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Topics - lvalenz

Pagine: [1]
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Altro / Un maledetto vetro bagnato
« il: Marzo 16, 2014, 11:12:13 »
Che gioco assurdo, la bambina ha chiesto un bicchiere d’acqua e lo ha fatto come faceva quando aveva tre anni: “voglio acqua”. Adesso di anni ne dimostra almeno cinque. Mi guarda e non lo beve.
- Per favore, basta con i giochetti! - mi sforzo d’essere paziente – coraggio, torniamo a dormire!
Lei sorride e non mi risponde. Intinge l’indice nel bicchiere e tira fuori una gocciolina sulla punta del dito.
Lentamente si avvicina alla finestra; la vedo di spalle, poi si gira un attimo  - grandi occhi scuri e casco di capelli neri che sorridono alle orecchie. Torna a guardare il vetro. Con delicatezza appoggia la gocciolina al vetro della finestra della stanzetta. Sono le cinque del mattino, perché non dorme? –
Una gocciolina non basta. Ecco, alla sinistra tiene il bicchiere mentre ripete il gioco - ne prende un’altra e non si ferma. Una dopo l’altra, ogni gocciolina tentenna sulla punta del dito. Con delicatezza e pazienza le pone sul vetro della finestra: cinque, dieci, cinquanta, cento, .. ormai ho perso il conto.
Finalmente torna a girarsi verso di me e con lo sguardo indica il vetro: è tutto pieno di goccioline. La luce bianca del primo mattino le illumina – per un attimo scintillano, sono vive; poi vengono giù dal vetro. E’ una forza invisibile che le tira giù, le deforma senza rimedio.. Resta solo un vetro bagnato. Un maledetto vetro bagnato.

Ho capito.

E’ il momento di rimboccare le coperte alla bambina:
- Sei stata brava.., adesso possiamo dormire?
Prende la mia mano e la stringe; poi chiude gli occhi.

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Altro / La padrona dell'acqua
« il: Marzo 16, 2014, 11:10:01 »


E’ tutta una questione di prezzo. Puoi andare di qua, di là, di sotto, di sopra. Ovunque vai è sempre una questione di prezzo. Dipende tutto da quanto sei disposta a pagare. In ballo c’è sicurezza, successo, amore, felicità.
Cara compagna - ultima arrivata - devi imparare in fretta: meglio correre perché, chi arriva tardi, rischia di non trovare niente. Mi sembri lenta e te lo ripeto: se non ti affretti a correre in alto, rischi che gli altri si prendano tutto. E’ inutile che tu adesso faccia la scontrosa, che ti vada lamentando di questo o di quello… Non ci sono scuse per non impegnarsi. E non parlarmi di libertà: una bella parolina per farci le bollicine, che poi scoppiano plic-ploc. Sei giovane ma dovresti saperlo: la libertà è solo un’illusione.

Provo a parlare a questa nuova compagna, dice di aver capito ma poi fa sempre di testa sua. Dalla sua pelle che sfioro appena si capisce che è proprio junior. Lei si muove – sopra, sotto, di qua, di là – piena di sensualità; i suoi occhi sono belli e lucenti. Magari avessi io il suo aspetto! Oddio, non è così male essere nella maturità; negli anni si perde in bellezza ma si acquisisce qualcos’altro: per quanto mi riguarda, è da un po’ che tutti mi rispettano. Non dico che mi temano, però sanno che la mia parola ha un peso, quello di una vita vissuta sempre con stima e considerazione per me stessa. Se dopo tanti anni la mia anima corre ancora, non è per caso: l’ho voluto e posso sbatterlo in faccia al mondo - ce l’ho fatta nonostante anch’io abbia compiuto tante cazzate!
Vorrei farlo capire a questa nuova compagna che mi fa tenerezza e rabbia con la sua inesperienza: con leggerezza si lancia sopra ogni cosa che attira il suo sguardo. E non c’è puzzo evidente che la fermi; a volte m’irrito a vederla con la faccia a terra: c’è solo da infettarsi là sotto, che ragione c’è a buttarsi con la faccia nella melma?
Prova a rispondermi. Dice il cuore innamorato...
- Bella scusa davvero per cacciarti nei pasticci! Perché se continui a lanciarti in qualsiasi direzione il cuore ti indichi, rischi solo di farti male. Ecco, mettiti pure a correre. Ma dove corri? C’è sempre un muro invisibile che ti aspetta. A te come a tutti, non puoi farci niente. E non provare a saltare il muro che non si vede, lo sai che ti succederebbe una cosa orribile.
Lei non replica, è già dietro a quella pinna gialla, oppure adesso è quella rossa? Non riesco a stare dietro a tutti i suoi amori. E non capisce che questi esseri non sono per lei: tipi che abitano sul fondo a zufolare escrementi. A seguirli lei ci rimetterà la coda – perché lei è di una specie che necessita acqua pura, come me. Come fa a non capirlo?
Perché non vuole ascoltarmi? Sono una che ci è passata tanti anni prima di lei ed è rimasta viva perché… chissà poi perché. Forse solo per dare consigli che nessuno ascolterà mai.
E’ chiaro che sono una che conosce le norme: quando il cicalio vibrante scatta sopra il nostro mondo, so che devo correre di sopra, anche se non si vede ancora niente. Corro sempre e tutti mi rispettano – sono la padrona qua dentro.
Ecco, vedo arrancare la “nuova”. Gli altri la spingono, le dicono che deve farsi da parte. Io sogghigno: quando imparerà a difendersi e a badare a se stessa? La guardo ancora: la pelle è lucida, però la sua coda è già un poco strappata. Non ci vedo dalla rabbia e me la prendo con quelli attorno:
-  Sconzola, Termolo, Albo! Andate dietro la pianta e restateci per dieci minuti buoni!
Così li mordo per farmi dare ragione e poi vado da lei che mi lancia un’occhiata di ringraziamento e boccheggia: - Tu sei una piccola luce per me…
- Sveglia bimba, la luce viene alle 8:30. E’ un faro che si accende e ci abbaglia ogni mattino. - così le dico e le faccio cenno di salire in superficie.
Che giochi pure con le bollicine, però quando arriva il momento non deve dimenticare un guizzo di sopra per la pappa, non risparmiando un morso a chi le dà fastidio: questo è il prezzo da pagare qui dentro – una gabbia invisibile - per vivere. E che cazzo, non è difficile da capire!
A sentirmi sbuffare così, lei mi guarda perplessa; ci provo allora in modo diverso: - Il tuo cuore ti appartiene, giovane amica. Tienilo nell’acqua pura e nutrilo ogni giorno.
Lei sgranocchia una scaglietta, ma intanto l’occhietto le corre alle mie spalle. Chissà dove. Chissà verso di chi. Sospiro scuotendo le pinne.  Bollicine, Plic-Ploc. Illusioni da junior…

FINE

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Altro / E' tutta questione di orizzonti
« il: Marzo 16, 2014, 10:52:51 »


E’ tutta questione di orizzonte. L’anima ritrova se stessa quando ha di fronte un orizzonte immenso.
La città dove vivo si affaccia sul mare; si potrebbe arguire che offra un interminabile blu. Invece quando vai sul lungomare, da qualsiasi pontile ti affacci, il blu si ferma presto. Troppo presto. Maledetto stretto di Messina: solo illusione di uno sguardo libero. Tre chilometri separano la costa calabrese da quella siciliana; nelle giornate dal cielo terso ti sembra di scorgere i tetti delle case della riva opposta. La Sicilia ti appare come una sterminata sequenza di colline; piccoli punti di luce dorata e d’argento si accendono al crepuscolo. Non fraintendetemi, chissene del blu marino che si rispecchia nel violetto del tramonto! Qualcuno fermo sul lungomare di Reggio riterrà la vista dello stretto un magnifico spettacolo, ma io non mi faccio incantare!  Sono stufa marcia: non ne posso più di vivere in un posto dove la gente ha una mentalità chiusa -  un orizzonte limitato in testa che si traduce in un qualunquismo senza speranza, in una grettezza d’animo – quella di chi non cerca neppure di capire ciò che pensa.
Che c’è di male se ho deciso di fare la carriera militare?
- Che assurdità! – mia madre e mio padre per la prima volta in vita loro erano d’accordo tra loro. Non sapevo se mettermi a ridere o fanculizzarli subito tutti e due. Sia chiaro, ora ci rido sopra, ma a diciott’anni una ragazza che voglia pensare con la sua testa non ha la vita facile in una città chiusa come Reggio Calabria.
I miei genitori è un po’ che sono una tiritera continua: mi dovrei trovare un fidanzato e smetterla di avere la parete della stanza tappezzata di poster con elicotteri militari e tute mimetiche da marines.
So bene cosa pensano di me: ritengono che la loro benamata figlioletta Adriana non sia normale; sperano che presto lascerò perdere queste “fantasie da adolescente” – le chiamano così - e che comincerò a pensare a cose giuste per una ragazza della mia età. Si ostinano a tirarmi dietro perle di saggezza:
- Sei così brava a scuola, non puoi pensare davvero alla carriera militare!
- Ti devi iscrivere all’università di giurisprudenza come ti ha consigliato Giorgio.
Giorgio è un amico dei miei. Un vecchio panzone stempiato che si fa il figo solo perché è un avvocato azzeccagarbugli. E in questa cittadina di merda di ingarbugli non ne mancano mai: la gente è litigiosa perché si sentono tutti importanti. Il motto dei calabresi è “Se non ma vanti tu, ma vanto ieo!” che tradotto significa… No, non sto neppure a scriverlo: caro diario, ti meriti di meglio!
Devo vestirmi per uscire. Metto i miei soliti stivali di cuoio, leggins e  mantella scozzese verde marrone. In piazza mi aspetta Gaetana. Poverina, che nome del cazzo! Appunto un nome così te lo affibbiano solo in una città come Reggio.

- Allora sei proprio decisa ad andare via? – lecca il suo gelato. Siamo di fronte alla gelateria Cesare, seduta su una panchina. E’ la migliore gelateria e questa sera potrebbe essere un’altra da passare insieme. Alle nostre spalle si ergono alberi secolari di ficus; hanno foglie lucide che tremano sospinte dal vento freddo di novembre.
- Domani presento la domanda in Accademia – a queste parole gli occhi neri di Gaetana si fanno più grandi. Con tono indifferente stempero –  non credo che mi prenderanno.
- E’ inutile che dici così… –  lei ha smesso di leccare, vengono giù rivoli di crema bianca e nera sul cono.
- Guarda che ti sporchi! – provo a dirle e lei si tocca gli occhi. In effetti si capisce che è pronta a piangere. Una lacrima le ha già stinto la matita. Mi verrebbe da dire “prima intendevo il gelato” e invece prendo dalla borsa un fazzoletto di carta.  Lei non lo prende. Si alza e va a gettare il meraviglioso cono di Cesare in un cestino alla nostra destra. Poi resta di fronte a me. La faccia gonfia. Una brezza di vento freddo la induce a mettersi con le braccia conserte.
Dall’altro lato del marciapiedi – la strada in mezzo – un ragazzetto ci guarda. Ci spia. Non è la prima volta. Un viso rosso di brufoli e capelli unti che per sfogare la sua infelice esistenza cerca di rubare l’immagine di un calore altrui. Lo ignoro e cerco lo sguardo di Gaetana:
 - Vieni qua! –
Un solo passo di tacchi, poi mi guarda e di fronte alle mie braccia aperte è tentata di tuffarsi dentro. Si pulisce una lacrima col dorso di una mano spalmando l’ombretto dappertutto.
- Mi ero fatta bella per te – singhiozza.
Mi avvicino a lei, ma è un attimo. Si mette a correre. Fugge via. Dall’altro lato della strada lo spione se la ride. In una mano stringe un panzerotto alla crema; l’altra mano è affogata dentro una tasca dei pantaloni. Non bado a lui e lascio che mia amica - più che amica - corra via con la sua tristezza.
Che posso farci? Quando sono indecisa so che è meglio così: mi defilo. Abbandono il ring. In amore come nella vita. E’ tempo per me di cambiamenti. Gaetana – quattro mesi insieme - era già “presa” da me che invece desidero solo andare via. Lontano da questa cittadina con un orizzonte limitato; solo tre chilometri, poi il blu s’infrange nel nero delle coste messinese. Mi affaccio dalla balaustra di fronte al mare. Le onde spumeggianti di un bianco smorto si muovono senza senso. E’ un ondeggiare che non porta da nessuna parte. Un rimbalzare da una costa all’altra. Io sogno una vita diversa. C’è aria di cambiamento. Mi alzo dritta e fiera. Con una mano mi lego i capelli. Presto li taglierò. Sono lunghi e non vanno bene.
A Reggio un vento non smette di soffiare interminabile quasi ogni giorno dell’anno. A novembre – oggi – è proprio freddo, anzi gelido. “Addio Gaetana”, ripenso ai piccoli momenti insieme. Ai nostri sogni di farfalle rosse.
A piccoli passi mi dirigo a casa pensierosa. Ancora pochi giorni, poi dirò addio anche a questa ridicola città.

FINE

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Altro / Mille giorni di luce 3/3
« il: Febbraio 15, 2014, 15:57:13 »
(continua da parte 2)

Mille-giorni-di-luce ha cercato e ricercato dentro la gabbia di legno. Della chiave per Chamois, nessuna traccia.
Le ragazze hanno fretta di allontanarsi. Il cavallo è percosso dalla giovane con i capelli corti mentre le altre cominciano a spingere la carrozza da dietro.
Mille-giorni-di-luce siede sul ciglio del sentiero, ma come vede bestemmiare e arrancare nel fondo della notte, si alza per spingere. Spingono per smuovere la gabbia di legno come si trova, è troppo pesante per raddrizzarla sulle ruote. Pochi passi e finirà oltre il sentiero, precipitando nel fossato.
Precisione vuole che i passi risultino tre, donna Federica vorrebbe che venissero tagliati i finimenti per liberare il cavallo. Ma no. Non c'è tempo, capelli corti colpisce i fianchi del cavallo e la carrozza precipita nel fosso. Il buio impedisce di vedere, ma dopo il fracasso di sfasciume e pochi nitriti sospesi, torna il frusciare del vento tra gli alberi. Alla luce della torcia le  galeotte guardano al sentiero dove restano i corpi nudi degli uomini, contorti sul ciglio della strada.
«Bisogna gettare di sotto anche le guardie.»
«E le vesti, pure le nostri vesti, buttiamole!»
«Scusate, mi sembrano quasi asciutte.»
Le ragazze ridacchiano, «Vorresti metterti le nostre vesti sporche di merda e di piscio?»
«In questi panni inzuppati sto morendo di freddo.»
Fanno spallucce - tanto meglio, passerà per una di noi. Donna Federica guarda sconsolata mentre Mille-giorni-di-luce, indossata la prima veste, si appresta a mettersi addosso anche la seconda. Quella che copre donna Federica è leggera e lei si stropiccia le braccia per il freddo. Mille-giorni-di-luce la guarda, si ferma e le porge la seconda veste. Lei sorride e la prende. Il gesto improbabile la fa sentire più forte e non nasconde la sua curiosità,
«Scusate, siete davvero una donna?»
Silenzio.
«Scusate, siete un uomo?»
Silenzio. Prova a cambiare domanda, «Perdonate, a Chamois potremo andare anche senza chiave o non c'è altro modo di entrare la vostra dimora?»
«Non lo so» scuote la testa «è casa di mio zio.»
«Un caro zio vi aspetta?»
«E' morto da due mesi.»
«Perdonate le mie domande insistenti…»
«Perdio, la finite di cianciare? Allontaniamoci da qui.»

Dopo pochi passi la più giovane si ferma «Stanotte resteremo al gelo se non accendiamo un fuoco.»
«La legna è tutto bagnata, perdio!»
«Quando andavo in giro con i compagni nomadi,» la ragazza si tocca la fronte indolenzita «sotto le foglie prendevano rami meno bagnati che si lasciano accendere. »

Il gruppo cammina addentrandosi in un luogo riparato, una depressione tra un gruppo di betulle.
«Domani mattina, davvero ci condurrete con voi a Chamois?»
«Sempre a parlottare voi due! Ci vogliono legni piccoli, non restate impalate, andate a raccogliere mentre scaviamo.»
Donna Federica guarda perplessa la ragazza che muove le dita sul terriccio, «Scavare?»
«Non sai accendere un fuoco?» la ragazza dalla tempia scorticata scuote la testa, sospira esibendo una certa superiorità e riprende a grattare la terra. L'altra dai capelli corti le fa luce con la torcia e insiste «Che fate ancora qui?» Di fronte alle facce perplesse, «Perdio, Alice ve l'ha detto, rami asciutti si trovano alle radici degli alberi!»
Mille-giorni-di-luce si alza seguito da donna Federica che però viene fermata dalla ragazza «Anzi no. Tu resta con a me per cercare  ceppi.»

Il primo carico di giovani rami non è sufficiente. Mille-giorni-di-luce si allontana e torna con altri piccoli rami. Finalmente si alza un fumo denso e umido.
«Il pane è soltanto per me» mostra il coltello «Ne darò un pezzo a chi decido io.»
«Che fame. Accidenti, c'è il cavallo morto!»
«E’ finito nella scarpata perdio, vai a raggiungerlo se vuoi.»
«Scusate, ho visto che c'è anche l'altro, quello schiattato sul sentiero.»
«Davvero? E noi altre come abbiamo come fatto a non vederlo?» il fuoco si sforza di rosicare il legno silenzioso «Perdio, l’abbiamo lasciato in bella mostra sul sentiero!»
«Ti è proprio necessario bestemmiare?»
«Donna Federica, grazie per correggere i miei modi indegni del Padre Eterno. Ma permettimi di ricordarti che sei anche tu un collo da forca.»
«Già» le fa eco la ragazza con il grumo rossiccio alla tempia «racconta al nostro salvatore che cosa hai fatto a tuo marito.»
«Perdonate, non sono un salvatore.»
«Scusa, preferisci salvatrice?»
«Basta!» capelli corti ha fame «adesso vado a tagliare carne fresca. Sia chiaro, la prima che mi tocca il pane, come torno e ne manca vi sgozzo tutte!»
Il fuoco continua a stentare, il fumo abbonda fuligginoso e umido.
«Santissima madre, andiamo tutte e basta.»
«E al fuoco chi bada?» fa la più giovane.
«Va bene, tu baderai al fuoco ma il pane lo tiene la nostra signora Federica, lei così decorosa e ben educata.»

Il coltello di capelli corti incide la carne dura e Mille-giorni-di-luce si fa forza con le mani per strappare il muscolo rosso. Federica tiene la borsa aperta. C’è odore di carne e di pelle. Il polpaccio di una delle gambe posteriori e poi il collo vengono scarnificati in strisce sanguinolente.
«Non vuoi dirci come ti chiami, perché?» il tono è duro ma tenta di conciliare «Io mi chiamo Eunice e la "nobildonna" che non perde occasione per richiamare alle giuste maniere si chiama donna Federica».
Silenzio. Indispettita, continua con tono canzonatorio «Ha ammazzato il marito con il veleno. Non è la santa che vorrebbe far credere.»
«Mi picchiava tutte le sere, ho perso il bambino cadendo dalle scale di casa.»
«Siamo state tre giorni chiuse là dentro, dì quante volte l'hai raccontata questa storia! La verità è un’altra, lo sai. Sciocca illusa a pensare che avrebbero bevuto la storia che tuo marito era morto per il cuore debole!»
«E tu, tu hai…»
«Non parlare di me stronza!» gli punta il coltello in faccia, poi si rivolge a Mille-giorni-di-luce «sì, anch'io sono stato poco coraggiosa. L'ho avvelenato il piccolo bastardo.»
«Era tuo fratello minore.»
«A lui andava tutto il terreno e la casa. E io dovevo farmi monaca, cristo santissimo.»
Mille-giorni-di-luce ferma le sue mani «E quella ragazza, lei che ha fatto?»
«Alice, lei viveva con il suo gruppo nomade e faceva la mentecatta di città.»
«La borsa è piena» dice sommessa donna Federica e comincia a  legare i lacci della borsa.
«Perdio, inutile che chiudi i lacci. Piuttosto dobbiamo spingere l'altro cavallo nel fosso.»

Ci provano. Rinunciano poco dopo perché è troppo pesante. Tornano dalla ragazza che gioca con un legno accanto al fuoco.
«Alice, il nostro eroe vuole sapere cosa hai fatto per meritare la forca.»
Quella si acciglia e abbassa gli occhi.
«Che fai, non parli? Sei timida come la nostra signora?»
«Mi si voleva abusare»
«Dunque sarebbe stata la prima volta che mano d'uomo ti toccava, poverina! A chi vuoi darla a bere?»

La carne infilzata su rami è dura, stopposa e più affumicata che cotta. Il pane è razionato ma tutti ne hanno un pezzo; Eunice trattiene per sé il più grosso ma ha diviso il resto temendo che, come avesse preso sonno, sarebbe finita con la gola tagliata.
«Alice, racconti la verità o devi continuare a menar balle?»
«Gli ho preso il borsello mentre se ne stava in taverna a dormire sul boccale.»
«Non dormiva veramente.»
«Accidenti, non dormiva. Perciò ho dovuto, mi bloccava il polso.»
Appare un chiarore tra le nubi e il vento rivela la luna a tre quarti.
«Falla finita e dillo che l'hai sgozzato!» Eunice strappa a morsi la carne, è più affumicata che cotta.
«No, ho soltanto provato a minacciarlo con il pugnale ma...»
«Ma cosa?»
«Chiamava le guardie senza mollare il mio polso. Per un borsello capite, un borsello che avevo già mollato e aveva a terra. Doveva solo prenderlo.»
«Però non l'ha fatto e gli hai piantato il coltello sul collo. »
«Sono scappata ma mi hanno preso.»

Eunice è soddisfatta. Non solo lei, tutte e tre assassine meritevoli della forca, «Servono altri legni» avanza con tono sfrontato «caro eroe senza nome, puoi essere così cavaliere da prenderli per noi?»
«Lasciala in pace»
«Lasciala?»
«Sì, è una donna anche lei, lo so.»
«Capisco donna Federica, pensare così di lui ti smuove il sangue nelle vene, vero?»
Nessuna risposta.
«Racconta cosa facevi con quella serva che ti eri messa in casa.»
«Eravamo soltanto amiche. Era Edoardo che pensava male. Come te.»
«Non si uccide un marito per un bel visino di serva scacciato di casa.»

Torna il silenzio nel crepitare del fuoco che ondeggia e perde forza.
 «Servono rami, perdio. Cortesemente ce li prendi?»
«Perché lei?»
«Abbiamo le braccia mezze rotte da tre giorni di catene, cristo santissimo.» poi fissa in volto Mille-giorni-di-luce «Non hai niente in contrario a farci questo favore, vero?»

Non risponde, si alza seguito da donna Federica che ha preso la torcia conficcata nel terreno. Le due ragazze restano davanti al fuoco sempre più debole che oscilla al vento.

Al piede della quercia cercano sotto le foglie. Donna Federica trova il coraggio di una domanda,
«Che ci facevi nel bosco con addosso soltanto una maglia bagnata e infangata?»
Mille-giorni-di-luce incrocia il suo sguardo al bagliore della torcia «Ci sono ferite che non passano…»
«Sì, ma da dove andavi? Perché non vuoi parlare di te? Proprio non vuoi dirmi neanche il tuo nome?»
Le parole incalzanti deformano il cerchio del contatto. Mille-giorni-di-luce sapeva che sarebbe successo. Quando parla con qualcuno, si forma un fumo denso di domande impossibili da affrontare e la solitudine gli resta addosso immutata, immobile. Decide di spingersi nello stesso cerchio ampio di domande,
«Voi dove andavate?»
«Eravamo dirette a Torre dei balivi.»
Torna il silenzio. Mille-giorni-di-luce smette di guardare il volto della donna e cerca ancora tra le foglie marce. Il cerchio delle parole non lo si può spiegare, è la scelta di due volti quando s'incontrano; c'è il cerchio ampio e rarefatto delle frasi sociali, quello interno delle rare amicizie e infine il cerchio nero che tieni nascosto e vorrebbe moltitudini di colori - pretenderebbe d'essere chiamato spirito di assoluto, un bel nome per un cerchio inutile. Impossibile condividerlo.

«Ti confesso, andavamo a morire per mano della giustizia umana.»
«Anch'io andavo a morire. » si ferma, cerca i suoi occhi,  il cerchio resiste «Non per forca altrui, ma per mia stessa mano. »
Lo dice e ci pensa un istante: sì, donna Federica sarà soltanto un’ennesima delusione. Azzarda, «Ci sono ferite che non passano, sono vermi che divorano l’illusione di vivere.»
Silenzio. Resta a spiarla in viso cercando di cogliere imbarazzo o indifferenza, mentre con le mani smuove le foglie con meno convinzione. La donna cerca il suo sguardo, «Però a volte la voglia di vivere torna »
«Sì, torna. La voglia di vita è un contagio effimero.»
«Effimero, ma spalanca il buio a volte» donna Federica accompagna le parole con un sorriso. Di fronte al sorriso di un viso pesto è difficile raccontare menzogne «Sì, a volte basta un sorriso sincero.»
La donna si sistema i capelli, ha preso coraggio e diventa audace, «Scusa l'impertinenza, sei una donna anche tu?»
«E' così importante per te?»
Le mani di Mille-giorni-di-luce rimuovono rapide le foglie bagnate «La mia voce, diresti che è di donna?»
«Non lo so, neanche di uomo però.»
«Perdonami, è vero che preferisci lo sguardo delle donne?»
Il viso di Federica diventa di porpora «Che importa, sono buona per la forca.»
Mille-giorni-di-luce non trattiene più un sorriso. Lei si sistema una ciocca di capelli luridi, e con voce sommessa insiste «Io merito di morire sulla forca.»
Mille-giorni-di-luce scuote debolmente la testa e dice di no con gli occhi. E' un attimo di risonanza tra i cerchi. Nero di notte. Un istante sfortunato perché il piede di Mille-giorni-di-luce incontra la testa triangolare, le pupille a fessura dell'animale che dorme.  I piedi sono nudi e i due denti toccano la caviglia destra - quasi la sfiorano, incidendo appena la pelle. Alla luce della torcia appaiono due forellini rossi. Il dolore diventa lancinante.

«Lo sapevi e ce l'hai mandata apposta!»
«Sei pazza?» prende un pezzo di carne con il coltello «Lo sanno tutti che sotto le foglie dormono le vipere».
La più giovane socchiude la bocca e si affretta a sedare gli animi «davvero non sapevate i rischi a cercare tra le foglie?»

Donna Federica allontana i capelli dal viso e si prepara a chinare le labbra sulla caviglia ferita.
«Prima che tu lo faccia pensaci..»
«Potresti prenderti il veleno nelle gengive, signora candida.»
«Dovresti ascoltare quello che ti dicono», Mille-giorni-di-luce non vuole dismettere i panni dell’eroe e cerca di allontanare la gamba dal volto di Federica.
«Cara signora, lo vedi quante premure ha per te anche nel momento del bisogno? Guarda sotto la sua veste e troverai un uomo.», ridacchiano. Donna Federica in risposta succhia la pelle morsicata e sputa a terra. Ha un taglietto sul labbro che si ribella subito. Succhia anche il proprio labbro gonfio e sputa ancora.

E' passata una, due ore. Il ceppo sul fuoco resiste e, tra fumo e fiammelle, nel buio del cielo sgombro di nubi si intravede giallo verde, aloni di stelle. Le due ragazze hanno preso a sonnecchiare, vorrebbero fare a turno ma non ci riescono.
«Vivrà?»
«Sì che vivrà, hai visto che è appena un graffio.»
«Di vipera, per me non campa.»
«Ma no, la nostra signora ha saputo muovere bene la bocca!» ridono ancora, poi a capelli corti viene un sospetto; copiando il tono signorile che ha dovuto sentire per tre giorni, conclude serafica «Se il nostro salvatore non morirà di polmonite, quando la signora Federica scoprirà che è un uomo, a Chamois ci sarà un altro morto di crepacuore.»
«Vuoi dire un altro..»
«Sì, un altro veleno nella tazza di porcellana del tè, stanne certa!»
Donna Federica si mostra sdegnosa e non replica; accarezza il volto di Mille-giorni-di-luce che alza la testa lentamente e insiste che bisogna tornare indietro al primo chiarore dell'alba.
«La palandrana, ce l'ho nella palandrana.»
«La chiave?»
«Sì, la chiave per Chamois.» ricambia il sorriso della donna e la sua anima sale sugli alberi.
«Possiamo fermarci a casa tua o verranno a cercarci i gendarmi?»
«Perdio, che vi mettete in testa voi due? Proseguiamo oltre confine.»
«Sì, raggiungiamo il mio gruppo, quelle come noi sono rispettate.»
« No, io penso che torno indietro.»
«Sei pazza, vuoi seguirlo fino a Chamois?»
 Mille-giorni-di-luce sussurra «C’è una casa da riscaldare, pane bruno e latte caldo.»
Le ragazze scuotono la testa, non se ne parla neppure. Per Federica le stelle cominciano a tremare. Si lascia scappare un sospiro «Dicono che a ogni morte dell'anima….»
«Basta idiozie!»
«A ogni morte» riprende senza stizza, noncurante «a ogni morte dell'anima, segue una resurrezione.»
«Sei una sciocca. Noi andiamo prima che faccia luce e ci vengano a cercare.»
«Sì, sono la solita sciocca. Lasciatemi qua.»  guarda il viso di Mille-giorni-di-luce che finalmente ha gli occhi chiusi. Si ripete le parole che gli ha sentito poco prima «Una casa, pane caldo e latte. Ed è tempo di castagne, i ricci devono essere pieni.»
Federica insiste a guardare le palpebre chiuse, «Forse a Chamois noi due possiamo vivere, deve essere così.»
Le risponde il silenzio delle stelle. Aloni di giallo e di verde nella notte.

FINE

5
Altro / Mille giorni di luce 2/3
« il: Febbraio 15, 2014, 15:56:33 »
(continua da 1)

Il carro rotola nello sterrato nel crepitio di foglie bagnate e piccoli rami. Due braccia stanche, il collo dentro il mantello, muovono la frustra sui cavalli. Sulla cassetta, accanto al primo, siede un secondo vetturino che solleva la fiaschetta di grappa per un goccio di calore. Il carro non ha predellino e non mostra alcuno stile. Non occorre eleganza per compiere il lungo tragitto fino al carcere di Torre dei balivi. Giorni di marcia interrotti all’imbrunire da una scodella di rancio e un letto in taverna. Il vento è gelido, i due uomini si stringono nei mantelli senza alzare gli occhi. Improvvisamente un chiasso del cielo illumina il carro, lo divora - gli zoccoli folgorati scalciano, il cocchiere ha mollato redini, l’altro secondino perde la fiaschetta mentre alza le braccia.
Al boato fa seguito la carrozza coricata sul fianco; due ruote girano lentamente fino a fermarsi. Un cavallo è a terra esanime, l'altro animale si rialza e tenta di liberarsi, ma i finimenti lo trattengono. Lamenti di donne dentro la carrozza si mescolano al fruscio della pioggia.
Mille-giorni-di-luce è ancora nel fango, deciso a lasciarsi morire ascoltando l'acqua che scivola tra i rami, le foglie percosse che si separano dall'albero. Le urla lamentose attraversano cento passi di vento. Voci di giovani donne, un pianto che morde la gola. Nella valle il nero ha inghiottito ogni luce. Non c’è nessuna stella, nessuna luna.
Mille-giorni-di-luce si alza dal fango, tasta l'aria con le dita gelate in cerca di tronchi che facciano da guida. Piove ancora debolmente. Segue i lamenti che si fanno più vicini. Improvvisamente una luce fioca, il fulmine ha strappato la torcia dal suo alveo sul fianco del carro ed è rovinata sul sentiero. Tremante si avvicina e la raccoglie; come la solleva, un pallore raggiunge l'interno del legno e i lamenti diventano più forti. La carrozza è una bara senza laccatura interrotta da una piccola finestra. Si avvicina di più. Il cavallo teme la fiamma prossima, s'impenna e strattona i finimenti ma le ruote pendono inutili; il legno pesante si muove appena nel fango.
«Aiutateci, non vogliamo morire», accosta la luce davanti l'angusta finestra con denti dritti di ruggine. Una mano bianca si appende «Vi prego signore, aiutateci». Mille-giorni-di-luce indietreggia, tentenna nell'indecisione - sono suppliche sventurate. Si avvicina al portello della carrozza, è chiuso con un robusto catenaccio; si rende conto che manca qualcuno.
Davanti alla gabbia di legno trova i due secondini del carcere. Uno è riverso rigido sulla schiena, l'altro è piegato come un ferro di cavallo, riverso su un fianco e con la bocca aperta. La torcia illumina i volti assenti. Le donne nel carro non smettono di chiedere aiuto. Con mani tremanti cerca tra le bisacce appese ai fianchi dei due cadaveri. Soltanto pochi sesterzi. «Avevano una borsa» strillano da dentro il legno. La torcia illumina il ciglio della strada. Accanto a un masso aguzzo, si allunga un'ombra diversa. La borsa. Non sente più le dita, usa le nocche per aprire le cinghie forate; all’interno c’è una forma di pane quasi intera, un pezzo di formaggio avvolto nella carta, un coltello, un acciarino e un grande anello di ferro con una dozzina di chiavi.
Si avvicina al portello e, una dopo l'altra prova, a inserire ogni chiave nel foro.
«Ti prego, facci uscire!», non cambiano le parole ma il tono del lamento tradisce speranza e impazienza.
Finalmente apre. L'odore di escrementi e urina arriva rabbioso. Durante il lungo trasporto fino a Torre dei balivi, ogni galeotta è stata assicurata a una parete del gabbiotto con una catena al polso. Quando il carro si è ribaltato, quel legno sarebbe potuto diventare soffitto e impiccare le braccia; invece le braccia delle donne hanno seguito il destino del legno sul fondo, lo stesso sul quale colano i liquidi corporali dalla parete di fronte - il pavimento latrina dei tre giorni di viaggio.
Gli anelli delle catene sferragliano per l'impazienza. Occhi pesti, la luce della fiamma tremola su vesti bianche luride di feci. Qualcuno deve aver vomitato durante il tragitto, la fiamma fugge dalla bile schiumosa che raggiunge i piedi nudi. Mille-giorni-di-luce inorridisce ma con imbarazzo un po’ stupito si accorge dell'emozione di salvare. Accosta le chiavi ai polsi della ragazza più vicina, tra le proteste di una delle due prigioniere «prima me, prima me!».
Le dita incespicano, la serratura scatta. Il polso liberato è spellato; la ragazza ha il volto pallido, fatica a ripiegare il braccio sul fianco. Ha occhi che sembrano lontani e un rivolo di rosso le insiste sulla tempia. Le altre due continuano a sferragliare le catene. Quella che batte più forte ottiene la precedenza. E' una donna giovane con capelli crespi e corti come un uomo, lo sguardo duro. Disperato.
Il cavallo legato ai finimenti insiste nervoso, improvvisamente scalcia e dà uno strattone alla gabbia. Tutte la gambe raggiungono i piedi sul fondo di legno.
«Via da qua», la giovane con i capelli rasi prende la torcia caduta e si precipita verso il portello spalancato; la seconda ragazza si sfiora la fronte con le dita, poi non perde tempo – vesti come ali luride corrono fuori dalla gabbia.
«Ti prego, non lasciarmi qui.» senza più torcia, Mille-giorni-di-luce si muove a tentoni nel nero. Tocca un chiavistello bagnato di umori e un polso umido stretto dal ferro. Cerca il foro del chiavistello con una mano mentre con l'altra tiene le chiavi. Il fetore senza luce sembra più angosciante. Una mano tocca lieve le sue spalle e singhiozza «Grazie».
L'oscurità rende impossibile uscire dalla gabbia restando in piedi, i due corpi avanzano carponi seguendo il profilo di una parete. Pestano escrementi e sentono l’urina tra le dita.
Finalmente l'aria del bosco. Gelida. Mille-giorni-di-luce si trascina pochi passi oltre il giaciglio, si ferma e rimette di stomaco. L'ultima galeotta liberata si mantiene poco distante e con la destra si massaggia il braccio lungamente incatenato. A pochi passi da loro, le due detenute più giovani hanno trovato la borsa rimasta nel fango.
«Danne anche a me…»
«Cristo santissimo se ti avvicini ti levo gli occhi!» e brandisce il coltello tenendo la torcia con l'altra mano. La ragazza disarmata si tocca la tempia insanguinata «Lo sai bene che solo io conosco la strada. Un pezzo, dammene soltanto un pezzo».
La forma di pane è sufficiente per sfamare entrambi e capelli corti strascica una promessa «quando arriviamo da qualche parte, te ne sarai meritato un poco». Alla luce della fiamma tremante intravedono i cadaveri delle due guardie. «Cerchiamo nelle bisacce», la più giovane ha le mani  libere e si getta sui corpi folgorati. «Cristo santissimo che freddo!», raccolgono i mantelli dei secondini, ma dopo un istante tornano indietro. I corpi non sono ancora rigidi. Le due ragazze insieme, a fatica tirano, ribaltano le braccia dei cadaveri e liberano tutti gli indumenti che hanno indosso. Calzoni, casacca e scarponi. Finalmente non avranno più  piedi nudi a gelare.
I vestiti da uomo risultano troppo larghi per i loro fianchi; trattengono i calzoni con le mani mentre tentano di stringerli con la corda delle bisacce.
«Meglio di una veste sporca di piscio e di merda!»
«Quello che mi importa di più è che le vesti bianche ci possono far riconoscere. Anche da lontano. Perché puoi giurarci, verranno a cercarci perdio!»
La più giovane fa un cenno di assenso alla fiamma, poi domanda a voce bassa se non sia il caso di avvicinarsi a donna Federica che è rimasta dietro. La sentono bisbigliare dietro il carro.
 «Non credevo che sarei mai arrivata a degradarmi così.»
Mille-giorni-di-luce è seduto sul sentiero, si  massaggia le braccia intirizzite e contorce i piedi cercando calore.
«Che umiliazione, potreste signore considerare di completare la vostra misericordiosa azione ospitandoci nella vostra dimora, solo per questa notte?»
Silenzio.
«Non pretenderei di arrecarvi disturbo oltre l'aurora. Alla luce del giorno andrei via. Fuggirei, perché questo che mi aspetta.»
 Silenzio. La donna sente il gelo più forte «Mi accontenterei di un fienile», la voce le si incrina.
«Che fai, cominci a piangere?» la fiamma della torcia illumina le lacrime e la ragazza dai capelli corti, come a proteggersi dalla tristezza, continua «Donna Federica, dovevi pensarci prima di inguaiarti». Non attende risposta, si pone dritta di fronte a Mille-giorni-di-luce che siede a terra con indosso la maglia bagnata,
«E tu che farai, andrai a denunciarci?»
Silenzio. Il capo resta chino e morde le labbra per non far vedere quanto tremano di freddo.
«Dicci il tuo nome!»
Alza appena le spalle, poi cinge il proprio corpo con le braccia. Sente di svenire per il freddo. Il suo nome è come se non esistesse. La torcia si approssima al suo viso, «Cristo santo, hai perso la lingua?». Silenzio. Finalmente solleva la testa «Ho una casa a Chamois» e con mani tremanti cerca nella tasca della veste «Ma no. Non ho più la chiave.»
«Non hai un altro modo per entrare?»
«Forse c'è un modo, al buio però, non so arrivare…»
«Stai mentendo!»
«Io conosco le strade di queste parti» la ragazza si tocca il grumo rossiccio alla tempia «Sì, so come arrivare proprio a Chamois.»
«Come è fatta la tua casa?»
«Non lo so, è vent'anni che manco da Chamois.»
«Puoi portarci dove vivi o c'è qualcuno che s’impiccia?»
«Vivo da solo. O da sola, scegliete voi. Ma è lontano da qui, abito a Milano.»
Le donne si guardano tra loro. La torcia resta fissa davanti al volto di Mille-giorni-di-luce. Lineamenti non più giovani e poco piacenti che puoi attribuire tanto a un uomo quanto a una donna. Un viso che non assiste nel capire il sesso del proprietario. E anche il petto, pressoché piatto, non garantisce niente.
«Da dove sei partito, o partita?»
«Credo di capire, se volete vi porto alla locanda a Buisson dove stavo oggi.»
«No, nessuna locanda è per noi.»
Si rende conto di chi ha di fronte. Avrebbe dovuto capirlo subito: sono galeotte, donne che hanno perso le loro vite di figlie mogli fidanzate sguattere madri ladre. Assassine forse. Ci pensa e i suoi occhi tradiscono consapevolezza nuda, una dama impietosa che quando si avvicina si nutre della speranza bambina. Le donne leggono nel suo viso «Andrai a denunciarci?» il tono è appena minaccioso.
«Non ne so niente di giustizia» scuote la testa debolmente «non andrò da nessuna parte.»
Interviene donna Federica «Forse la chiave ti è caduta quando il cavallo ha scalciato e siamo cadute tutte dentro».  Il suo viso è pallido, incorniciato da lunghi capelli corvini, una chioma che un tempo fu ben curata da spazzola d'osso e di madreperla.
«Dobbiamo gettare la carrozza nel fossato,» la ragazza dalla tempia macchiata sembra ricordare un passato doloroso «se resta sul sentiero, ci scoprono come niente!»
«Già, niente più ci impedirà la forca.»
«Forse è meglio tenere il cavallo.»
«E come lo spostiamo il carro senza il cavallo a tirare?»

(continua)

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Altro / Mille giorni di luce 1/3
« il: Febbraio 15, 2014, 15:55:11 »
L'acqua viene fuori in un getto bianco. Colpisce il fondo della tazza, si spezza e comincia a correre in un cerchio di freddo. Guardo le mie mani. Posso fermare l'acqua, ma soltanto per poco. Passo le dita sul mio viso imbolsito; all'oltraggio degli anni ho aggiunto eccesso di pane, di vino e di carne. Fuggo dai miei occhi allo specchio; non sopporto la vista del mio corpo. Ecco, non posso fermarmi oggi. Mi avvicino alla finestra che si apre sul ventre delle montagne interrotte dal Cervino - spigolo blu lattiginoso e fumo di nuvole. Abbasso lo sguardo. C'è una zolla di terra divisa e spezzata; al di sotto della mia finestra germoglia una moltitudine di foglioline rotonde dal corpo verde con riflessi d'argento. Poco distante, il colore della zolla è dato da spighe dorate. Verde e giallo, vita e morte, sono divise da un serpente senza terra. Quel giorno non dovevo. Quel giorno non dovevo aprire gli occhi. Sono trascorsi novecentonovantanove giorni, mi resta un giorno di luce.
Infilo gli scarponi e strozzo i lacci negli occhielli. Alzo un piede, galleggia ancora nella forma troppo grande. Stringo più forte i lacci; risulta inutile. Prendo dall'armadio il giaccone di pelle scura. Il cielo è quasi di piombo ma non importa: andare per sentieri in compagnia della pioggia non mi preoccupa. Tutt'altro. Immagino la faccia del locandiere quando arriverò; entrerò dalla porta lasciando una scia di acqua e di fango ai miei piedi. Mi sembra di vedere i suoi occhi di fastidio e di imbarazzo. Il fastidio altrui mi tormenta. L'imbarazzo altrui mi tormenta. Il nugolo di pensieri che ho dentro mi tormenta. E' destinato a finire, domani è il giorno mille. Per me, fine della luce.
Avanzo per il sentiero con passi sicuri; l'erba che calpesto è bagnata. Questa notte ha piovuto e presto verrà altra pioggia, devo affrettarmi. Mi attendono due ore di cammino. Voglio arrivare a Buisson prima che faccia buio. Ripartirò dalla locanda la mattina, voglio entrare nella casa del carissimo defunto zio Alfred, una dimora in pietra nel minuscolo abitato di Chamois. Stringo il catenaccio nella tasca del giaccone. Quando il notaio me lo consegnò dopo aver letto il testamento, non riuscivo a crederci. Carissimo zio, mi ricordo appena il tuo viso morso dal tempo. Insulsi vantaggi della maturità: non ho più l’istintiva repulsione di quando ero giovane per i volti invecchiati; mi avvicino inesorabile alle rughe e ho già un doppio mento che cresce - ancora non mi sembra possibile che la mia pelle del viso ceda inesorabile.
Spero che in paese nessuno mi fermerà per domandarmi chi io sia e perché ho il catenaccio di casa tua. Non ho bisogno di domande, non più. Il vento gioca con i miei capelli, curve sottili diventate deboli. La mia volontà non deve essere debole a un giorno di cammino dai tetti acuti di Chamois. Ho un ricordo vago del paese, mi torna in mente una cesta di ricci di castagna sulla credenza, chiusi che pungevano le dita - avrò avuto tre anni quando i miei genitori lasciarono il paese. Casa tua, carissimo defunto zio, è il luogo perfetto. La mia anima deve tornare libera. Mille giorni, poco meno di tre anni. Ho atteso tanto per morire. Finalmente tornerò pietra degli abissi, pozzanghera di cielo, luce pallida. Vivere per me è morire.
 Ecco, le nuvole si abbassano inesorabili. Il piombo del cielo è una coperta. Il vento gelido continua a giocare, le foglie di betulla tremano, liberano luce mentre ondeggiano e l'albero si scuote. Una foglia rossa giunge fino a me. La raccolgo. Il palmo delle mie mani si colora di rosso. Non mi sorprende che foglie con tinte che irridono alla vita finiscano morte a terra. Presto tra le mie mani ci sarà un rosso diverso, così penso e avverto la pioggia. In un istante mi accorgo che ho mollato la foglia rossa per stringermi nel giaccone. Che idiozia. Dopo quasi mille giorni di attesa è un gesto senza senso. Apro il giaccone per lasciare che la pioggia mi raggiunga sul petto e sul ventre. Pochi passi e mi prende la smania di liberarmi del giaccone. Lo getto a coprire le foglie cadute.
Proseguo lungo il sentiero e la maglia che indosso a ogni passo diventa più zuppa. Le nuvole non si curano di me. Danzano radici di luce. Accendono il nero. Un istante. Sento picchiare le gocce ai miei piedi, il terreno comincia a farsi liquido. Dovrei sbrigarmi nel cammino per Buisson ma le mie gambe, le mie gambe faticano a obbedire. La salita si è fatta ripida e non ci sono più tronchi di betulla per le mie mani. Tremo e batto i denti. Ecco, scivolo. Cado. Come un'ombra gelida arriva la paura. La sento addosso senza capirla. La mia volontà di chiudere la vita  è messa sotto assedio. C'è fango, fango sul mio corpo e intorno a me. Se finisse il temporale e un arco di colori congiungesse il cielo e la terra, temo che tra le mie dita tornerebbe il contagio di vivere.

(continua)

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Sentimentale / Il binario
« il: Febbraio 08, 2014, 13:12:10 »
La storia racconta:
Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le "nozze rusticane" e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall'accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare - attraverso false testimonianze - di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo.


Cerco di sentire la sua voce, un sussurro al suo Agostino. Come una missiva nel baule.


Il binario correva e noi due sulla chiatta a guardare il mondo che spariva. Il cielo, sembrava che il cielo ti avesse mandato a me. Caro Agostino, hai braccia possenti e la mascella volitiva come piace a me. Gli occhi profondi come due perle, belli come il mare. E tu non hai mai mostrato paura. Di nessuno. Tanto meno di quei piemontesi scesi per comandare le nostre terre, per questo in paese hai avuto tutti contro. Soprattutto mio padre. Naturalmente non parlo di me, cielo quando mi baciavi a me venivano i brividi e credevo di morire. Non pensare male di me. Ricordi la notte della fuita insieme? Ti ho seguita e sarebbe stato un bel vivere insieme. E quel farabutto di  Carmelo Positano, soldi maledetti ti dicevo io ma poi gli portavo da mangiare e pulivo la grotta dove lo tenevi. Lo facevo per te. Lo sai, mi faceva impressione vederlo smagrito in catene e provavo schifo da morire per i suoi escrementi. Bacili da vuotare per farlo respirare. Lo facevo per te, Agostino. E tu, come mi vedevi  di malo umore, mi sollevavi il mento per baciarmi. “Ci ha soldi da vergogna quell’aguzzino”, mi spiegavi e aggiungevi che Positano si faceva cucire i soldi dentro al cuscino. Ti giuro tesoro che è stato mio padre. Io mi sarei lasciata incarcerare fino a marcire tutti gli anni che mi davano ma lui ha pagato i testimoni. Tutti bugiardi a dire che mi avevi preso con la forza. Al processo io piangevo, l’hanno visto tutti che piangevo, anche il giudice. Lacrime non per le cose brutte che hanno detto su di te ma perché… Lo sai. Adesso dove sei finito? In quale antro del Pollino ti stanno danno la caccia? Mio padre dice che se ti incontra ti ammazza. E’ un cretino che non capisce niente, lui è un lecchino lesto a levarsi il capello davanti al Farmacista e all’Avvocato. Hai ragione tu, noi siamo chiamati alla libertà e la nostra Regina Maria Sofia tornerà. Adoro quando mi racconti che il Regno tornerà e che i regnanti hanno capito la lezione, ci sarà la costituzione e un regno delle due sicilie come quello Inglese. A me gira la testa quando mi parli così e vorrei soltanto che le tue mani fossero qui con me. Mi manca il tuo modo di guardarmi. Di sorridermi e di prendermi. Accanto a te, io smetto di essere la timida Maria, mi sento un’altra. Forte e senza vergogna. Un giorno o l’altro, te lo giuro amore mio, il coraggio me lo faccio venire, imbraco l’archibugio di mio padre e ti vengo a cercare sul Pollino. Mio fratello  si tenga pure la  promessa di trovarmi marito. Agostino, solo tu accendi il mio sole. Torneremo a correre sulla chiatta sul binario di Reggio, veloci da fare invidia al vento. Ci riusciremo ancora, vero amore?

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Altro / Soltanto il freddo
« il: Febbraio 06, 2014, 21:13:36 »


Tornerà l'aria di primavera. Rivedrò le dita bianche delle margherite attorno al loro cuore dorato, la passione delicata dei papaveri, le tenere campanule dal cappuccio bianco e il gambo sottile.
Una moltitudine di colori bacerà ancora i miei occhi. Dolci profumi inebrieranno la mia bocca nelle giornate divenute lunghe e tiepide. Attenderò il tempo effimero che precede l'imbrunire, quando il cielo è diviso tra porpora e orizzonte è già tinto di blu; mi concederò un istante di gioia prima dei canti della notte - la foresta ne sarà piena.
Quel tempo, oggi mi appare lontano. Non avrei dovuto farlo, mi sono posata su di lei e poi ci sono rimasta.

- Che fai? Non c’è tempo, non c’è tempo!

Mi giungono le voci di chi ha scelto correttamente; posarsi va bene, ma solo per due minuti - giusto il tempo di riposare le tue ali, poi devi riprendere il cammino. Guardo il colore purpureo di questa pianta d’acero, le foglie tremolanti alla brezza di ottobre. Non ho voglia di andare da nessuna parte. Guardo le mie compagne che si muovono attorno e faccio appello a ciò che sono - io come loro. Altro che farfalle, noi siamo Monarche: non ci limitiamo a farci guidare dal vento a spasso tra i fiori, nell’effimera attesa della fine; preferiamo attraversare l’oceano - sotto le ali, solo nero. C’è una meta da raggiungere.
E’ sempre questione di meta. Solo mezz’ora fa, ero in sala riunioni. Giacca e pantaloni neri attillati, sotto i miei capelli cortissimi un pensiero: prima del lancio del prodotto, chi avrebbe condotto un’analisi dei rischi di compliance? Quell’analisi doveva essere affidata a me; sarebbe stata un trampolino di lancio. Glielo dimostravo io che l’idea di quel prodotto era una cazzata così come era stata formulata. L'avrei sbattuto in faccia al Consiglio nel mio rapporto. Nessuno mi avrebbe negato più la giusta autorevolezza al prossimo comitato prodotti. Insomma, non è difficile vivere se tieni in testa la tua meta.
Adesso non so che mi prende. Dovrei solo battere le mie stupide ali viola. Il corpo da farfalla è leggero, bastano davvero pochi colpi d'ala. Non so cosa mi succede. La stessa follia venti minuti fa mi ha fatto alzare dalla sala riunione. Avrei potuto intervenire e dissertare con sicumera. Invece mi sono alzata, ho chiesto scusa e sono andata via. Dapprima pensavo bastasse una sigaretta all’ingresso - una boccata di fumo e l’aria pungente di questo ottobre così freddo.
Cazzo, non è andata così. Da farfalla doveva essere anche più facile. E invece sono bloccata. Le foglie imbrunite e purpuree dell’acero non smettano di muoversi al vento. Resto appesa al tronco e mi vedo già bella che morta. Magari trafitta da uno spillone a completare la collezione di qualcuno. Cazzo, dovrei muovermi, volare via.
I tre motori che spingono la volontà li conosco bene: usare l’intelligenza, essere curiose e succhiare energia positiva da ogni dove. Con la mia bocca non ho mai avuto problemi a procurarmi sempre quello che mi serviva. Oggi però è diverso. Tiro fuori la lingua scura. Lunghissima, come ogni spirotromba che si rispetti. Non trovo niente da succhiare su questo acero senza memoria. Solo un fottuto freddo che mi soffia addosso. Ogni istante che passa, dimentico chi sono. Mi vedo già come una serie di orme stanche disperse tra la neve. Giaccone pesante. Un’altra maledetta fuga nel non senso. Un assurdo bisogno di chiudere la porta alle spalle. Senza nessuna meta. Come potrei averla? Lui ha cominciato a urlare un’altra volta. A rinfacciare che gli ho rovinato la vita. Solo perché abbiamo fatto un figlio insieme. Gli ho dato il nome Nicola, quello di suo padre. Non è servito a niente. Nicola adesso è un continuo farsi trascinare per mano; ha sei anni, non la smette di piagnucolare.

- Mamma, dove andiamo?

Che ne so! Ti importa davvero? Così vorrei dirgli ma mi mordo il labbro e cerco di sorridergli guardandolo con occhi freddi per cercare la sua ubbidienza. Devo convincerlo ad andare avanti in fretta. Prima che il pallido sole vada giù e il freddo torni eccessivo. Prima che all’imbrunire torni lui. Se mi vede fuori in strada, cercherà di picchiarmi ancora.
Tra la neve candida, vedo già la serpentina nera della strada. Qualcuno passerà. Sì, chiederò un passaggio fino in paese. Vado alla stazione, prendo un treno e torno dai miei. Chissà che faccia faranno quando mi vedranno. Mio padre andrà giù con i rimbrotti – te l’avevo detto! – e mia madre vorrà vedermi l’occhio nero alla luce chiara della lampada dell’ingresso. Ecco, non ho paura di affrontarli dopo sei anni di vita con lui.

– Mamma, ho freddo.

Faccio spallucce, sospiro e cerco di fargli coraggio. Sento freddo anch’io. La mia vita è un continuo fuggire. Sei anni fa dalla casa dei miei e dalle loro idee piccole. Oggi da lui.
Finalmente arriviamo all’angolo della strada. Il freddo comincio a sentirlo anch’io. Faccio sedere Nicola su una lastra di pietra, di quelle che indicano le distanze. Venti chilometri per il paese, troppi da fare a piedi.
Nicola non smette di battere i denti, nonostante la doppia maglia di lana e il cappotto con cappuccio spesso di pelo sintetico - una cortesia di Anna della tintoria, a suo figlio non va più.
Non potevo mettere le mani nelle tasche perché con una tenevo la valigia e con l'altra la mano di Nicola. Adesso non le sento quasi più. Mi guardo attorno. A terra c'è una pagina di giornale. Cronaca di provincia. Una tale, Vittoria Fabris ha attraversato la strada proprio quando passava un’auto. L’autista vuol far credere che sia stato un suicida. Testimoni gli darebbero ragione. Lei era un’impiegata di successo, non avrebbe senso. Getto il giornale a terra e abbraccio Nicola. E’ passata un’auto ma l’uomo non si è fermato. Avrebbe dovuto capirlo che sono nei pasticci, da sola con un bambino in mezzo al freddo. Non smette di nevicare. Sono stata incosciente ad andare via di casa. Però, se torno indietro e arrivo con lui già a casa, come mi vede urla – Greta, sei una stronza! – e comincia a pestarmi. Resto ferma al ciglio della strada. Qualcuno passerà e la prossima volta agito le braccia, lo faccio capire meglio che ho bisogno di un passaggio.

- Mamma, posso prenderla?

Nicola ha smosso con i piedi la neve alla base della pietra.

- E’ solo uno schifoso insetto.
- Dai Mamma, è una farfalla, posso tenerla?

Ali viola senza vita.

- E’ morta, vero?
- E’ il freddo, tesoro. Soltanto il freddo.

Mi guardo attorno sconsolata. Per una volta, non ho detto nessuna bugia pietosa a mio figlio.

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Altro / Le forme dell'anima e il segreto dell'amore
« il: Gennaio 26, 2014, 10:09:48 »


Non è tempo adesso di spiegare le forme dell’anima. E neanche di spiegare il mio segreto sull’amore. La donna bionda con i tacchi rossi deve capire che non è tempo. E poi. Io l’amore non so cosa sia. Io vivo quando nessuno mi guarda. Sto in un posto vuoto tutto mio dove nessuno arriva. Arrivano soltanto le voci di là fuori che mi arrivano nervose agitate - quasi sempre, quasi sempre - e io vorrei invece una carezza tra i capelli e un bacio sugli occhi. Un bacio sugli occhi, potrei morire a sentire la mia lacrima morire consolata. Sarei pronto a morire e invece mi tocca correre. Corri cadi ti rialzi ei corri ancora tra i vicoli di questa città bianca - c’è gente che mi ferma e mi chiede dove vado, come fosse affare loro. Mi fermo davanti a un semaforo che mostra un unico colore con un numero che sale e che scende.  Stupido. E questi ridicoli uomini candidi ciondolano la testa e domandano insistenti chi sono e dove vado. Non rispondo, chino la testa e non aspetto il semaforo, riprendo a correre per un’altra via. Le vie tutte bianche di questa città io le conosco. Devo stare attento però: finisce come l’altra volta che mi hanno sussurrato parole dolci e poi - a tradimento - mi hanno pizzicato il braccio. Non mi fido più di nessuno, quasi neppure della donna bionda con i tacchi rossi. Sento il suono dei suoi passi sul marmo bianco. Mi guarda sorridendo e mi parla. Sì, adesso mi parla.

- Non mi deludere, Alfredo.

Io ci penso un attimo e mi viene una commozione che non trattengo. Perché lei è la mia sorellina vestita di bianco e io sogno sempre che lei mi prenda la mano e mi dica che accarezzerà i miei capelli e mi bacerà gli occhi. E vorrei prometterle che torneranno i colori del mondo a riempire questo bianco attonito. Mi stropiccio gli occhi umidi mentre lei si avvicina lentamente,  come se avesse paura.

- Io non ci torno lì dentro - piagnucolo e con gli occhi indico la cappella dove portano quelli che legano e pizzicano.
- Voglio soltanto che mi racconti i tuoi sogni. - mi sorride gentile - Le forme dell’anima, vuoi parlarmi di questo?

La guardo bene e stringo gli occhi. Non ci credo che vuole sapere delle forme dell’anima. Trattengo il mio labbro inferiore con i denti, sennò riprende a balbettare. Non vorrei ma il gelo di acqua scivola sulla mia spina dorsale e discende sulle braccia. Con la coda dell’occhio mi accordo che stanno arrivando gli uomini che pizzicano - lo vedo che tengono in mano la siringa - ma adesso proprio no, vi prego. Proprio no perché i palmi delle mie mani si sono aperti. Ho i cerchi piccoli nel palmo delle mani e il canto nella testa. C’è soltanto da piangere di gioia di tristezza e non mi viene più di scappare. Quando stasera la dottoressa sorellina mi ha sorriso e ha chiuso gli occhi, era logico che dovevo andare via. Mica la lasciavo in balia della città bianca. Sarei tornato a prenderla con un mazzo di fiori e una macchina lucida, si capisce. E invece lei ha rovinato tutto mettendosi a strillare. Ho corso per la città ma lei mi ha trovato e sono arrivati gli uomini che pizzicano con la siringa piena di blu. Dicono che così mi calmo e mi rilasso. E io lo so che poi non ricordo più niente e invece c’è il canto delle forme dell’anima che io preferire tenere per me, però lo so che deve arrivare a tutti. Scuoto dunque la testa disperato, mi dibatto cercando di liberarmi dalla loro stretta. Infine stremato mi arrendo.

- Anima a ombrello, imbuto rovesciato, scatola di Psiche, due ruote congiunte, almeno questi nomi - dico con voce calma così si calmano - questi nomi di forme d’anima aggiungili al nostro atlante delle anime.
I due uomini guardano perplessi la sorellina dottoressa e lei mostra l’atlante dicendo che è la scheda di anamnesi del paziente. Si capisce, anche lei deve fingere nella città bianca. Qui non ci sono poesie ma rapporti diagnostici, qui non c’è l’asfalto nero che corre come un serpente tra le case ma questi marciapiedi lucidi di visi sconvolti. C’è chi galleggia in un mondo tutto suo, e resta ore alle finestre a guardare i piccioni dritti sul filo. Marta dai pochi fili di capelli dice che nel collo dei piccioni vede l’arcobaleno. “Ma che stai a dire vecchia! Quelli so’ topi con le ali grigi e sporchi.” Luigi stasera all’ora di comunità le ha sputato addosso così. Lui è un farabutto e io ho alzato gli occhi, mi sono avvicinato e gli ho preso il suo colletto tra le mani deciso che rischiavo le bastonate e la pizzicatura. Perché Marta ha la forma d’anima a ombrello. Per questo la tengono qui e lei non ha colpa se la forma d’anima a ombrello ti fa vedere l’arcobaleno anche in un piccione. E non mi credevo che la sorellina dottoressa bionda con i tacchi rossi, mentre lo facevo guardasse dalla porta della piazza che dicono salone. Si è avvicinata e mi ha convinto a seguirla a casa sua. Una stanza bianca ma al muro c’è una donna con la schiena ad arco che guarda le nuvole. La tiene appesa alle parete bianca. Io ho spiegato mordendo il labbro inferiore e lei mi conosce già. Però stavolta non mi stava a sentire, diceva con voce cattiva che mi faceva pizzicare se sfioravo ancora Luigi o qualsiasi altro paziente. Io non sapevo che rispondere, se dicevo di sì avrei tradito Marta e tutti gli arcobaleni. La forma d’anima a ombrello si merita di meglio, così ho alzato le braccia rivolgendo i palmi al cielo bianco. Ho chiesto aiuto all’acqua del cielo. Ero sicuro che sarebbero arrivate la parole giuste, come  quando ho spiegato alla dottoressa bionda con i tacchi che sapevo perché aveva le occhiaie. E’ successo non mi ricordo quando è successo. Quella volta lei aveva preso appunti, le piaceva che io le spiegassi il mio segreto sull’amore: il grande dilemma dell’amore è che ognuno uccide una parte di sé e poi corre a cercarla in qualcun altro. Come l’avesse dimenticata in giro. E se uccidi la donna dentro di te, poi la cerchi in giro dolce tenera sensuale come quella che avevi dentro. E se uccidi l’uomo dentro,  lo cerchi in giro coraggioso lucido e tenace come quello che avevi dentro. E ovviamente non lo hai perso da nessuna parte ma è soltanto un cadavere dimenticato dentro di te. E per questo la forma d’anima si deforma in tutti: perde la forma ad ombrello e diventa una delle forme inferiori; a volte  - orrore- la forma a imbuto rovesciato. Cioè la forma di quando sei pazzo come Luigi e non vedi per niente l’arcobaleno sul collo dei piccioni dritti sul filo che sostiene i due palazzi. Ecco, quando ho spiegato il segreto dell’amore alla sorellina Dottoressa bionda con i tacchi rossi, lei ha chiuso gli occhi per un momento. Non ha chiamato per farmi pizzicare. Io allora ho capito che lei sperava che io facessi qualcosa di concreto. In quel momento ho capito: non basta parlare di uomo e donna dentro, di arcobaleni e forme dell’anima, occorre anche agire e riconquistare la libertà. Pe me, per la sorellina Dottoressa e per Marta che ha pochi capelli bianchi. Io voglio bene a Marta. Anche alla sorellina Dottoressa bionda con i tacchi rossi. Ma adesso cosa fa? Sbuffa e non scrive nessuna forma dell’anima che le ho detto. Dice che va a fumare fuori. Io guardo le sue spalle allontanarsi e i miei occhi giocano a fare il mare. Non mi dibatto e loro non perdono più tempo, pizzicano. Tra un istante non ricorderò più niente, come al solito. Forse, meglio così. Però una carezza tra i capelli e un bacio sugli occhi, l’anima mia piange.

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Fantastico / Cento anni - raccontino
« il: Ottobre 19, 2013, 11:17:34 »
Cento anni


La fiaba racconta che arrivò il principe azzurro e la baciò, lei si risvegliò e visssero insieme felici e contenti. Che storia toccante, sono commossa. Volete sapere come andò realmente?
Il principe azzurro sfiorò le labbra della bella addormentata, forse. Lei comunque non si svegliò e lui chiese da quanto tempo la fanciulla fosse rigida come morta. Gli dissero tre giorni e lui odorò il corpo che profumava di passiflora e mandorla.  Fiutato l'affare, il principe portò con sè la bella addormentata a bordo di un carro regale. Giunto nella sua fortezza, la fece distendere nel guanciale di velluto viola di un  baldacchino, allestito nella sala più ampia del castello, e ordinò che fossero preparate audio-guide e opuscoli; non mancò di predisporre casse automatiche per l'ingresso dei visitatori.
I messi reali furono inviati nel reame e in quelli confinanti e il bando fu promulgato a gran voce: bellissima principessa di sangue blu, morta da tempo immemore eppure miracolosamente indecomposta e dalla pelle rosa e profumata; solo cinque scellini per la visita, inclusa l'audio-guida della sua tristissima storia.
Ci furono cento anni di guadagni, non soltanto per il principe e i suoi eredi, ma anche per l'indotto derivante dalla vendita di souvenir (bamboline, fusi, castelli, labbra di plastica e altro ancora). Nell'epoca di social network e smartphone, il business continuava fiorente. Un giorno però, accadde. Vedendola rosa e bellissima, una giovane approfittò della distrazione delle guardie e si chinò sul letto a baldacchino. L'antifurto suonò rabbioso, in un attimo l'impertinente ragazza venne gettata a terra dagli uomini in divisa, ma risultò troppo tardi: la bella addormentata aprì gli occhi e si stiracchiò sbadigliando; cercò con gli occhi il principe e, vedendo le guardie a terra, comandò che lasciassero libero il suo eroe. Scoprì in un istante il viso birichino della fanciulla tra le lentiggini rosse - l'intrepida sorrise colpevole e disse di chiamarsi Aurora. La principessa sospirò delusa e chiese specchio e spazzola; cominciò a pettinare la sua lunga chioma e ben presto inorridì perchè in cento secondi la sua età divenne pari agli anni passati nel sonno mortale - i suoi capelli Tiziano persero la bella tinta assumendo il colore della neve; il viso le divenne imbolsito, pieno di rughe e macchie.  Cento anni.
<<È tutta colpa tua!>> la bella addormentata rimproverò Aurora ammanettata dalle guardie <<Perché mi hai baciata?>>
<<Scusa, eri bellissima...>>
<<Mi hai svegliata e.., tu non sei un principe e io, adesso, sono tanto vecchia.>>
Nascose il volto rugoso tra le braccia secche e sembrava inconsolabile. Prima che la conducessero dal giudice, Aurora tentò di consolarla:
<<Hai sognato costantemente, so che è andata così. Hai cento anni di sogni da raccontare.>>
<<Svegliata oggi per raccontare sogni?>> si lamentò la vecchia principessa <<che tristezza!>>

Il giorno dopo, con l'aiuto di un bastone, la bella addormentata uscì dal castello, ottenne il codice fiscale, la tessera sanitaria, la carta d'identità, e con il beneplacito della commissione medica e dei beni culturali, ottenne la libera cittadinanza e fu accompagnata all'ospizio comunale. Fu accolta con gentilezza e sorrisi di circostanza, tuttavia era infelice come una rondine senza primavera. Ben presto cominciò a contare i giorni che la separavano dalla tomba.
Aurora, la fanciulla irrequieta, venne rilasciata dopo un mese di reclusione per atto vandalico ai danni di un'opera artistica di inestimabile valore (a firma Carabosse, la strega che aveva gettato la maledizione). Fuori dal penitenziario, la nostra eroina si mise subito in cerca della bella addormentata. La trovò nel giardino dell'ospizio di periferia, ridotta a un cencio decrepito che guardava la pozzanghera desiderando di annegare.
Si avvicinò e le strinse le mani. Lei aprì gli occhi stanchi.
<<Sei tornata?>>
<<Sì, perché il miracolo continui.>>
Baciò la vecchissima principessa e in un momento il peso di cento anni si divise; le due cinquantenni si guardarono incredule.
<<Siamo davvero troppo vecchie per qualsiasi principe azzurro!>>
Risero insieme, si abbracciarono e, dopo un istante incredulo, si baciarono lentamente; poco dopo cominciarono a danzare davanti alla pozzanghera. Felicità nuda. 
Il piccolo specchio d'acqua evaporò al sole quello stesso giorno e, diventato nuvola in cielo, in un tempo di pioggia questa storia volle raccontarmi.

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Presentazioni / Risvegliato alle parole.
« il: Ottobre 17, 2013, 14:37:32 »
Buon giorno a tutti!  :) Mi chiamo Luca, ho sempre combattuto il mio bisogno di scrivere riuscendo a dormire per vent'anni. A risvegliarmi non è stato il bacio del principe azzurro ma qualche calcio della vita ben assestato. Perdonatemi l'enfasi, oggi scrivo per esistere e non ho timore del foglio bianco: basta cambiare il colore dello sfondo nella pagina di word!  ;D Scherzo, ho ricominciato a scrivere quando ho smesso di giudicarmi e non ho più cercato balocchi compensativi. Essere "vivi dentro" è un duro esercizio e le parole possono liberare l'anima.


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