Autore Topic: 030 - Pagine dal diario di un Ragazzo felice - Il miracolo della vita  (Letto 551 volte)

victor

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IL MIRACOLO DELLA VITA

La casa era posta sul punto più alto della proprietà e da lì si dominava quasi tutto il terreno che si stendeva su un lieve declivio verso il fiume. Io, appena arrivato salivo sul ballatoio di casa da cui si poteva controllare il terreno per quasi tutta la sua estensione. Era bello da li osservare come il panorama cambiava con il cambiare delle stagioni. D’inverno la vigna era tutta spoglia, i tralci delle viti si stagliavano nell’aria senza foglie e tutti aggrovigliati tra loro. Restavano così fino a gennaio o febbraio, quando sarebbero stati potati.

Dopo la vendemmia e fino al momento della potatura le viti “dormivano” e non abbisognavano di cure particolari. Ma mio padre, dopo aver completato la raccolta delle ulive, cercando di dare lavoro agli operai tutto l’anno faceva iniziare dei lavori straordinari. Il vigneto era stato piantato cento o duecento anni prima e il terreno non era stato dissodato adeguatamente. Così mio padre provvedeva ad un lavoro di dissodamento e contemporaneamente di concimazione. Questo lavoro veniva effettuato a rotazione. Con mio padre, durante il periodo della vendemmia, decidevamo quale sarebbe stato il tratto di terreno da dissodare e concimare quell’anno. La decisione veniva presa sia seguendo una logica nella rotazione, sia scegliendo la zona che era più carente e bisognosa di quel tipo di lavoro. Appena completata la raccolta delle olive Peppino eseguiva una potatura sommaria di quella zona affinché gli operai potessero lavorare agevolmente. Poi a filari alterni si scavava un solco quadrangolare molto profondo tra le viti togliendo la terra e portando via anche le pietre che inevitabilmente venivano fuori. Questo solco veniva riempito con i sarmenti delle viti che erano stati tagliati e ricoperto di concime stallatico (veniva così chiamato il concime misto a paglia che si raccoglieva nelle stalle dei buoi), talvolta veniva aggiunto anche una piccola parte di concime raccolto nelle stalle delle pecore, ma quest’ultimo veniva aggiunto in piccola quantità in quanto era molto forte e se si esagerava avrebbe “bruciato” le viti. Messo il concime nel solco questo veniva ricoperto con la terra che in precedenza era stata tolta. Questo lavoro veniva effettuato tra dicembre e gennaio. Le piogge avrebbero provveduto a diluire il concime nel terreno e a tramutarlo in linfa che a primavera sarebbe stata assorbita dalle piante.

Completato questo lavoro iniziava la potatura. Questa veniva effettuata con una metodica sempre uguale, tramandata nei secoli, forse fin dall’epoca dei greci. Si osservava quante “spalle” avesse la vite. La spalla in pratica corrispondeva ai rami principali della pianta (quelle adulte in genere ne avevano tre o quattro, quelle più giovani un paio). Si sceglieva il tralcio più forte e robusto ed anche meglio conformato di ogni spalla e questo veniva potato esattamente sopra il secondo germoglio dormiente. Poi si asportavano tutti i tralci secondari tagliandoli a zero, in maniera che non potessero germogliare. I “sarmenti” (i tralci tagliati) venivano raccolti in fascine e poi accatastati in cumuli dietro i magazzini. Appena potata e ripulita l’aspetto della vigna cambiava. Era come se una persona trasandata e con i capelli tutti arruffati fosse andata dal barbiere. Dal balcone di casa mi soffermavo a guardare l’aspetto nuovo che aveva preso il terreno e mentalmente lo confrontavo con quello delle settimane precedenti. Mi complimentavo con me stesso in quanto ero io il regista o il maestro di orchestra che dirigeva quei cambiamenti.

Queste regole di potatura mi servirono quando piantai delle rose nel terreno che si trovava attorno alla casa di villeggiatura che avevo acquistato per farci trascorrere le vacanze ai miei figli quando erano bambini. Conoscevo le leggi della natura, e conoscevo le regole che l’uomo applicava a quelle leggi. Proprio davanti al portico che avevo costruito avevo messo un filare di rose. Quando cominciarono a crescere, ancora in pieno inverno, le potai con le mie mani, proprio come avevo visto potare le viti. Quando mia moglie vide quello che avevo fatto esclamò urlando “che cosa hai fatto! Le hai distrutte!”. Mia moglie si lasciava facilmente trascinare dalle sue sensazioni e dai suoi umori. Io che la conosco bene non le risposi, ma voltandole le spalle continuai imperterrito e con calma il mio lavoro. Poi, dopo, con calma le dissi: “Prima di parlare aspetta, vedrai a primavera”. Quando a primavera tornai con un fascio di rose dovette ammettere che avevo ragione. Poi perfezionai ulteriormente la tecnica. Potavo le rose, sempre durante la luna calante, a fasi lunari alternate, durante una fase una e durante la fase seguente l’altra. Così avevo durante tutto l’anno sempre rose fiorite.

Dopo la potatura veniva effettuata la “prima zappa”, cioè avveniva la prima operazione di coltura vera e propria. La vigna cambiava nuovamente aspetto e mentre prima il terreno era pianeggiante cosparso qua e là da ciuffi (più o meno estesi) di erba verde, attorno ai quali si raccoglievano stormi di passeri e cardellini per brucare i germogli teneri, ora il terreno era divenuto tutto scuro perché era stato rivoltato e l’erba era stata estirpata ad opera del lavoro dell’uomo. Finita la prima zappa veniva effettuata “l’impalatura”. Veniva conficcato nel terreno un palo di legno per ogni vite, perché le desse sostegno quando i tralci si sarebbero caricati per il peso dell’uva.

Io, tutte le settimane andavo a controllare il lavoro. Se la giornata era molto fredda oppure c’era la neve, prendevo la doppietta e la cartucciera che si trovava in casa e me la portavo dietro (avevo il porto d’armi). Sapevo che sugli alberi di ulivi avrei trovato gli storni, che intirizziti dal freddo mi avrebbero permesso di avvicinarli senza fuggire. Sparavo alcuni colpi e ne ammazzavo diversi. Alcuni li regalavo a Peppino perché li portasse a casa sua per i suoi figli, gli altri li portavo a casa e mia madre li avrebbe cucinati per me e mio padre in quanto eravamo molto ghiotti di cacciagione. Quando sparavo qualche colpo di fucile sapevo che poco dopo sarebbe arrivato il guardacaccia che abitava in una casa vicina. Sentiti gli spari veniva a controllare, ma in verità sapeva bene che essendo domenica ero io che sparavo e quindi, in realtà veniva per fare quattro chiacchiere con me. Essendo pagato anche da mio padre oltre che dagli altri vicini, veniva per dimostrare che lui svolgeva con scrupolo il suo lavoro. Talvolta, se c’era qualche festività infrasettimanale ed io ero libero da impegni di studio, organizzavamo qualche battuta di caccia ai conigli. Lui era provvisto di cani e furetto. Quando si organizzava qualche battuta io dovevo uscire da casa di notte perché già prima dell’aurora dovevamo essere sul posto pronti per iniziare la caccia.

Nel frattempo arrivava la primavera e dal balcone di casa osservavo i cambiamenti che avvenivano nella vigna. Le viti cominciavano a mettere dei germogli, color verde chiaro, quasi giallognolo. L’aspetto cambiava a vista d’occhio. Da scura e triste che era la campagna ora cominciava a vivere. Era bello vedere come il panorama cambiasse rapidamente da una settimana all’altra. Era una cosa meravigliosa. Uno spettacolo esaltante della natura. Non mi stancavo di ammirarlo e restare ogni anno sorpreso per questa trasformazione miracolosa che avveniva sotto i miei occhi. Era il vigneto, una mia creatura che cresceva e si trasfigurava sotto i miei occhi, per le mie cure, quasi per mano mia … A quell’epoca scoprii come tutta la natura viveva e si trasformava a cicli. La vigna germogliava sempre con la luna nuova e i nuovi tralci crescevano velocemente nell’arco di due settimane fino ad una lunghezza di venti o trenta centimetri. Poi, durante la fase calante della luna restavano quasi stazionari, per avere una nuova veloce crescita, stavolta ancora più veloce e rigogliosa durante la nuova fase lunare. A quel tempo io sapevo esattamente, giorno per giorno, quale era in quel momento la fase della luna, e quando, solo, in macchina andavo in campagna, mentalmente cercavo di immaginare come avrei trovato il vigneto, e quale sarebbe stato l’aspetto che avrei visto dal balcone di casa.

In questo periodo cominciavano altri lavori: veniva spolverato lo zolfo per proteggere i germogli dai parassiti, poi veniva fatta l’irrorazione con il solfato di rame per proteggere le viti dalla peronospora. Veniva effettuata la “seconda zappa” cioè il terreno veniva vangato per la seconda volta. Poi i tralci, ancora teneri venivano legati ai pali che erano stati piantati accanto a ciascuna vite. Io seguivo questa operazione con particolare attenzione e giravo tutto il vigneto osservando con attenzione tutte le viti. Infatti dopo questa operazione, con i tralci giovani legati a ciuffo in alto, appariva chiaro come si sarebbe presentata la produzione di grappoli d’uva per quell’anno (ovviamente se non sarebbe stata danneggiata dalle intemperie o dalle malattie). Tornato a casa riferivo tutto a mio padre ed insieme commentavamo e organizzavamo i lavori successivi.

Durante la primavera inoltrata e l’estate venivano effettuati gli altri lavori: la terza e la quarta zappa, le altre irrorazioni. In questo periodo sia il passero comune, che il passero solitario (che in realtà è un merlo, anche se appartiene alla famiglia dei passeracei) costruivano i nidi sulle viti. Ce n’erano tanti nella zona. La prima “cova” in genere io non la prendevo in considerazione. Invece la seconda covata che avveniva in estate ed io ero sul posto potevo seguirla attentamente. Riconoscevo dalla grandezza e dal colore delle uova se il nido era di passero comune oppure di passero solitario oppure di qualche gazza ladra che raramente nidificava anch’essa sulle viti. Una volta trovai un nido di ghiandaia. La ghiandaia non ha un bel canto, a differenza del passero solitario che ha un canto dolcissimo, ma ha delle piume colorate bellissime, bianche, azzurre e di un nero lucido. Io ho sempre amato gli uccelli e raccoglievo gli uccellini ancora piccoli per poi allevarli in gabbia. Riuscii ad abituare la ghiandaia a stare libera per il cortile e la terrazza di casa sia in campagna che in città.

Nel frattempo i grappoli di uva che all’inizio erano minuscoli crescevano, anche gli acini si ingrossavano e cominciavano a scurire. Finché sarebbero diventati maturi e pronti per essere raccolti, pigiati, per diventare dapprima mosto e poi vino. E il ciclo della natura sarebbe ricominciato.

Era, come ho detto, un miracolo meraviglioso. Io, ogni anno, lo seguivo mentre si realizzava sotto il mio sguardo attento, lo toccavo con mano. È vero, ho sempre vissuto a contatto con la natura, vedevo il grano crescere, essere mietuto e trebbiato, vedevo anche fiorire la zagara degli aranci, mi inebriavo al suo profumo e la vedevo trasformarsi dapprima in piccoli frutti e poi man mano ingrossarsi e maturare, vedevo fiorire i bei fiori bianchi dei mandorli, oppure quelli meravigliosi color rosa di pesco, ma nulla mi coinvolgeva come il ciclo annuale della vite. Se una pianta era più rigogliosa delle altre vicine andavo a studiare per cercare di capire perché ciò avveniva, oppure se un’altra non cresceva come quelle circostanti, anche in quel caso cercavo di studiare e capire il perché. Era più facile scoprire la causa del secondo evento, piuttosto che quella del primo. Facevo scavare attorno alla vite e il più delle volte si trovava un masso o delle pietre che impedivano alle radici della vite di crescere e le facevo rimuovere. E vedevo la pianta, poco a poco riprendersi. Ed era una bella soddisfazione. Tutto questo era frutto delle mie riflessioni, delle mie esperienze, ma principalmente era frutto degli insegnamenti datemi da mio padre e da mio nonno. Era la parabola dei talenti che ho sempre avuto presente nella mia mente: i talenti che tu ricevi in dono, ma che non devi né sperperare, né tenere chiusi in un forziere nascosto, ma devi mettere a frutto e farli moltiplicare. Era la storia dell’uomo che mi tornava alla mente: dell’uomo delle caverne che era cresciuto, che con il suo ingegno aveva progredito, che con i suoi pionieri aveva conquistato il mondo intero, anche se questa crescita aveva avuto effetti negativi con i suoi errori e i suoi misfatti. La cosa che mi affascinava, che mi coinvolgeva, era il fatto che quest’uomo non si era mai fermato, che era andato sempre avanti, passo dopo passo … giorno dopo giorno … sempre … sempre … senza fermarsi mai …

Il duro impegno per l'acquisizione delle competenze, la passione e le doti personali creano eccellenza ... e distinguono il professionista dal lavoratore ... Victor