di sbieco sul calendario o su un biglietto attaccato alla testata del letto. Frasi brevissime, di saluto, di tristezza, di scoraggiamento, di speranza: frasi che puntualmente trovavo rientrando dopo che se era andato. Qualche volta cercava di addolcire la sua partenza con delle rose: erano sette oppure tredici e in ogni rosa io cercavo di nascondere sette o tredici momenti belli passati insieme. Li sistemavo, gli davo dei valori dal buono al migliore e lasciavo il migliore per ultimo. Erano la spinta ad arrivare in cima alla macchia scura quando sentivo che stavo per cadere, per tornare indietro, quando leggevo la mia sconfitta nella vittoria delle altre che incontravo la domenica sottobraccio ad un uomo.
E allora raccoglievo tutte le mie forze e cercavo di difendermi. Mi allenavo a non amarlo. Scivolavo con la mia solitudine in un tunnel senza uscite, eppure così  poco protetto, sempre pronto a far uscire da ogni piccola crepa momenti di dolcezza.
Moltiplicavo le mie mani per coprire quei buchi per impedire che ne entrassero altri.
Proiettavo nella mia mente le sequenze della mia vita senza di lui. Erano momenti ben scanditi, di settimane, al massimo di un mese: andare da un’amica, fermarsi giusto il tempo di non lasciarsi scoprire, ripartire, ritornare, interessarsi di cose che non mi erano mai interessate prima, vivere per me, perché era su di me che avrei dovuto contare.
In fondo sembrava semplice. Sentivo la serenità toccarmi come una pioggia leggera, scivolare in piccoli rigagnoli sulla mia faccia, sul collo, sulle braccia, sulle gambe. Ma bastava un’incognita banale per ripulire tutto e riportarmi al punto di partenza. E allora mi sembrava di soffocare e ogni alternativa diventava un rimedio inefficace. C’era solo da soffrire e allora sarei rimasta inerte e avrei sofferto. Bastava riconoscerne i segni e lasciarli fare, senza cercare di combatterli, di allontanarli, sapere che sarebbero andati avanti per mesi, poi il tempo li avrebbe mitigati, resi sopportabili. Sarebbero stati i miei nemici fedeli, decisi a non lasciarmisi sfuggire. Al mattino mi sarei svegliata con la tristezza immotivata ma, subito, il mio cervello l’avrebbe identificata, dandole una consistenza reale. Di giorno avrei camminato, riso, pianto, scherzato. La sera sarei stata troppo stanca per combattere ancora e allora mi sarei addormentata con la voglia di toccarlo.

Ho ritrovato questi fogli in un vecchio cassetto. Quando le ho scritte avevo vent’anni, ora ne ho cinquantasei. Di quest’ uomo sono stata amante, compagna, moglie, moglie tradita e separata, donna che a fatica ha cercato di  perdonare
Per lui ho superato le colline, mi sono arrampicata sulla montagna, sono caduta, ho pianto, ma mi sono rialzata e anche zoppicando, ho cercato di arrivare lassù dove la macchia nera scompariva.
Non riesco ancora a vedere l’altro versante della montagna ma… la storia continua!
 

 

3
                                  MAI E POI MAI..........
Mai e poi mai avrei immaginato nella mia vita di scrivere a te  una lettera del genere.
Ti chiederai perché lo stia facendo.
Perché ogni cosa che muore ha diritto ad una degna sepoltura e, dal momento che tu non sei in grado di farlo, lo faccio io per te.
La spinta mi è venuta da nostra figlia, per tutte le volte, che come lei mi ha riferito, tu le chiedi come sto.
Che ironia!
Prima una persona la affoghi poi vuoi sapere come sta!?
Comunque sono sopravvissuta e sto bene.
Certo ho dovuto fare un po’ di percorso in salita per arrivarci, imponendomi, quasi giornalmente di rivedere la nostra storia dall’ inizio, ma questo mi ha aiutata molto a capire chi siamo e che cosa siamo stati.

Innamorati, come credevamo quaranta anni fa?
Io sì.
Tu sicuramente no!

Hai solamente scambiato una grande attrazione fisica per un amore mai esistito.
Se realmente ci fosse stato, avresti  continuato a coltivarlo e non saremmo mai arrivati, a questa squallida conclusione della nostra storia.

Il pittore a cui avevamo affidato la tela delle nostre vite, ci aveva rovesciato i colori più belli, ma sono bastate poche gocce di pioggia per farli sbiadire lentamente fino a scomparire.

E’ vero, nonostante tutto, siamo rimasti insieme tanto tempo, ma solo illudendoci che quel sottile filo di acciaio che credevamo impossibile recidere sarebbe sempre rimasto lì.
Purtroppo il filo non è mai esistito: lo abbiamo solamente immaginato noi, per dare un senso, una giustificazione al nostro stare insieme, per sentirci meno responsabili verso chi per colpa nostra aveva sofferto: i tuoi figli e tua moglie in primis.
A differenza di te, che lo avevi già  capito da tempo, io mi rendo conto solo ora  della realtà.

Nel momento in cui non ti ho più visto come l’uomo che scavalcava il terrazzo del monolocale al piano terra in cui vivevo , per passare con me qualche ora rubata alla sua famiglia, ho sentito che ci stavamo allontanando ma, a differenza di te ho voluto a tutti i costi continuare a credere in quel filo.

A vent’anni ci avevo cucito la mia vita e non potevo averne scelto uno sbagliato.

Alle mie reazioni, che erano solo richieste di aiuto, purtroppo non dette, non occorre che te le scriva perché le conosci bene tutte, tu hai scelto la soluzione meno impegnativa: tradire.

Mi chiedo perché solo ora i tuoi tradimenti mi sembrano reali.
Semplicemente perché finalmente i pezzi del puzzle delle tante “squallide bugie” si sono incastrati.
Oggi potrei farti diversi nomi ma non mi va di sporcarmi.
Comunque non posso non complimentarmi con te per la tua abilità nel mentire.
Sei nato già con questa “dote”.
Certe cose non si imparano crescendo!

Poi è arrivata lei ………….
E di lei ho fatto e continuerò sempre a farlo,  la mia ragione di vita.
Perché tanto amore riversato su una figlia?
 Semplicemente perché ne avevo sempre meno da te.

E il meno è diventato niente quando una delle tue storie, l’unica che non sei riuscito a nascondere, come abilmente sei stato capace di fare con le altre, mi è stata messa davanti come una foto senza cornice.

Ti ricordi?
Erano le 17,30 del 28 febbraio quando è squillato il telefono e nostra figlia ha risposto
“Mamma c’è una signora che ti vuole”
E la signora ,appena ho detto pronto, mi ha vomitato addosso tutta la vostra lunga storia.
Una storia durata cinque anni,  iniziata quando è nata nostra figlia.
Una storia fatta di progetti, di viaggi nelle mete più esotiche e romantiche, che doveva concludersi nel vivere insieme nella mega villa che suo padre vi avrebbe regalato.

La “minaccia” che te ne saresti andato, perché da me non ti sentivi considerato, c’era  stata una sera,  circa tre mesi prima.
Avevi in mano qualche mutanda e tre paia di calze: ricordo bene il colore, bianche le prime, nere le altre.
“Non ha importanza dirti dove vado; avrò sempre il cellulare acceso e non c’è assolutamente un’altra donna”.
Ti ho chiesto di non farlo: con il tuo aiuto forse ce l’avremmo fatta.

Il giorno dopo rientrando a casa dopo aver preso la piccola all’asilo ho trovato il tuo armadio spalancato e completamente vuoto.
Avrei dovuto fare anche io la stessa cosa e invece sono rimasta perché la tua abilità di farmi sentire in colpa per essere diventata più madre che moglie aveva pienamente colpito nel segno.
Grande attore!
Raccontando bugie su bugie a nostra figlia che mi chiedeva perché non dormissi più a casa, ti abbiamo aspettato per tre mesi.
Ah dimenticavo: durante le vacanze di Natale mentre ero dai miei, al telefono, pressato dalle mie domande, mi avevi detto che c’era un’altra.
Che cosa potevo fare se non tornare a casa e chiedere la separazione?
Sono tornata ma tu lo avevi fatto prima di me riempiendo il tuo armadio.
Mossa strategica per chi vuole vincere!

“E’ stata tutta una provocazione per scuoterti; mi  è costato molto  fare ciò che ho fatto, ma dovevo e non c’è mai stata nessun’altra.”

Apri la mano mezzo uomo: Bugia o verità? Dove sta qui o qua?
Bluff: bugia in tutte e due!
E invece l’altra ha pensato bene di dirmi la verità.

Sbattere il muso in modo così violento mi ha fatto crollare.

Se cerco di rivedermi ora  però vedo una donna forte che pur di non calpestare fino in fondo i suoi ideali ha lasciato tutto: una splendida casa, il lavoro, per ritrovarmi con la mia piccola di cinque anni a dormire nella mia vecchia camera di ragazza, in casa dei miei genitori a cinquecento chilometri di distanza da te.

Fare questo a quarantacinque anni dopo venticinque di vita vissuta con te è stata dura ma, allora, mi avevi solo piegata………………
Poi….
Poi purtroppo, i cedimenti di fronte alle tue pressanti richieste di perdono, la sofferenza che vedevo in mia figlia per la mancanza di un padre,  ma soprattutto, ancora una volta è stato determinante il non voler ammettere che Marisa non aveva scelto l’uomo giusto e che mia madre aveva ragione.
Per anni mi sono annebbiata il cervello, aiutata dalle gocce di minias, e, seppur a fatica, ho tentato di ricostruirmi.
L’ho fatto per mia figlia.
Tra il mio e il suo dolore ho scelto di curare lei.
Vederla di nuovo serena per la tua presenza mi ripagava di tutto.
Non sono riuscita a perdonarti.
Ho solo rimosso e nascosto nell’angolo più profondo della mia anima la sofferenza e l’umiliazione subita.
Ma le ferite dell’anima, anche se smettono di sanguinare, non si rimarginano più.
E se in scatti di rabbia sono arrivata a dirti che per anni mi sono prostituita, una parte di verità c’è.
Ammetto, , che ci sono stati momenti in cui ho creduto di riviverti come all’inizio della nostra storia, ma, come tu ti sarai certamente accorto, sono stati pochi e non veri come credevo.

Ma veniamo ad oggi.
Se vent’anni fa eri riuscito a piegarmi ora a sessantadue anni mi hai letteralmente spezzata.

Mi vergogno della mia reazione al tuo lasciarmi.
Nel momento in cui mi hai detto che il giocattolo si era rotto e che avevi la testa da un’altra parte avrei solamente dovuto dire : “Va bene, mettimi pure in un angolo tra le cose rotte e cerca di divertirti con il nuovo che hai trovato”.
Io un giocattolo!?
Bell’ eufemismo, soprattutto centrato, perché un giocattolo che ti fa divertire va bene, ma, nel momento in cui si rompe, la fatica di aggiustarlo diventa troppo pesante di fronte alla certezza di averne già pronto, e da anni,  uno nuovo e più bello.



Che cosa mi terrorizzava tanto nel perdere quella parte di te che era ancora rimasta?
Me lo sono chiesta molto spesso in questi mesi.
Umiliarmi fino a perdere la dignità, dandoti perfino la possibilità di riprovarci, arrivando anche a supplicarti.
Quando a volte ci ripenso mi vengono i brividi.
Ma ora finalmente ho capito e mi  sono perdonata per il mio assurdo comportamento.
Non era il terrore di perderti ma, il dover ammettere definitivamente che la mia scelta era stata veramente sbagliata da sempre.
E infatti tu non mi manchi.
Mi fa dilaniare e stringere lo stomaco solamente sapere come si sente mia figlia. Questo ho letto nel suo diario e per quanto sappiamo che ami giocare con le parole so che quanto ha scritto è reale.
“Cosa posso fare in fondo, se non essere soltanto quella che sono, figlia di una storia che mi ha riempito di cicatrici e graffi, con il sangue che ancora scorre caldo da qualche parte, così tanto bisognosa di una mano che fermi l’incedere doloroso del mio trascorso? Chi sono loro, e chi sono io?”
Ci tengo a sottolineare “mia” perché, dal momento in cui è nata, tu hai vissuto un’altra vita lontana da noi.
Ho cercato sempre di proteggerla da tutto e da tutti e, ironia della sorte, non ho potuto farlo da suo padre!

Ma quel che è stato è stato: il passato è passato e come tale lo si deve lasciare andare. 

Concludo questa lettera, che non so neanche se leggerai fino in fondo, dicendoti che finalmente sono riuscita a perdonarmi per aver buttato via 40 anni della mia vita, stando accanto ad un uomo che avevo solamente  creato nella mia mente, completamente diverso da ciò che in realtà era.
Finalmente ho ritrovato Marisa.
E Marisa non mi deluderà!
 “ Il regista della nostra vita” ha deciso forse di  concedermi ancora “un accattivante incanto”.
E sto bene.




p.s. : Questa è stata realmente la mia vita.
          Come tutti, speravo di farne un capolavoro e invece ho permesso ad un uomo in cui
          avevo riposto tutta la mia fiducia, convinta che fosse l’unico in grado di aiutarmi a
          realizzarlo, di frantumarla in mille pezzi. E non sono una povera stupida che si lascia
          facilmente intortare. E’ stato solo impossibile difendersi da chi la parola lealtà non sa
          neanche che esista. In me ci si può specchiare, tanto sono limpida e diretta, in lui avrei
          dovuto essere sempre abile a togliere la maschera che in quel momento indossava!

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Altro / Bevono
« il: Novembre 11, 2012, 16:57:13 »
Bevono

Bevono e parlano di felicità.
 Bevono, e si auto-commiserano in un lento suicidio, nella vana speranza di ridere ancora, di più, più di quanto già non riescano a fare.
 Bevono per ritrovare un coraggio mancato, per abbattere muri fatti di odio e sofferenza, per assaporare quella subdola forza che ti scuote le ossa, prima di paralizzarle.
 Bevono e fingono di essersi dimenticati di una vita sbagliata.
 Quella vita brucia ora, urla dentro a un bicchiere che nasconde l’altra faccia di una terra pulita, e che lentamente consuma fino a fare dei propri corpi solo corpi stanchi, polveri di un cielo ancora vivo, ma che di vivo non ha più nulla.
 E hanno così paura della morte …
 Io quella morte la leggo nei loro sguardi,  nei loro occhi, nelle loro bottiglie rotte che gettano disgusto, schifo …
Mi fa schifo tutto questo, è tutto così triste, così deprimente …
 E loro intanto ridono, e bevono, uno, due tre, cento bicchieri di rabbia … ma non trovano gioia, non incontrano esaltazione o furore che sia adesso …
 Il buio li cattura, l’ansia li divora, è tutto un torpore di freddo e paura e il loro bello spettacolo finisce così, improvvisamente, senza applausi … 

5
Introspettivo / Io straniera
« il: Novembre 11, 2012, 16:47:51 »
IO SRANIERA


Straniera, esclusa, emarginata, in una sola parola “diversa”.
 E’ così che oggi considerano quelle come me, quelli che conservano ancora origini lontane, legate a un odore di mare che qui non si respira.
 Siamo diversi dalla massa noi, diversi da coloro che non sanno far altro che appoggiarsi a sguardi furtivi, per capire che il nostro mondo non gli apparterrà mai. Eppure tutti percepiamo la stessa realtà da due occhi soltanto, e tutti possediamo due mani per afferrare, due gambe per specchiarci allo stesso destino e un solo cuore che ama, soffre, scalpita, esulta, vive.
Ma in questo lato del mondo i nostri occhi sono troppo scuri, le nostre mani ladre di un qualcosa che non ci appartiene, le nostre gambe troppo veloci, il nostro cuore troppo sporco e disonesto.
 Siamo bersagli inermi per questa società malata, che osserva, mette alla prova, seleziona e alla fine elimina.
 E alla fine è noi che elimina.
 In certi giorni voglio pensare che non sia così, convincermi che il loro odio possa tacere di fronte a questa mia diversità.
 Ma intanto continuo a cadere.
 Cado, cado ancora, e mi sforzo di rialzarmi, ma non ce la faccio. Tento. Ancora una volta, ma tutto questo fa male, tanto, troppo male, e non resisto più.
 Cado, e mi ritrovo a terra ora, le lacrime scendono, le parole soffocano. Ma accanto a me vedo loro adesso…perché quando si cade, ci si ritrova tutti nello stesso baratro…e non c’è diversità che salvi se stessa.

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Sentimentale / Gino faceva il ferroviere
« il: Novembre 05, 2012, 18:56:53 »
Gino lavorava nelle ferrovie dello stato.
Di notte, quando i treni, restavano in sosta sugli unici tre binari, della piccola stazione di Borgovecchio, puliva vagoni impregnati di fumo di sigaretta e puzza di urina. Che ci fosse pioggia, neve o vento a intirizzirgli le mani e a penetrargli nelle ossa, non aveva nessuna importanza. Il turno andava dalle undici di sera fino alle quattro del mattino e mai una volta si era dato malato.
Era già una benedizione poter lavorare, e Gino, risucchiato nella sua tuta cerata, non aveva né tempo, né bisogno di lamentarsi. Ogni tanto, le mani ben salde sulla scopa di saggina, si fermava a imprecare contro qualche santo che non conosceva, così era certo di non tirarsi dietro le maledizioni di nessuno.
 Se il freddo era proprio insopportabile si consolava pensando ai turni estivi. In quei cinque mesi la brezza marina entrava nelle cabine arroventate dal sole e portava altrove l’odore pregnante dei sedili e quello di petrolio delle traverse di legno. Allora, gli piaceva affacciarsi ai finestrini del treno, guardare ora il cielo, ora il mare, quelle due grandi distese blu notte che sembravano sovrapporsi. Quando la luna lasciava l’acqua per accoppiarsi al cielo, fissava il cono di luce che l’accompagnava, con la stessa curiosità di quando era bambino, con lo stesso desiderio, invecchiato con lui, di potersene andare. Partire  su una di quelle navi, che raramente passavano al largo, seppur non sapesse chiaramente verso dove. L’importante era allontanarsi da questo posto di vecchi pescatori e femmine sempre curve per il peso di un figlio che non sarebbe stato l’ultimo.
Eppure, a Gino, piaceva il suo paese, arrampicato sulla scogliera a strapiombo sul mare. Lunghi budelli di case, dalle pareti scrostate, a cui nessuno sembrava fare più caso, divise da un centinaio di vicoli, qualcuno largo appena da far passare due persone insieme. E gli piaceva l’odore di aglio fritto e di pesce che arrivava dalle finestre aperte, così come le voci, dai toni per lo più alti che rimbalzavano  come echi nella casa di fronte per disperdersi poi in fondo al vicolo, dove entrava prepotente l’aria del mare.
 La sua casa, alta e stretta, come tutte le altre, era in fondo a vicolo S. Teresa, dalla parte della collina. Da lì il mare si sentiva soltanto nelle giornate di burrasca, quando fermava la sua corsa sbattendo contro gli scogli. Pochi attimi di silenzio poi di nuovo lo stesso schiaffeggiare violento.
 Era sposato con Antonia, una donna minuta, ma avvezza alla fatica, che riparava le reti dei pescatori. La paga di un operaio delle ferrovie non era un granché  e quel figlio, che per la certezza del lavoro sicuro a vent’anni se ne era andato in Germania, aveva bisogno di essere aiutato. Ogni mese Gino andava all’ufficio postale, una piccolo buco lungo e buio, attaccato alla biglietteria del porticciolo, per inviargli un vaglia di duecento euro.
Era partito ormai da tre anni e solo tre o quattro volte si era degnato di scrivere due righe di ringraziamento, e di far sapere come se la passava. Avrebbe potuto fare di più, non fosse altro che per quella poveretta di sua madre, che ogni giorno , dopo aver sperato che il postino bussasse alla loro porta, prendeva in mano il rosario e, tra una litania e l’altra, alzava la testa, e cercava nel marito una qualche risposta.
-Mi basterebbe sapere solo che sta bene-, poi tornava a biascicare le sue preghiere. Gino avrebbe voluto consolarla ma, per quanto si sforzasse, non riusciva mai a trovare le parole. Forse perché quel figlio aveva fatto ciò di cui lui non ne aveva mai avuto il coraggio: allontanarsi il più possibile da questo paese di mani screpolate dall’acqua salata e di femmine già vecchie a trent’anni.
Guardò per un momento, quella femmina con cui da tanto ormai divideva il letto, il pane e le burrasche e non poté fare a meno di confrontarla con la foto patinata di una del cinema, attaccato su uno sportello dell’armadio, nella rimessa degli attrezzi. - Un paragone dei più stupidi-, pensò. Come se non sapesse anche lui quanti solchi è capace di scavare la fatica e il dover tirare avanti sempre e comunque. La partenza dell’unico figlio, in mezzo a chi non ne contava meno di tre o quattro, aveva reso la pelle del suo viso ancora più grigia e levato dagli occhi neri e penetranti, quelle pagliuzze di luce che li rendevano vivi.
Il tempo, alle ragazze del paese, toglieva presto la pelle levigata e i sorrisi di speranza per lasciare sempre più spazio a corpi sformati e a facce dallo sguardo rassegnato di chi sa bene come sarà il giorno a venire e quello a seguire.
Così era stato anche per Antonia. 
Gino, l’uomo a cui un giorno si era promessa sposa, forse per amore, o forse perché  così si doveva, per non correre il rischio di ritrovarsi zitella, era diventato con gli anni solo il marito a cui doveva preparare i pasti, lavare le tute da lavoro e con cui, ogni tanto, bisognava sbrigare quei doveri di moglie che la facevano arrossire di vergogna. Tutto l’amore, di cui era capace l’aveva da tempo riversato su quel figlio, il maschio, che un giorno le avrebbe riempito la casa di profumo di gioventù e di neonati. Dopo di lui non era sta in grado di averne altri e questo, che la faceva sentire arida e inferiore  di fronte alle altre donne del paese, le aveva però dato la possibilità di non dover dividere a pezzi il suo cuore.
Purtroppo in quella casa non era ancora entrato profumo di gioventù e di neonati.
Ora poi, la possibilità che questo potesse accadere si allontanava sempre di più.
Dall’estero, si tornava solo se arricchiti e verso i cinquant’anni, perché così era stato da sempre e per tutti.
Per quel tempo lei e Gino avrebbero vissuto da soli, nella casa in fondo a Vicolo S. Teresa, aspettando  che il postino, sbattesse il batacchio della loro porta per consegnare una lettera proveniente dalla Germania.

   

7
Sentimentale / Quante come me...
« il: Settembre 30, 2012, 17:25:05 »
                                           
                               

                                           Quante come me…
Tutto è  successo soltanto nove mesi fa: dopo due settimane di ritardo qualcosa mi diceva che avrei cucinato, pulito, riso , pianto in compagnia.
Sono andata da un medico per la conferma solo tre mesi dopo. Volevo che la tua vita restasse un segreto tra me e te. Soprattutto volevo vivere con l’illusione che esistessi.
Strano,ma le gambe mi tremavano mentre entravo nel suo studio.
Eppure avrebbe dovuto dirmi solo cose belle, rassicuranti, come si fa con una donna in attesa del suo primo figlio.
Mi ha fatto stendere sul lettino e ha cominciato a frugare dentro di me , dentro di noi. Il mio pensiero è andato subito a te, troppo piccolo e inerme per difenderti.
Ho avuto paura che solo sfiorandoti ti avrebbe fatto male: gli ho quasi urlato di fermarsi.
L’espressione del suo viso sempre più enigmatica : ma cosa stava cercando?
Mi ha guardato con un’espressione attonita e preoccupata.
La lama del coltello che mi ha trafitto lo stomaco e il cervello è arrivata immediatamente.
-C’è qualcosa che non va all’ ovaio destro. Si presenti domani in radiologia, per un accertamento più accurato-.
Non ne ho fatto parola con nessuno, nemmeno con tuo padre. Non parlandone volevo illudermi che tutto fosse andato bene.
La sera, a letto, mi sono rannicchiata su me stessa, le mani appoggiate sulla pancia, sperando che tu ne sentissi il calore.
-Nessuno potrà allontanarti da me e io farò di tutto perché questo non accada - continuavo a ripeterti.
 Rassicurando te cercavo di rassicurare me stessa e invece ho cominciato ad avere paura, una paura sottile che oscurava l’immagine, che ogni sera  prima di addormentarmi, mi piaceva farmi di te.
Sottovoce ti ho cantato la prima ninna nanna: parole dolcissime di gioia, di speranza, di amore, finché l’ oblio del sonno non è scivolato dentro di noi.
La mattina dopo sono andata in ospedale, come mi era stato richiesto.
Erano le prime giornate di maggio. C’era odore d’ estate nell’aria e sulla faccia della gente. Il profumo intenso dei tigli, che costeggiavano il viale di accesso, entrava prepotentemente nelle narici: se solo avessi potuto te lo avrei fatto sentire.
Ma ci sarebbe stato tempo per tutto, bastava soltanto aspettare ancora un po’.
Lungo il corridoio del reparto di radiologia, solo due donne di mezz’età, sedute nelle ultime sedie, sfogliavano distrattamente un giornale. Una di loro ha guardato la mia pancia leggermente evidente e mi ha rivolto un sorriso tenero e rassicurante.
-Tutto andrà bene- sembrava dirmi.
-Tutto deve andare bene-le ho risposto mentalmente.
Un infermiere si è affacciato ad una porta ed ha urlato il mio nome. Sono entrata.
La stanza era piccola: una scatola verde attraversata da tubi bianchi, con una specie di grosso tavolo  al centro.
-Si spogli, indossi il camice e si sdrai. Mi raccomando, immobile!- sono state le uniche parole che ha pronunciato, poi si è allontanato.
Come una scolaretta ubbidiente e spaventata, ho ubbidito.
Una  lastra di acciaio è scesa dal soffitto, si è fermata a dieci centimetri dai miei piedi poi, lentamente è scorsa fino a metà del mio corpo. Lì  è rimasta non so per quanto tempo. Minuti interminabili di immobilità e di freddo; freddo che sentivo lungo il corpo e dentro il mio cervello. Restare immobile non mi era difficile: la paura sottile che già avevo conosciuto mi paralizzava.
Qualche giorno dopo c’è stata la risposta: tumore all’ovaio destro. Occorreva operare subito, poi si sarebbe deciso quale tipo di terapia adottare. Impossibile portare avanti la gravidanza.
Seduta su una sedia verde, in una solita stanza verde, ascoltavo le parole del medico con lo stessa estraneità con cui, credo,  un condannato ascolta la sua sentenza di morte.
-Non è di me, non è di te, non è di noi che sta parlando- pensavo, mentre le parole sbattevano sui muri e tornavano indietro perforando come schegge il mio cervello ma, stranamente, non avvertivo alcun dolore. Stavano parlando di un’altra persona, questo non poteva succedere proprio a me!
E invece era di te e di me che stava parlando: della tua morte e della mia vita in forse. E il dolore è esploso.
 Senza rendermene conto le parole che già mi bloccavano il respiro, mi sono uscite come vomito dalla bocca.
-Non farò assolutamente niente di quanto mi ha proposto. Mi dispiace-
A nulla sono valse le parole di dissuasione del medico, di tuo padre, di quelli che poi hanno saputo.
-Devi pensare a te-, era il ritornello che tutti sembrava avessero imparato a memoria.
E io invece continuavo a ripetermene un altro: devo vederti, sentire il tuo odore, poi posso anche andarmene, lasciare la mia vita in cambio della tua. Una buona parte io l’ho già vissuta. Ho conosciuto il sapore di miele della felicità, quello di zucchero della serenità e da una settimana la pugnalata del dolore che ti lascia in bocca il gusto di fiele. Ho conosciuto quanto basta.
 Non ho cercato conforto in nessuno. Di una cosa ero certa: io non ti avrei ucciso, piuttosto sarei morta con te.

Sono passate alcune settimane, poi un mese, due mesi; stavamo bene insieme.
Ogni tanto mi facevi sentire che c’eri. Io vivevo perché tu vivessi e tu, aggrappato a me, mi davi la spinta per farlo.
E’ arrivato giugno, è arrivato il caldo, la voglia di spogliarsi al sole e di sentire sulla pelle il suo calore. Non c’era tempo da perdere: dovevo portarti al mare.
E siamo andati al mare, da soli, in una giornata in cui i colori del cielo e quello dell’acqua si confondono, e la sabbia, gli fa da cornice. Beige e azzurro, un bell’accostamento di tinte.
Chissà cosa sei riuscito a vedere attraverso i miei occhi, cosa sei riuscito a sentire attraverso la mia pelle. Chissà perché mi sono sempre rivolta a te al maschile?
Quello che ti ho fatto vedere o sentire del mondo, io, l’ho fatto da donna.
E da donna ti ho raccontato il mare, la sua forza e la sua docilità, i suoi colori e il suo profumo, il suo ansimare da lontano e il suo respiro calmo quando finalmente arriva a toccare la sabbia.
Ti ho raccontato il chiarore debole dell’alba, come di chi, in punta di piedi, dà vita alla vita, le mille sfumature di rosso dei tramonti estivi e mi sono guardata bene dal parlarti del nero della notte.
Il tempo in cui siamo vissuti attaccati è passato in fretta.
 Contrariamente a quanto sentenziato da chi sa prevedere tempi di vita e di morte, tutto procedeva bene. 
 E’ arrivato il tempo in cui la terra, ha cominciato a riposarsi e lentamente si preparava  a morire per non combattere i geli invernali.
E ’arrivato il tempo in cui, tu, al contrario, ti preparavi a vivere.
E lo hai fatto in una sera nebbiosa di novembre.
Tutto è successo così in fretta: dolori lancinanti che mi lasciavano senza fiato, la corsa in ospedale, la sala operatoria, l’odore intenso di disinfettante, l’anestesia, poi il respiro calmo del mare.
E mentre il mio corpo fluttuava tra suoni di parole ovattate e braccia di cui a malapena riuscivo a vedere l’intenzione dei movimenti, mi è parso di sentire lontano un debole vagito. C’eri!
Ma la mia vista era troppo annebbiata per vedere e le mie braccia troppo stanche per tenerti. Qualcuno si è occupato di te.
-Dio, non mi abbandonare proprio adesso, lasciami ancora qualche minuto, qualche ora, qualche giorno, lasciami il tempo di vederlo- ho pregato con quel poco di lucidità che mi era rimasta. E, forse Dio, forse il destino, forse tu stesso, mi avete regalato il tempo che vi chiedevo.       
Oggi ho toccato per la prima volta la tua pelle, visto i tuoi occhi, stretto le tue mani. Finalmente sento il tuo profumo: sai di buono, sai di vita, sai di me. E sei una femmina.

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Presentazioni / Mi piace uscire allo scoperto
« il: Settembre 22, 2012, 11:41:19 »
Mi sono iscritta al forum con il mio vero nome.
La motivazione?: quando leggo gli scritti degli altri mi chiedo sempre se si tratta di un uomo o di una donna.
Sarà una scicchezza ma per me è importante saperlo senza andarmi a leggere le presentazioni.
Esclusa "la partitella" che è di mio marito, Otrebla, tutti gli altri firmati con questo nome sono miei.
Sono un' insegnante elementare, ho 58 anni ed ho ancora "intatto" il sogno nel cassetto di scrivere qualcosa di veramente bello!

9
Anch'io Scrivo poesia! / HO UCCISO UN UOMO
« il: Settembre 02, 2012, 20:54:46 »
                                                  HO UCCISO  UN UOMO
Mi hanno messo in mano un fucile
 l’ho tenuto ben stretto.
Mi hanno spinto verso quelli che chiamano nemici
 ci sono andato.
Mi hanno ordinato di sparare
 ho sparato.
Ora c’è un corpo davanti a me
 gli occhi sbarrati fissano vuoti un cielo che non vedrà più.
Forse c’è solo una stella di luce che io non posso vedere.
Le sue dita aperte stringono la terra.
Qualcuno mi dice bravo, continua così, vai avanti, corri.
Ma ho solo sedici anni  e ho ucciso un uomo.

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Sentimentale / la scelta
« il: Agosto 19, 2012, 11:42:20 »
                                          LA SCELTA      

La camera era quasi completamente al buio; solo sotto la porta, montata troppo alta rispetto al pavimento, filtrava una striscia di luce. Marta si svegliò, come ogni mattina alla stessa ora, poco prima che suonasse la sveglia.
Il momento più brutto della giornata. Uscire dall’oblio della notte e ricominciare a vivere. Si alzò di scatto, infilò le ciabatte e si diresse in cucina.
Gesti meccanici di ogni giorno:  aprire le imposte e prendere la prima dose di farmaci: dodici gocce, per placare un po’ l’ansia che già le stava rattrappendo lo stomaco. La prossima tra due ore.
La luce verde  della macchina del caffè  smise di lampeggiare, ne riempì una tazza e  si sedette sulla poltroncina di vimini , malamente ridipinta di azzurro, che da anni era stata sistemata tra il tavolo e la credenza.
 La sua cuccia del cane e il cane era lei.
Caffè, sigaretta, sguardo nel vuoto.
Il solito rito prima di riprendere  il controllo o quanto meno far vedere agli altri di essere in grado di farlo.
La borsa nella mano sinistra, la sigaretta nell’altra, uscì come al solito alla stessa ora e si fermò sotto la pensilina ad aspettare il tram, lo stesso che ormai da cinque anni prendeva regolarmente per andare al lavoro.
La nebbia di novembre aveva già nascosto i colori, ovattato i rumori. Se solo avesse potuto si sarebbe  mescolata anche lei a quella massa grigiastra. Lì, forse, quei pensieri che si insinuavano ormai come vermi nella sua testa, non l’avrebbero trovata. Non pensare: in fondo era solo questo che voleva.
Abbozzando un sorriso all’autista, salì e scese alla terza fermata, poco distante dal portone del suo ufficio.
Lì, a parte qualche momento di pausa di troppo, nessuno sembrava mai essersi accorto di nulla. In fondo, in quei momenti non era lei, ma solo quella minuscola parte di sé che ancora riusciva a salvare.
Parlava  e non aveva paura.
Rispondeva e non aveva paura.
Sorrideva e godeva di questi brevi momenti di tregua.
Lo sguardo spesso rivolto all’orologio per la prossima dose di “gocce”.
Quel giorno, invece, uno strano ma, fedele malessere, le arrivò quasi inaspettato. Aveva ormai imparato a riconoscerne i primi segnali e sapeva quali sarebbero venuti subito dopo.
Uscì in anticipo e si incamminò adagio verso casa: non voleva che gli altri vedessero.
Scelse di arrivarci passando per vicolo S. Agata, una viuzza stretta, fiancheggiata da case popolari, con i panni stesi sul filo, sotto il davanzale delle finestre. Le voci che arrivavano da dentro i portoni accostati, mescolate a qualche canzone di una radio accesa, l’odore leggermente stagnante di dove non arriva mai il sole, le erano quasi familiari.
Accese una sigaretta, si strinse addosso il  cappotto e continuò a camminare a testa bassa fino a casa: tre stanze, quanto bastava, ma sistemate con gusto. Il bianco e l’azzurro erano i colori dominanti, colori di chi si apre alla vita e porta dentro di sé la forza del mare.
Il mare non ha paura, segue il vento, si lascia spostare e sbattere contro gli scogli, poi, come un animale docile riprende il suo ritmo, come se nulla fosse successo.
Marta no, lei aveva paura.
Paura di tutto e di niente, dell’ oggi come del domani, paura  della morte, ma anche della vita, degli altri e di sé. Paura di quello che era diventata: una donna non più donna, ma solo una marionetta ripiegata su se stessa.
Entrò lasciando cadere la borsa sulla sedia di vimini e si guardò attorno: niente era sistemato a caso, tutto cercava un’armonia che lei aveva cercato di dare, quel senso di essere al proprio posto, una consapevolezza che da  tempo ormai non aveva più. Quale era il suo posto se non quello di sentirsi intrappolata nell’angoscia che era diventata ormai la sua fedele compagna. Sentì un profondo senso di nausea salirle dallo stomaco fino alla gola. Tutto le sembrò così assurdo, senza senso.
Il cuore pompava forte nel petto, quasi a voler uscire da quell’involucro che non gli permetteva di vivere. Se solo avesse  potuto lo avrebbe liberato, ma l’ansia la paralizzava.
Si lasciò cadere su una sedia accanto al tavolo. Sulla tovaglia, ben allineate, le confezioni delle sue gocce di salvezza, le uniche ormai in grado di alleggerire la tempesta. Senza contarle ne versò alcune in un cucchiaio. Il sapore dolciastro le riempì la bocca. Lentamente il cuore diminuì i suoi battiti: ancora una volta, alla libertà, aveva preferito l’involucro che lo avvolgeva.
Tirò fuori dal cassetto un foglio e una penna.
“A mia madre “ , scrisse in alto a destra, poi lo voltò.
 “Tu mi hai insegnato a pregare ma ,non sono mai riuscita a recitare una preghiera con la mente, solo parole ripetute, litanie che non hanno mai avuto senso.
Eppure, Dio io l’ ho cercato, dentro e fuori di me, come si cerca l’aria per respirare, la terra per non cadere.
Hai cercato di far rivivere nella mia, la tua vita, esempio di rigidità e di buon senso e invece io sono uscita dal cerchio in cui mi avresti voluto contenere e ho creato il mio spazio.
Li ho trovato la forza del mare e mi sono lasciata trasportare dalle onde, cullare con la stessa tenerezza con cui si cullano i bambini, sentire sulla mia pelle il calore di carezze che da te non ho mai avuto, non perché non mi volessi bene ma, il pudore dei tuoi sentimenti ti impediva di farlo.
Niente di sbagliato in tutto ciò, ritenevi solo “sbagliata” la persona che mi aveva portato con sé nel mare.
Troppe volte ho combattuto per avere, nonostante tutto, la tua approvazione .
E invece tante volte ho subito i tuoi silenzi di disapprovazione e ancora tante volte mi hai fatto capire che ti vergognavi di me, delle mie scelte, lontane dai canoni di rettitudine che avevi in mente.
In quello spazio io mi sono persa: troppo debole per staccarmi da te, troppo debole per vivere la mia vita in mezzo al mare.
E chi mi stava accanto mi ha lasciato la mano, in cerca di un’altra più forte e io sono stata sbattuta contro gli scogli.
In quel momento ho riavuto il tuo sostegno, ma la consapevolezza del fallimento e della sconfitta, lo sguardo di pena che leggevo nei tuoi occhi, pesavano troppo.
Ho avuto paura di non farcela.
Il giorno mi spaventava perché mi chiedeva di vivere e l’ansia, a poco a poco, si è presa gran parte di me, poi, come una bestia affamata, è arrivata ad occupare tutto lo spazio che aveva.
E’ diventata la bestia nera della depressione.
Non sono stata in grado di combatterla se non ricorrendo ai farmaci: la preghiera che mi sollecitavi non bastava.
 Anche in questo ti ho delusa!”
Posò per un momento la penna,  allungò la mano e si versò nel cucchiaio altre gocce. Sempre senza contarle, sempre lo stesso sapore dolciastro che le riempì la bocca.
“Mi  dispiace! , continuò
Dio solo sa quanto avrei voluto essere forte, rialzarmi dopo esser stata spinta con la faccia per terra.
Ora so che era come chiedere ad un cieco di guardare, ad uno storpio di camminare.
Sento ancora dentro di me la forza del mare ma, le onde che io stessa ho creato, mi spingono sempre più in basso fino a toccare il fondo.
Ora ho il viso completamente sprofondato nella sabbia e il resto del mio corpo lo sta seguendo.
Nessuno mi chiederà più di guardare o di camminare.
Finalmente posso rispondere:- Non ce la faccio!-
Ti voglio bene”.

Alzò la testa dal foglio, guardò distrattamente la bottiglietta di gocce .Non occorreva nemmeno contarle: ne erano rimaste così poche che decise di finirle. Di nuovo lo stesso sapore dolciastro.
Sentì una sensazione di calma sconosciuta salirle lentamenta lungo il corpo, la testa finalmente vuota e il cuore che rallentava i  battiti.
Posò la penna sopra il foglio, si avvicinò a fatica alla sua poltroncina di vimini e si sedette.
Qualcuno la trovò così il giorno dopo, la testa leggermente reclinata sul collo, le labbra contratte in una debole smorfia di dolore.
Ma, forse, non stava più soffrendo: alla paura della vita aveva solo scelto il nulla della morte.

                                                                                                 ALBERTI MARISA


 
                                                               

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