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Post - serena.gobbo

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Carina questa iniziativa. Soprattutto perchè non ti chiede contributi, devi solo... leggere. (ovviamente, con abbonamento alla rivista writers magazine e i libretti Mondadori che si trovano in edicola, ma così mi piace!)

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Concorsi letterari gratuiti / Re:Lamerica
« il: Marzo 07, 2012, 15:09:30 »
Not found... sembra che il link non funzioni...

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Altro / LISA
« il: Novembre 18, 2011, 14:35:39 »
Ma cosa mi aspettavo da Lisa Lodu? Che si presentasse al pub con in mano una raccolta di firme contro l'infibulazione? Già al liceo ancheggiava tra gli occhi carnivori dei compagni come se la promozione del corpo fosse più auspicabile di quella scolastica. L'ultima volta che l'avevo vista, diciannove anni prima alla festa del diploma, si stava ripassando i maschi della classe contro cui aveva vinto la scommessa sulle materie sorteggiate per la maturità. Eppure, qualcosa di diverso me l'aspettavo. Forse perché quel pomeriggio, quando ci eravamo incontrati per caso al distributore, aveva accettato di uscire con me, proprio con me, quello che in quinta era fuori servizio come un cesso, a sentir lei. Forse era stato il mio lavoro a farle accettare l'invito: la parola "avvocato" profuma di portadocumenti in pelle e di inchiostro per stilografiche di marca. Sì, mi aspettavo che fosse cambiata, com'ero cambiato io. Alle superiori avrei donato gli organi da vivo, pur di finire nel suo campo visivo, e ora mi trovavo invece a guardarla dall'alto di un giudizio.

Ordinammo da bere e lei cominciò ad elencarmi i capi di abbigliamento comprati all'outlet nel pomeriggio. Poi, cambiando argomento senza aspettare alcun commento sulle sue spese, mi chiese: - Sono stata ad Ibiza per Capodanno, e tu?

Il suo profumo mi scendeva in gola costringendomi a deglutire di continuo per non cedere alla tosse.

- Ho accompagnato un gruppo di disabili a Lourdes col treno, - risposi.

Il sorriso le si smorzò, come se si fosse accorta all'improvviso del gusto amaro del rossetto: - Che carino.

- Sono ormai tre anni che parto volontario, - dissi.

Non era vero. Avevo trascorso l'ultima notte dell'anno sotto le lenzuola di una delle segretarie dello studio, e di disabili non ne avevo neanche tra i clienti, ma volevo che Lisa cadesse dal piedistallo, che mi guardasse come qualcosa di diverso da lei, ma non per questo inferiore. La prosopopea di cambiare il mondo, quella che si era impossessata di me agli inizi della carriera e che poi si era trasformata in burocratica noia, si era risollevata da qualche parte nel mio cervello e si incarnava ora nella voglia di strappare la bellezza da quel volto per guardare cosa c'era sotto; volevo che lei precipitasse nel proprio vuoto, volevo affacciarmi al viso divelto e urlarle: - Ehi, sono io, quello fuori servizio!

- In agosto invece faccio l'animatore al centro disabili di Cervia, - aggiunsi.

- Bene, ti dai da fare, - e bevve, mimando una sete che doveva essere ben lontana dal provare. Da sopra il bicchiere gli occhi cercavano un gancio a cui appendere un inizio di conversazione che non si sfilacciasse come tela consunta; la stavo tormentando e quel potere mi dava alla testa. Non importava quale poteva essere il prezzo che portava sulla fronte: sentivo che per me sarebbe sempre stato accessibile, talmente basso da sfiorare il regalo.

- Mio fratello è down. Non sapevo che ci fossero centri disabili a Cervia, - mi disse, e tacque rigirando il bicchiere tra le mani. - Pensavo di conoscerli tutti. Che strano.

Iniziò a fissarmi. Non mi aveva mai guardato così. Non mi aveva mai guardato.

L'aria si inclinò, e io scivolai su di essa, fino a cadere nella classe in cui osservavo di nascosto quegli occhi che sembravano lasciar passare qualunque cosa senza mai permettere alle ciglia di coprirli. Mi ritrovai a fissare la diciottenne Lisa Lodu come una sanguisuga che cercava di estrarle i pensieri dalla mente. La vedevo ridere, o corrucciarsi per un lieve screzio, ma sempre solo per pochi minuti; poi si sistemava lo scollo a V, e noi maschi, ubriachi di quei gesti, ci scambiavamo pacche sulle spalle per nascondere il nostro barcollio. Sembrava fatta di segatura bagnata: se perdeva una manciata di se stessa, la raccoglieva e la rimetteva al suo posto senza che alcun ricettore del dolore avesse fatto in tempo ad attivarsi; e a noi bastava che le forme originarie venissero conservate. Risalii lungo il piano inclinato dei ricordi e tornai al tavolo del pub: lei mi salutò quando già mi aveva voltato la schiena. Non cercai di fermarla: mi sembrava di avere due instabili colonne d’acqua al posto delle gambe.

E' vero: le mancava l'etichetta con le istruzioni per l'uso del corpo, ma di quelle si poteva fare a meno. Ciò che restava astruso era il resto di lei, la parte della donna che nessun libretto di istruzioni avrebbe potuto spiegare e che nessun vocabolario avrebbe potuto definire con la maledetta insufficienza delle sue parole.


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Altro / Re: Gli zoccoli rubati
« il: Novembre 14, 2011, 12:31:09 »
grazie. avevo partecipato a un concorso a como con questo racconto: terzo posto! (e un gustoso buono acquisto libri...)

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Altro / Re: Un mare di numeri
« il: Novembre 07, 2011, 16:12:50 »
Complimenti per l'uso delle immagini e delle figure retoriche!

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Altro / Re: Preventivi
« il: Novembre 07, 2011, 16:02:43 »
ne sei sicura? secondo quali parametri definiresti la narrativa?
Sono curioso, e non ho la verità in tasca...

eziodellagondola
[/quote]

Io non ho proprio le tasche. Comunque, sebbene venga normalmente definito narrativa l'insieme dei libri pubblicati, (e non mi riferisco al racconto qui sopra, ora generalizziamo) una differenza ci deve essere tra la mia lista della spesa e la letteratura. Se la narrativa (o letteratura? le distinzioni ci costringerebbero ad altri approfondimenti, e non sono in grado di darli...) è una forma d'arte, allora deve ricercare una forma di Verità. E per verità non intendiamo una mera copia dei fatti che succedono, una semplice trascrizione di dialoghi e pensieri, ma ci deve essere una ricerca di Senso. Dunque se la prima fase è l'imitazione (i vecchi greci la chiamavano mimesis), poi ci deve essere qualcosa da imparare. Però questa è un'idea mia, antiquata e personalissimamente mia, e forse ho sbagliato a formulare il mio commento sopra, che ora correggo: "a me questa non sembra narrativa".

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Altro / Re: Preventivi
« il: Novembre 07, 2011, 12:04:01 »
Incredibile... chissà perchè mi meraviglio ancora, visto che pure io lavoro col pubblico e me ne capitano di tutti i colori.
Tuttavia, questa non è narrativa...

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Altro / Gli zoccoli rubati
« il: Novembre 07, 2011, 09:34:26 »
Ai miei tempi, quando le mutande erano vecchie, non si buttavano, ma se ne cambiava l’elastico. Avevamo un solo paio di zoccoli per tutta la famiglia e li indossavamo a turno per la messa della domenica, senza badare se andavano bene in punta o se non slanciavano i polpacci alle donne. Solo il papà aveva diritto a tenerli durante la settimana.
Oggi si dice “largo ai giovani” ma quando ero giovane io, nessuno mi ha mai detto “prego, vai avanti” e così sto in coda adesso che sono vecchio e stavo in coda pure quando avevo vent’anni. Nessuno mi ha mai regalato nulla. Tranne il figlio del calzolaio. Si chiamava Aldo e aveva la mia età, ma a scuola non ci veniva quasi mai perché diceva che per fare buone scarpe non serviva né leggere né scrivere.
Andavo a trovarlo ogni pomeriggio: lui era sempre nella bottega del padre, con le mani e il mento appoggiati al deschetto, e non perdeva di vista nessun movimento del calzolaio. Sembrava respirare al solo scopo di ricevere un suo cenno: “Passami le tenaglie per gli occhielli” oppure “dov’è il punteruolo?”: l’aria non faceva in tempo a smettere di vibrare di quella voce, che l’attrezzo gli era già arrivato in mano. Non capivo tale venerazione per un lavoro che dava appena da campare. Il ciabattino stesso doveva avere qualcosa di strano nel cervello: lavorava borbottando in continuazione Ave Marie e Pater Noster, un colpo di martello e un kyrie eleison, una punzonata e un Mater Dei. In paese lo conoscevano tutti, era sempre stato così, tanto borbottante lui quanto taciturno il figlio.
Andavamo spesso a pescare insieme, lui ed io. Aldo era più fortunato di me: zitto e attento come un cane da riporto, i pesci sembravano cercarlo e alla sera riusciva a portare a casa un discreto pasto, mentre io restavo con la canna in mano, immobile e concentrato quanto lui, riducendo al minimo il respiro, convinto che fosse l’aria che mi usciva dai polmoni a spaventare le prede. Un giorno Aldo mi disse: “E’ inutile che stai fermo come una gallina che cova le uova”. Di solito parlava poco, le parole gli uscivano come latte da una mammella di mucca e bisognava strizzare l’argomento giusto per farne uscire frasi veloci e risolutive, che dessero soddisfazione. Se però il discorso non lo interessava, il secchio restava vuoto. Avevo l’impressione che la pesca, per quando un buon passatempo, non fosse tra i suoi argomenti preferiti, ed ero abituato ai suoi silenzi, per questo mi stupii del commento.
“Se non pigli pesci è per via degli zoccoli”, aggiunse.
“Ma io sono scalzo!” commentai.
“Appunto”. Non capivo, e lui mi spiegò sottovoce e di malavoglia che i pesci vanno da quelli che hanno i piedi coperti perché hanno l’odorato sensibile e la puzza dà fastidio anche sott’acqua. “E gli zoccoli tuoi non fanno uscire la puzza?” obiettai poco convinto.
“Fai a meno di crederci, eppure è così. Che altro motivo ci può essere per spiegare che io prendo pesci e tu no?”
Pensai alle esche, ma usavamo vermi raccolti da una stessa buca; pensai agli ami, ma erano prodotti con lo stesso fil di ferro. Forse ha ragione, pensai, ma non mi andava di dargliela vinta così lasciai perdere. Eppure non ci dormii la notte. Il pomeriggio successivo, mentre in famiglia tutti si riposavano, presi gli zoccoli che erano appoggiati sulla cassapanca in cucina:  sapevo che avrebbe dovuto prenderli mio padre per andare sul campo, ma contavo di rimetterli al loro posto senza farmi vedere in modo che poi, tra tutti e otto i fratelli, non si sapesse a chi dare la colpa del furto. A mio padre non sarebbe successo nulla di grave per un pomeriggio scalzo. Quella volta andai a pescare da solo e, con mia grande meraviglia, i pesci abboccarono felici quasi quanto me. Col cestino pieno, poi, corsi a casa di Aldo: “Avevi ragione! Avevi ragione: erano gli zoccoli! Guarda qua!” e gli mostrai il bottino. Lui era appeso al deschetto: degnò di uno sguardo appena i miei trofei e commentò “Te l’avevo detto” per poi tornare a osservare il ciabattino al lavoro nel suo borbottio clericale. Padre e figlio erano particolarmente seri, ma io, esaltato com’ero, non ci feci caso. Solo tempo dopo, ripensando a quella scena, mi accorsi di quante poche calzature ci fossero quel giorno nella bottega. Tornai a casa di corsa e piombai in cucina tenendo aperto il cesto, urlando a tutti “Guardate! Guardate qui! Stasera si mangia pesce!”. In effetti tutti si girarono a guardarmi. A quell’ora la famiglia si riuniva in cucina in attesa della cena, ma i loro occhi scivolavano dal cesto per cadere ai miei piedi: nella foga avevo scordato la prova del delitto. Mia madre si premurò di prendermi il cesto dalle mani; io rimasi con la testa bassa e le braccia lungo i fianchi a guardarmi gli zoccoli, finché non arrivò mio padre a fare quello che c’era da fare. Ne presi così tante che il sedere, dopo settant’anni, mi pulsa ancora.
Il giorno dopo mi meravigliai di trovare Aldo in classe: “Che ci fai qui?” gli chiesi, ma mi rispose con un’alzata di spalle. Tornò anche i giorni successivi. Pensai che volesse abbandonare la velleità di diventare ciabattino e non ci pensai più finché una mattina, finita la scuola, i tre compagni che, oltre a lui, venivano con gli zoccoli, si ritrovarono a piedi scalzi. Di solito li lasciavano fuori della porta perché al maestro dava fastidio il rumore di legno sul pavimento, e poi li riprendevano prima di tornare a casa. Ma quella volta le quattro paia erano sparite. Notai subito che Aldo era scivolato fuori dall’aula per primo e mi chiesi se pure a lui avessero fatto lo stesso scherzo, così pensai di andare a trovarlo. Come al solito era insieme al padre. Il piano di lavoro era insolitamente spoglio, vedevo solo l’uomo di spalle che borbottava le sue litanie, ed Aldo che mi guardò entrare senza salutarmi. Mi avvicinai ai due il necessario per scorgere, sotto le mani del ciabattino, gli zoccoli di Manzetti, uno dei compagni rimasto scalzo. Stavo brucando immobile quella visione con gli occhi spalancati: sotto la suola era stato messo uno strato lattiginoso, forse gomma e l’uomo stava martellando dei sottili chiodini per fissare la tomaia nuova. Il ciabattino interruppe l’Ave Maria, mise giù la calzatura e il martello e mi chiese: “Che ne dici, cambiamo la mascherina?”
Vedendo che non avevo capito, mi spiegò: “La punta. Vedi com’è rovinata? Questa non dura tanto e le dita dei piedi sono quelle che soffrono di più il freddo d’inverno. Non ho abbastanza materiale per rifarne un paio nuovo, ma tre mascherine saltano fuori.” Fece una pausa e poi aggiunse: “Chiudi la bocca e rispondimi.”
Ubbidii all’istante facendo schioccare i denti tra loro e sigillando le labbra, poi mi ricordai di annuire. Rimasi là tutto il tempo che ci volle per risuolare gli zoccoli e rinnovare le mascherine, poi, una volta finito il lavoro, l’uomo li consegnò al figlio e uscì dalla bottega: me lo ricordo così, che se ne va di spalle seguito nell’aria dai suoi benevoli santi e madonne, come un orso che si trascina nella tana per gettarsi esausto nel letargo.
“Ma perché non hai chiesto ai nostri compagni se volevano sistemarsi gli zoccoli?” chiesi ad Aldo quando restammo soli.
“Sapevo che non avevano i soldi per pagare”, rispose.
“Vuoi dire che tuo padre ha lavorato gratis… di proposito?”
“Sono così tanti quelli che non lo pagano, che non cambiava granché. E comunque, non aveva niente altro da fare.”
Guardai la bottega: prevalevano i colori legnosi e scuri, ma solo allora notai che ciò era dovuto alla mancanza delle pelli e degli strumenti, ad eccezione di quelli che erano serviti per le quattro paia di zoccoli. “Smette di lavorare?” chiesi.
“Gli tocca. Il dottore gli ha detto che è molto malato e che deve andare in montagna per non si sa quanto tempo. Così non ha più accettato lavori nuovi e un po’ alla volta ha svuotato tutto.”
“E questi zoccoli, allora?”
Aldo sorrise: non lo faceva spesso e il ricordo di quei denti bianchi me lo sono messo nella cassetta di sicurezza, qua nella testa, e guai a chi me lo tocca. Disse: “Non ce l’ha fatta a restare senza far nulla in attesa di partire per il sanatorio. Mamma non permetteva a nessun cliente di avvicinarsi a lui con una scarpa in mano, e così sono intervenuto io.”
“Ah.” Risposi. Non c’era altro da aggiungere tra di noi. Sapevamo entrambi che ora si trattava di far ricomparire quegli zoccoli in classe come nelle magie di mago Merlino, anche se poi tutti avrebbero comunque capito cosa era successo. Bisognava solo salvare la faccia: anche quella dei nostri compagni che non avrebbero potuto pagarsi una riparazione dal ciabattino.
La mattina successiva ci appostammo dietro la quercia vicina alla scuola per contare i compagni di classe che entravano. Al trentottesimo ci alzammo ed entrammo pure noi quando tutti gli altri non potevano vederci perché già seduti ai propri banchi. Io entrai per primo e Aldo, dietro di me, lasciò gli zoccoli davanti alla porta con un movimento rapido che non vidi, ma percepii dal fruscio dei suoi pantaloni. Una volta seduti ci scambiammo un’occhiata. Il maestro alzò la testa dal registro e iniziò l’appello: “Abatini… Alberti… Asso… Barberis…”
Se ne accorsero alla ricreazione, uscendo in cortile. Gli zoccoli erano allineati in modo da inciamparci subito sopra all’uscita della scuola: c’erano anche quelli di Aldo. Manzetti. urlò: "Ma quelli sono i miei zoccoli, e ci sono anche quelli di Cova e di Nordio!”
“No, non sono quelli, non vedi che sono diversi?”
Cova si fece spazio per guardarli meglio: “Ma sì che sono i nostri, guardate, qualcuno gli ha aggiunto una suola in gomma e ha cambiato la punta!”
“Si chiama mascherina!” disse Aldo. Si ritrovò ottantadue occhi addosso. A guardarlo sembrava che avesse schiacciato una cimice per sbaglio e che trattenesse il respiro per non sentirne la puzza. Fu il maestro a parlare per primo: “La suola in gomma. Ottima idea. Così potrete tenerli anche in classe senza disturbare le lezioni”, e uscì senza che potessimo vedere la sua faccia. Restammo tutti a guardare i quattro fortunati in un misto di invidia e rispetto come se fossero appena stati promossi nella classe degli adulti. Già prima erano considerati dei privilegiati, perché non pestavano la terra con la pelle dei piedi dalla mattina alla sera: ora ci sembrava che portassero una invisibile palma da vincitori dietro le spalle.
Qualche giorno dopo Aldo ed io andammo a pescare. Appena prima di metterci seduti e di iniziare il consueto rituale, lui mi toccò un braccio: “Guarda dentro qua”, e mi porse il suo cestino. “Mio padre mi ha detto che sono per te.”
Il suo cesto era grande, doveva esserlo per contenere tutti i pesci che ogni volta si prendeva al posto mio. Lo aprii dopo aver tolto il bastoncino di vimini che faceva da chiusura: all’interno c’era un paio di zoccoli in legno chiaro. Ed erano della stessa lunghezza del mio piede. Erano gli zoccoli che ogni tanto mi comparivano in sogno: erano scappati dalle mie notti e ora me li trovavo davanti, ed erano solo miei. O per lo meno, lo rimasero quelle volte che andavo a pescare: i miei accettarono di farmeli tenere al fiume perché, sebbene non avessero capito come, ne tornavo sempre col cesto pieno; ma in famiglia dovevo poi prestarli ai miei fratelli più piccoli a domeniche alterne per la messa. Per tutto il resto del tempo, a casa, a scuola, quando giocavo nei campi, gli zoccoli dovevano restare appesi a un chiodo vicino alla porta della cucina, perché a usarli troppo si sarebbero potuti rovinare.
E infatti non si sono rovinati. Ce li ho ancora. E quando ho iniziato a lavorare, me li mettevo sul deschetto e li tenevo là, a mo’ di ispirazione. Anche se dovevo fare un paio di scarpe su misura o aggiustare il manico di una borsa: sempre là. E anche adesso che ho chiuso bottega, quegli zoccoli mi fanno compagnia, più necessari della pensione e più allegri di un cesto pieno di trote.

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Altro / BIANCO PASSIVO
« il: Settembre 28, 2011, 14:23:29 »
Sembra che l'editore non abbia mai ricevuto questo mio racconto scritto per il concorso INCIPIT D'AUTORE (Giulio Perrone), perchè proprio quando l'ho mandato hanno avuto dei problemi con le mail. Dunque lo posto qui, insieme all'incipit proposto.

"Si è appena svegliata e aprendo gli occhi dimentica di essere in ferie. Guarda la sveglia, la mette a fuoco, per un istante teme che sia tardi. Poi ricorda. Decide che farà colazione al bar. Si lava, si veste in fretta. È una giornata strana, il tempo potrebbe cambiare da un momento all'altro. Ordina il suo caffè, si siede a un tavolo appartato, da cui non distingue le parole degli altri. Solo un fittissimo, uniforme ronzio. Getta un'occhiata distratta al giornale, le sembra di sapere già tutto. Ma quanto sono vecchie queste notizie? Sfoglia veloce, in cerca delle pagine di cronaca. La tazzina resta sospesa a mezz'aria. In una fotografia le è sembrato di vedere un volto somigliante al suo. Lo fissa più a fondo, il cuore sembra già impazzito. Legge il titolo, sillaba per sillaba. Riguarda lei."


 Il ronzio del locale sembra essersi addormentato e tutto sparisce davanti a quelle righe. Il titolo dice: “Giovane impiegata ferisce collega”.  L’articolo continua:  “Ieri, alle ore 12:15, nella sala mensa della Giorgi SpA, Marta Rusconi, trentaduenne di Venezia, ha prima insultato e poi ripetutamente colpito con la forchetta la collega Giulia Ronzini, 41 anni. La vittima, attualmente ricoverata sotto shock all’ospedale di Mestre, ha riportato varie ferite al viso e alle braccia, perdendo l’uso dell’occhio destro.  I testimoni hanno riferito che la Rusconi quel mattino si era comportata normalmente, e che l’aggressione è stata del tutto  improvvisa. Le due colleghe sono rimaste tranquillamente sedute l’una accanto all’altra fino all’esplosione immotivata degli insulti della Rusconi. La vittima non ha avuto il tempo di reagire. la Rusconi si è alzata in piedi iniziando a colpirla con brutalità, e quattro uomini, accorsi in soccorso, hanno dovuto tramortirla per fermarne la furia. La donna, che non ha mai dato segni di squilibrio mentale, è stata ricoverata all’ospedale psichiatrico di Padova”.

Marta annaspa, posa tremante la tazzina del caffè sul giornale, lasciandone cadere alcune gocce. Con i piedi spinge la sedia indietro, provocando uno stridio che fa voltare qualche testa.  Rilegge l’articolo, guarda ancora la foto: non c’è dubbio, è lei. Chi è quel giornalista che ha pubblicato quelle scemenze? Dove ha trovato il suo nome, e la foto della sua patente? Ride: scarica la tensione, ma il suono che ha emesso deve avere qualcosa di incongruo, perché i clienti dei tavoli vicini iniziano a fissarla. Deve essere uno scherzo.

E se fosse davvero successo qualcosa a Giulia? Marta rivede la collega, l’unica che ha scavalcato il muro dei numeri e delle scadenze dell’IVA per ascoltare le sue fisime. La vede entrare in ufficio con il suo solito abbigliamento bianco passivo, dondolante sulla gamba che si è dimenticata di crescere, come una bici con la ruota sgonfia. Le spalle,  piegate in avanti, sembrano lembi di una foglia disidratata, e chiudono, come a proteggerlo, il cuore timido. Giulia, in azienda, è un sacco da boxe che raccoglie su di sé i pugni verbali di chi vuol ridere o sfogarsi. La sua voce è flebile come un fiocco di cotone che cade, e rapida, per non rubare tempo altrui. Certo, è verosimile che una come lei abbia risvegliato i lati più oscuri di un collega stanco o deluso. Giulia non si difende mai, e questa sua remissività incentiva gli sfoghi anche di chi pubblicamente non può dirsi, secondo gli schemi abituali, cattivo.

Marta si alza. Vuol sapere come sta Giulia, deve capire chi le ha fatto del male. Paga il caffè e si dirige a grandi passi verso la porta. La foga le permette a malapena di allungare la mano sulla maniglia, e si ritrova con tutto il corpo aderente al vetro freddo, il braccio piegato tra lo sterno e la porta bloccata. Tira e spinge, senza risultato; allora si gira verso il barista: “Qui non si apre!”

L’uomo sembra non averla sentita, e dopo aver lasciato cadere le monete nella cassa, passa lo straccio sul bancone. “Ehi, la porta è bloccata”. La sua voce rimbomba nel silenzio, come se il bar si fosse svuotato di colpo dei clienti e dei mobili. Marta si innervosisce: si dirige verso il barista, e gli afferra il braccio. Le sembra di toccare uno spaventapasseri privo di reazioni e dalla temperatura mimetizzata con l’ambiente. “Le ho detto che la porta è bloccata, non riesco ad uscire”. Marta parla a bassa voce, perché teme che il controllo del volume possa essere solo la prima di una lunga serie di perdite; ma l’uomo non risponde, non la guarda, né si muove. La passività non è un attributo da umani: un tappeto, un bottone o un sasso possono permettersi di essere passivi. Non una persona.  La fisiologia stessa del corpo umano ripropone all’infinito leggi di causa ed effetto che aborrono la passività, che bramano risposte, che scivolano nel nulla solo quando la persona non è più tale. È per questo che il bianco, quello vero, non è un colore umano: la sua passività glielo impedisce.

Marta si butta di nuovo sulla porta: inizia a strattonarla in silenzio, ma lo sforzo delle braccia sottrae energia ai muscoli della gola, quelli che dovrebbero trattenere la voce. E infatti il grido evade: “Fatemi uscire!”

Quella voce è l’unica emanazione del suo corpo ad evadere. Il dottore fa stridere la penna sulla cartellina, chiude lo sportello della porta imbottita e si allontana lungo il silenzioso corridoio bianco.


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Cassonetto differenziato / Re: Un mio racconto pubblicato...
« il: Settembre 20, 2011, 09:10:56 »
ops.. mi sono accorta che ve l'ho detto due volte... sclerosi incipiente.

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Cassonetto differenziato / Re: Commentare non costa nulla!
« il: Settembre 20, 2011, 09:10:15 »
Soprattutto, commentiamo con un po' di impegno. Dire "bello" oppure "intenso" non aiuta per niente chi vuol migliorare. Bisognerebbe far le pulci a quello che si legge.

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Cassonetto differenziato / Un mio racconto pubblicato...
« il: Settembre 20, 2011, 09:07:08 »
... SULL'ANTOLOGIA AMORI MOLESTI!
http://blog.libero.it/librini/10617865.html

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Cassonetto differenziato / Un mio racconto pubblicato...
« il: Settembre 16, 2011, 17:58:06 »
... sull'antologia AMORI MOLESTI... a breve. I dettagli sul mio blog!
http://blog.libero.it/librini/10617865.html

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Altro / Re: LA LANCETTA
« il: Agosto 02, 2011, 11:03:57 »
grazie mille, correggo subito!
 eeek

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Altro / Re: LA LANCETTA
« il: Agosto 01, 2011, 10:02:05 »
ma dimmelo quali sono i refusi, siamo qui per imparare!!

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