Visualizza post

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i post inviati da questo utente. N.B: puoi vedere solo i post relativi alle aree dove hai l'accesso.


Post - chospo

Pagine: [1] 2 3 ... 6
1
Altro / Re:Un'uscita
« il: Gennaio 30, 2013, 23:39:48 »
Forse non hai tutti i torti. Voleva solo essere un brusco ritorno alla realtà di tutti i giorni, alla luce insomma. Il padre alla fine ha avuto davvero un ictus  :rb: ... Però ci penso meglio e vedo se posso rendere un pochino più decente il finale, quanto meno allungarlo.

2
Altro / Re:Un'uscita
« il: Gennaio 30, 2013, 23:32:55 »
 :rb: Azz... questo perché ho dimenticato d'incollare la parte finale del racconto, che sembra finire così, ma non finisce così, ecco il finale (lo aggiungo anche al topic principale):

_____
Quando la mattina dopo, al nuovo calare del giorno (poiché la notte difficilmente è infinita nel vero senso della parola), D. fece ritorno nella casa paterna, fu per prima la madre a chiedergli:
"Allora, com'è andata?"
"Una merda, al solito" rispose lui, facendo spallucce. "Una noia mortale."
"Te l'avevo detto," disse lei ridacchiando, "quando ti decidi a mollarlo?" E visto che anche l'adorato figliolo rideva, la madre propose di berci sopra.
Nelle due ore successive si ubriacarono senza patemi di sorta. Il padre non partecipò, la sua testa era ancora buttata sul piatto dalla sera prima. Qualche mosca gli ronzava attorno: la dieta era stata troppo severa.

3
Altro / Un'uscita
« il: Gennaio 30, 2013, 18:50:49 »
Devo ancora sfoltirlo ma spero vi piaccia  dharmas

Ok, ora dovrebbe essere leggibile  :top:

Un'uscita
____________

Erano a tavola quando il padre gli chiese:
"Dunque, oggi?"
"Oggi cosa?" rispose lui rimestando con il cucchiaio nella minestra.
"Niente."
E tornarono a mangiare tranquilli. Non volava una mosca. Poi la signora F., che da tempo guardava marito e figlio senza toccare cibo, disse:
"Dunque, oggi?"
Alla domanda entrambi alzarono la testa dal piatto. D. aveva un rigagnolo di brodo sul labbro, l'aria  infastidita e gli occhi persi nel vuoto. Il signor F. lo esortava a rispondere usando il gomito, si puliva i baffi con il fazzoletto. "Dice a te," borbottò.
"Sicuro che dica a me?"
"Sì, siamo sicuri." disse la signora F.
"Non so..." disse D.
"Non sai cosa?" disse la signora F.
"Basta, basta," disse il signor F., "Se non vuole, non vuole, non sono affari nostri, in fondo", concluse, e nonostante il tono rilassato prese a mangiare con voracità, sicché buona parte della minestra gli colava dalle labbra sino al piatto. Il signor F. era un uomo corpulento, testa da rinoceronte ed occhietti spenti. Lo annoiavano le tiepide minestrine, i polentini insipidi, tutte quelle cose che tolgono piacere allo stomaco. Era di certo più avvezzo alle porcherie, lui, eppure aveva quasi terminato l'insidiosa pietanza. La moglie lo aveva messo a dieta forzata; nel vederlo così cooperativo lo applaudì a scena aperta, tanto che il figlio, vergognandosi della situazione, la rimproverò aspramente.
"Dunque, oggi?" ribatté lei, "Dovrai pur fare qualcosa oggi."
"Credo che... credo che uscirò."
"Sarà meglio. Guarda che ora è!," disse la signora F.,  e svelta indicò il grande orologio vicino alla finestra. Erano le nove in punto. Fuori, nella notte di un cielo vuoto, il vento agitava le chiome degli alberi. I lampioni mandavano una luce uniforme sulle strade deserte.
"Sì, sì." disse D. alzandosi da tavola e afferrando la giacca abbandonata sulla sedia.
"Guarda, guarda, sto uscendo mamma... vedi? Esco." disse ancora, ed evidentemente stizzito si concentrò sui guanti che stava indossando; tremava da capo a piedi, sul punto di scattare da un momento all'altro.
"Come, esci adesso?" fece la madre, anche lei già in piedi e fermente. "Finisci prima di mangiare, no?"
"No, esco. Vuoi che esca, no? Allora esco."
"Fai come ti pare." sbottò lei, rossa in volto.
"Ma cosa ti prende?"
"Esci con lui, vero?" chiese ora più pacata, e si mise di nuovo seduta, le braccia incrociate, gli occhi fissi sul marito. Questi sembrava inerte, la testa sul piatto vuoto, come colpito da un ictus.
"Bah..." sbottò lei, che forse cercava nel marito una qualche reazione alla sortita del figlio; poi, vedendo che quest'ultimo si stava già appressando alla porta, scattò giù dalla sedia.
"Allora?!" urlò, agitando un pugno, "Esci con lui, vero!?"
"Sì," sospirò D., ormai oltre la soglia, "Io, lo trovo... lo trovo interess..."
"Sei un bugiardo!" urlò ancora la madre.
"D." gli voltò le spalle e proseguì sul vialetto, verso il cancello che dava sulla strada. La signora F. lo rincorse per un bel pezzo. Lo tirava per la giacca, sbraitava parole terribili, e "D." fu costretto più volte a darle qualche strattone per levarsela di dosso.
Quand'era ormai lontano, sebbene il vento gli fischiasse nelle orecchie, aveva l'impressione di sentire la voce della madre. La ricordava piegata in due sul giardino di casa, il volto straziato dalle lacrime, le mani imploranti alzate alla luna. Rise a quell'immagine, e continuò sulla sua strada.
_______

D. aspettava l'amico nella piazza principale della città, al solito posto convenuto, sotto il monumento: una statua di donna che brandisce una spada. Ha gli occhi tristi, davvero tristi sebbene scolpiti nella pietra. L'arma è sguainata verso il cielo senza stelle.
C'era il freddo pungente dell'inverno inoltrato. La città era deserta, pochi passanti sotto grandi ombrelli neri. D. si era dimenticato il suo, ma non aveva voglia di ripararsi. Il suo amico era in ritardo, un'ora circa, come sempre; la tristezza era troppa persino per trovare un rifugio. Così si era spento, aveva ingannato il tempo immergendosi nelle mura degli antichi palazzi. L'architettura barocca, le ampie arcate, i marmorei balconi; tutte cose che conosceva a memoria, e che osservava solo per svuotare la testa.
Poi sentì la voce dell'altro:
"Ehi."
Era lì di fronte, un ombrello in mano, ammiccante sotto le folte sopracciglia nere. Sembrava al colmo della felicità. Ad influire su quest'impressione vi era il suo abbigliamento: un impermeabile rosso vivo, due volte più grosso di lui.
"Sei in ritardo." lo ammonì D., senza troppa convinzione.
"E' vero," rispose C. Le labbra e il volto gli tremavano. "Ma tu mi hai aspettato, sì, sì" disse con voce squillante, attaccandosi alla mano dell'amico e tirandolo a sé; poi lo guardò in faccia e scoppiò a ridere. La lingua gli usciva a scatti dalla bocca.
"Non puoi arrivare sempre in ritardo," disse D., per nulla turbato.
"Posso, se tu mi aspetti." si riprese quell'altro, ora serio ed immobile.
"Anche questo è vero," rispose D.
"Senz'altro vero," concordò C.
Si erano incamminati in silenzio, sotto la pioggia. D. tentava di tenerlo vicino a sé, voleva dargli il braccio, camminargli a fianco, ma C. si scostava, a volte guardandolo con disprezzo, altre volte ridendogli in faccia. Presero vicoli bui, dove le pareti degli edifici sembravano quasi toccarsi. C'era odore di muffa, di chiuso. D. non aveva le scarpe adatte, e ben presto cominciò a sentire i piedi intorpiditi, i calzini bagnati. Non parlavano di nulla, guardavano per terra, sospiravano o sbadigliavano.
"Dove stiamo andando?" chiese D., fermandosi e trattenendo l'amico per l'impermeabile.
"Non so." disse C., e scaltro si mosse per liberarsi.
Ma D. lo prese per le spalle e lo guardò dritto negli occhi. Le mani gli tremavano, il volto era teso, cercava un po' di coraggio dentro di sé.
"Ogg-g-ggi," balbettò, poi prese fiato, poiché era diventato viola, e concluse più sereno: "Oggi ci siamo sentiti. Volevi fare qualcosa, mi hai detto."
"Si, penso sia vero." disse C., e sputò un altro risolino.
"Ok", fece D., scostandosi da lui e osservandosi i piedi. "Quindi? Cosa facciamo?" chiese titubante.
"Camminiamo, facciamo un giro." disse C.
"E dove andiamo?"
"Non so." rispose C.
Tornarono a camminare, e ben presto tornarono a fermarsi.
"Da qualche parte potremmo andare." propose D. a bassa voce.
"Il solito posto?" si arrese C.
"Il solito posto." concluse D., sorridendo per la prima volta.
Il pub in cui entrarono era affollato. Sedettero su una panca, ad un tavolo unto. Fumo, mormorio da chiacchericcio, risate, urla concitate, qualche coro da stadio. Le luci erano rosse e soffuse, musica pesante, incomprensibile a tratti. Passò mezz'ora prima che qualcuno si degnasse di prendere l'ordine. L'amico di D. ci mise altrettanto a scegliere. Infine presero patatine fritte e vodka. Mangiarono a sazietà, ingurgitarono ogni cosa senza mai guardarsi in faccia.
Erano ancora tra le strade, camminavano in silenzio, ora più distanti l'uno dall'altro, e per giunta con lo stomaco distrutto. D. sentiva una profonda nausea, avrebbe voluto vomitare, ma gli sembrava quasi inutile a questo punto. Uno strano vuoto gli tormentava l'animo: non si doveva fare qualcos'altro in quella sera?
Guardò C. come si guarda una cosa qualsiasi, ma una cosa qualsiasi che si ama. Sì, lui lo amava, ma non sapeva come dirlo, né a lui né tanto meno a se stesso. Dentro di sé era poco più che un sussurro, una certezza infondata nei fatti. Perché mai avrebbe dovuto amarlo?
"Senti," gli disse C.,"tu cosa vuoi fare? Altrimenti io andrei a casa."
"Potremmo giocare." propose D.
"Giocare? Sul serio?" rispose C., che non credeva alle sue orecchie, e istintivamente prese la mano a D. Questi ebbe un sussulto, poi un sorriso nervoso.
Così mano nella mano si avviarono, diretti alla meta predestinata. D. si sentiva felice: ora si sarebbe fatto qualcosa! Sì, certo, sapeva già cosa, ma questo non importava: "Andrà tutto bene," si diceva fiducioso. Lui odiava giocare, mal sopportava quel genere di cose, eppure, che altro fare?
Giunsero in un'altra piazza, nella periferia. Qui gli edifici erano molto più alti e opprimenti, con tutte le finestre accese nel buio della notte. Si udiva il latrare di molti cani.
Grandi pioppi si ergevano tra le aiuole disposte a triangolo nella piazza spazzata dal vento. Giornali ed altre cartacce rotolavano ovunque. Al centro c'era un'ampia discesa - uno scivolo scavato nell'asfalto - e sul bordo di questa tantissime sfere colorate.
"Andiamo! Forza, alle grosse biglie!" gridò C., trascinandosi dietro l'amico. E nella notte, indifferenti alla pioggia, si scagliarono sulle sfere con ferocia, colpendole e ridendo, buttandole giù dalla rampa in uno sfogo infantile, quasi volessero esorcizzare una paura inesprimibile a parole. D. si sforzava di partecipare alla gioia dell'amico, ma poi ci prese gusto: quella che gli era sempre sembrata un'idiozia, ecco che in quella notte lo liberava da ogni preoccupazione. Guardava ora C., ora le enormi biglie che si scagliavano nel baratro cozzando l'una sull'altra. Ah! Quanta felicità in corpo!
A lungo andare gli venne meno il fiato, si sedette a gambe incrociate per terra, rosso in volto dalla fatica. D. neppure se ne accorse, preso com'era dal suo gioco. Spingeva, urlava, spingeva, e a C. per un attimo sembrò che il numero delle sfere non diminuisse, che il gioco non potesse mai finire. Gli venne a noia guardarlo, e nuovamente uno strano vuoto gli pervase l'animo. D'istinto guardò il cielo a caccia di una luce, ma non una sola stella si mostrava, persino la luna era oppressa dalle nubi. Improvvise le lacrime gli sgorgarono dal viso, sintomo di una tristezza a lungo repressa. Gli piaceva molto scrivere, si portava sempre dietro un taccuino. Poeta scansafatiche lo chiamava qualcuno. Per dimostrare a sé stesso che qualcosa sentiva, prese la penna e scrisse di getto:

"Nell'universo sei loquace
muta luce finita che non posso capire,
nella certezza del vuoto
pietrifichi il cuore,
eppur ti sento
e ti voglio amare."

Nel leggerla si asciugò le lacrime, esaltato dai suoi stessi versi. C. gli si fece accanto, silenzioso, e senza farsi notare lesse quel che l'amico aveva scritto.
"Allora a modo tuo anche tu sei un'idiota." gli disse.
"Idiota?" chiese affranto D.
"Sì, le idiozie che hai appena scritto."
D. dapprima corrugò la fronte, mise via il taccuino, colpito nell'ego, sentendo vergogna per sé stesso e disprezzo per quelle parole incuranti dei suoi sentimenti. Cosa voleva da lui quel cretino che lo aveva portato ad abbassarsi a un comunissimo gioco di biglie? Lui era superiore! Solo lui poteva capire!
Poi C. scoppiò nel suo ennesimo risolino e gli cinse il collo con un braccio, facendosi sempre più vicino, sempre più vicino. D. sentì un brivido lungo la schiena, una verità implacabile infondergli l'animo, e rileggendo i suoi versi non poté fare altro che dire, felice:
"Sì, hai ragione, ho scritto proprio un'idiozia."
E di quelle ultime parole risero insieme, innamorati senza perché, vicini nella notte infinita priva di luce.
Il vento continuava a soffiare, i pioppi mormoravano inquieti, cercando inutilmente di farsi capire.
_____
Quando la mattina dopo, al nuovo calare del giorno (poiché la notte difficilmente è infinita nel vero senso della parola), D. fece ritorno nella casa paterna, fu per prima la madre a chiedergli:
"Allora, com'è andata?"
"Una merda, al solito" rispose lui, facendo spallucce. "Una noia mortale."
"Te l'avevo detto," disse lei ridacchiando, "quando ti decidi a mollarlo?" E visto che anche l'adorato figliolo rideva, la madre propose di berci sopra.
Nelle due ore successive si ubriacarono senza patemi di sorta. Il padre non partecipò, la sua testa era ancora buttata sul piatto dalla sera prima. Qualche mosca gli ronzava attorno: la dieta era stata troppo severa.

4
Altro / Re:Disgregazione
« il: Ottobre 19, 2012, 14:34:02 »
Grazie ragazzuoli  dharmas specialmente a nihil, i cui commenti sono sempre graditissimi.

5
Altro / Disgregazione
« il: Ottobre 16, 2012, 23:58:45 »

Disgregazione
_____________

Albert sognò di morire. Giaceva in una zona d'ombra, asfissiante e noiosa. Di lontano sentiva il fischio di un treno. Poi si palesò la prima carrozza, ed egli si vide già sotto le ruote, tranciato in due nell'oscurità.
Era convinto fosse giunta la morte, quando balzò fuori dal letto. Ma in pochi secondi tornò alla realtà: egli respirava a pieni polmoni. Solo ricordava l'oblio, il dolore vissuto nel sogno.
Eppure, indifferente al disagio, incatenato agli automatismi della banale giornata, si trasse di peso fuori dalle coperte. Pensò: "Devo lavorare."
Come sempre si guardò allo specchio, fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, addentò e bevve qualcosa. Appena pronto si trascinò all'aria aperta, masticando i resti della colazione. La sarabanda cittadina gli era indifferente. Nella testa aveva il banale ritornello di una canzone qualsiasi.
Il cielo mostrava rade nuvole che passeggiavano lente. Non vi buttò neppure uno sguardo. L'aria profumava di primavera, ma egli era privo di olfatto: il tempo e le stagioni passavano attraverso il suo corpo, senza rumore.
Nuovi colori sbocciavano nei viali alberati. D'ovunque edifici opachi. Era impossibile capire se fossero uffici o abitazioni private, tanto sottile era la differenza. Il traffico vibrava di vita autonoma. Albert camminava a schiena retta. Al rosso dei semafori si fermava e attendeva il suo turno.
Poiché non era mai giunto in ritardo, giunse a lavoro puntuale. Garantiva costanza. Timbrava passivo, sedeva alla scrivania, lavorava per inerzia. Teneva un ritmo sostenuto, come se un  meccanismo ne movesse il corpo in assenza dell'anima. Conseguiva ottimi risultati. Una calma neutralità lo preservava dall'errore. Era asciutto, incisivo. I superiori lo guardavano, approvando e plaudendo. Egli non si accorgeva di quella stima. Era poco esigente. Mai aveva chiesto un permesso, mai si era degnato di influenzarsi, né conosceva la promozione.
Quel giorno lavorava a testa china. Isolato, demoliva ogni stimolo esterno. Fu quindi con suo imbarazzo che un fischio lo colpì nelle orecchie, come una sberla.
Balzò in piedi, irrigidendosi con un pugno sollevato nell'aria. Sbattè le palpebre, vedendo che stringeva un timbro.
Da dove...?
Vide, accanto alla sua, molte scrivanie che si allungavano in linea retta. Dozzine di impiegati vi sedevano, sovrastati da colonne di fogli. Timbravano i documenti, li passavano al vicino di banco, muovendosi in sincronia. Nell'aria vibravano colpi ininterrotti.
Albert osservava quella catena di uomini e si mordeva la lingua. Viveva da estraneo in quell'ambiente.
Il vicino di banco lo guardava interdetto. "Il ciclo lavorativo non dovrebbe mai essere interrotto", gli disse, prendendolo a calci negli stinchi. Ed ecco che la paralisi venne meno: Albert si accese, e timbrava, timbrava, timbrava...
Nella mente una nebbiolina lo soffocava e conduceva all'incoscienza.
Ma un altro fischio lo prese d'assalto, questo più forte del precedente. La visione di un treno gli passò nel cervello. Giunse la paralisi, una forte emicrania.
Cosa faceva lì? Perché timbrava quei fogli? Sì, certo, era il suo lavoro; ma perché? Lo stipendio fu la prima risposta, e d'un tratto si vide al bancomat, intento a prelevare grossi fogli di carta.
Perché? Da cosa gli veniva il desiderio di sapere, sin ora estraneo?
Voleva chiedere spiegazioni ai colleghi, ma questi erano assenti ed immersi nella realtà. Poteva rivolgersi ai superiori, ma non sapeva dove si trovassero né che aspetto avessero.
Il vicino intanto era tornato a colpirlo. Albert rabbrividiva all'idea di reagire; desiderava isolarsi.
Per la prima volta fuggiva comprendendo di fuggire, agiva in piena coscienza di sé.
Voleva tornare alla sua vera natura, quella del vuoto, dell'incoscienza fine a sé stessa.
Sin da piccolo lo avevano spronato a scegliere un destino. Gli adulti mostravano un itinerario ed egli poteva sceglierne le tappe. "Cosa vuoi essere Albert?" chiedevano, ed egli scrollava la testa.
Non desiderava essere nulla, neppure desiderava d'essere il nulla, sebbene fosse destinato a incarnarlo. Conosceva il desiderio attraverso le parole altrui. Nel suo animo albergava il silenzio indifferente di una necessità senza coscienza di essere. Era inconsapevole, immune ai perché. L'automatismo del cuore lo spingeva a camminare, a godere della luce del sole, del sentire comune. Esisteva trascinato da una corrente, fluttuante sul precipizio nel quale non poteva sprofondare, poiché da quello stesso precipizio era nato. Il desiderio di morire gli era estraneo quanto quello di vivere.
La giornata lavorativa si protraeva lunga e interminabile. Albert ne soffriva. Il fischio e la visione del treno lo strenuavano a brevi intervalli. Egli cercava l'isolamento; le fughe duravano qualche minuto, forse qualche ora, in fede sua non sapeva dirlo: era confuso dallo scorrere del tempo di cui mai aveva avuto cognizione.
I nervi gli tendevano sotto la pelle. Forti mal di testa lo costringevano al dolore. Era chiaro che i colleghi detestavano la sua inadempienza. Forse anche un tempo aveva ricevuto quelle occhiate di disappunto, ora però le sentiva e ne era disturbato.
Nel rapporto con il prossimo Albert era sempre stato evanescente. Tante mani aveva stretto nel tempo, e in nessuna aveva percepito affinità o calore. Ora più che mai sentiva uno strano bisogno d'approvazione.
D'improvviso non seppe più trattenersi e disse al vicino: "Questi fogli... questi fogli sono bianchi."
"Non è una giustificazione." disse quell'altro, e lo fece di malavoglia, sibilando le parole a denti stretti.
"Sì, ma perché li timbriamo?"
"Perché li timbriamo."
"Dove finiscono?".
"Perché li timbriamo" ripeté il collega, e lo colpì sulle caviglie.
Albert svolse le rimanenti ore lavorative oppresso da un'attenzione febbricitante. Squadrava gli effimeri dettagli dell'ufficio, convinto di trovarvi la risposta alle sue domande, il perché di quell'affannarsi.
Il locale era uno stanzone disadorno, bianco nelle quattro pareti, senza finestre né mobilio, a parte l'immensa fila delle scrivanie. Ai piedi di questa, dentro un'enorme teca di vetro, grazie a quattro ventilatori, turbinavo centinaia di fogli.
Albert notò che all'interno di quel vortice si nascondeva qualcuno. Due uomini in divisa stavano là, a gambe incrociate, con la schiena curva e l'aria da malinconici pensatori.
Che fossero loro i superiori?
Del resto, se non superiori, erano diversi dagli altri. Albert voleva porre loro qualche domanda. Purtroppo il suo turno era finito: un allarme sonoro ricordava agli addetti che era giunto il momento di recarsi a casa; bisognava dedicarsi al tempo libero.
Albert, che si era attardato a lasciare la sua scrivania, nella stanza ormai priva di esseri umani, si avvicinò alla gabbia di vetro. Ma subito un terzo uomo sbucato alle sue spalle gli intimò di timbrare e lasciare l'ufficio.
"Lei è un superiore?" gli chiese Albert mentre quello si lisciava i lunghi baffi sotto il naso adunco.
"Io sono." gli rispose l'uomo in tono autoritario. "Per tanto timbri, e vada a casa."
E Albert andò a casa.
L'aria era sempre viziata dalla primavera. Albert, inondato sino al cervello da quell'odore nuovo e inaspettato, scelse di passare attraverso i viali alberati.
Dalle strade adiacenti, personaggi ambigui lo indicavano. Alcuni bambini grassocci si attaccavano ai finestrini delle macchine e si battevano il sedere.
Il fischio gli rintronò nelle orecchie e lo costrinse a inginocchiarsi. La testa gli esplodeva tra le immagini del treno. Sangue nero gli scendeva dalle narici. Desiderava morire.
Con il fiato corto, una mano stretta al petto, tossiva nel tentativo di alzarsi. Le macchine si accostavano e lo molestavano tra grida e risate di scherno.
Un urlo liberatorio gli proruppe dal cuore e riuscì a mettersi in piedi. Il mondo barcollava tutt'intorno. Non si vedeva più niente se non una distesa bianca, senza confini, come una gigantesca salina.  L'odore della primavera era stato sostituito da un miasma simile alla candeggina.
Di colpo ai suoi lati due treni sfrecciarono roboanti, lunghi e senza fine, tra migliaia di carrozze. Al loro passaggio quel piattume bianco si strappava e svelava squarci di un abisso nero e insondabile.
Albert si rattrapì al suolo, le mani strette ai timpani: era quello l'aspetto del mondo in cui viveva?
Poi la crisi passò. Giunse il silenzio. Una pace soffice e consolatrice. Ogni cosa sembrava andare per il meglio. Albert tirò un sospiro e svenne.
Al suo risveglio era nel letto di casa. Il sole del mattino inondava la stanza dando nuova vita ad ogni cosa. Se ne riparò con una mano, come sempre si alzò dal letto, come sempre si guardò allo specchio, come sempre fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, e... dapprima un ronzio, poi il fischio, inesorabile, piombarono nella sua testa a ricordo delle sofferenze del... del giorno prima?
Quando era successo? si chiese Albert - quanto tempo era rimasto privo di sensi? Com'era tornato a casa?
Le domande erano tante, ma il tempo stringeva, l'orologio indicava l'ora, e non poteva sbagliarsi: era un nuovo giorno, una nuova mattina, Albert doveva entrare in turno di lì a mezz'ora, quindi non poteva supporre, non poteva domandare, doveva solo agire, mangiare, vestirsi, lavarsi, vivere, camminare, fare, far, ar, f.
Ed infatti così fece. La colazione gli colava giù per il tubo digerente, sana e leggera come da consuetudine.
D'istinto si passò una mano sul labbro. Toccò qualcosa d'appuntito. Era un foglio accartocciato dentro la sua bocca. La nausea gli salì alla gola, traballò sulla sedia e dallo spavento cascò al suolo. Teneva le mani premute a terra e vomitava. Poi si alzò a fatica in preda alle vertigini, minacciando di cadere da un momento all'altro.
La paura di sapere perché, più della paura di volere quel perché, lo faceva bestemmiare invano. Quante altre volte aveva vissuto lo stesso fenomeno continuando a esistere senza problemi, incosciente di quel male incurabile! Maledetto treno!
Percepì un calcio agli stinchi, sobbalzò, come sbalzato da una dimensione all'altra. Era seduto alla scrivania. Il vicino di banco lo guardava sprezzante. "Sono stufo di te." osò dirgli, guardandosi rapido attorno e riprendendo il lavoro.
Nulla nell'ufficio era mutato. Ad Albert sembrava che i suoi colleghi masticassero carta e ne strappassero brandelli dalla bocca. Quelle labbra serrate, bianche e pallide, si sfibravano come filamenti cartacei.
"Sono di carta, sono tutti di carta," gli venne in mente al colmo della disperazione. "No, no, ero a casa, adesso di colpo sono in ufficio..." si diceva, e d'un tratto comprese la sua ingenuità: dietro la porta spalancata dell'ufficio c'era la sua cucina. Gridare gli sembrò quasi inutile.
"Fuggo, provo a fuggire di nuovo..." si disse, e cercò la pace fasulla della sua natura. Immergersi nella meditazione, chiudere gli occhi, continuare a timbrare. Non conta altro, non conta altro, si ripeteva, non voglio sapere e devo dimenticare. Appongo i timbri, faccio finta di nulla, placidamente percorro il sentiero donatomi dall'esistenza, non conta altro, non conta altro, timbro, e timbro ancora.
Piangeva a dirotto, sopraffatto da sentimenti sconosciuti. Nel profondo malediceva quel fischio che lo aveva sottratto alla cecità, senza donargli la forza di reagire. Non aveva volontà, interesse, quell'ambizione che indirizza verso nuove strade. Gravido di uno scetticismo universale, pensava che il vuoto fosse ovunque, indipendentemente da dove si gettasse lo sguardo.
Era tormentato tra il desiderio di sapere, mai conosciuto, e il desiderio d'incoscienza anch'esso mai conosciuto e generato dal primo.
Quel giorno, in ufficio, venne il medico aziendale per una visita di rito. Albert, che pensava al medico come ad un dio terreno, gli andò incontro a braccia aperte: ma quale fu il suo terrore quando l'anziano signore lo accolse nell'ambulatorio con un "Ciuff Ciuff" divertito.
"Signov Albevt, Signov Albevt," gli disse il medico, "pvoblema con tvenivo? Pvoblema?", e si sedette sul tavolo di marmo al centro dell'ambulatorio, dove un trenino elettrico si muoveva a spirale.
E così Albert tornò al lavoro: timbrava, timbrava, ignorava le lacrime, sentiva gli sguardi delusi dei colleghi.
"Perché!?" urlò, scoppiando in un crisi isterica. Batteva i pugni sulla scrivania: nessuno gli faceva caso o lo ammoniva, poiché il suo turno era finito.
"Non ti licenzieremo, mi dispiace." gli disse uno dei prigionieri della gabbia di vetro.
Albert, che adesso dubitava anche di quell'uomo a cui prima si sarebbe offerto in sacrificio, scappò sbattendosi dietro tutte le porte possibili, maledicendo ogni cosa, e in particolar modo il Creatore.
Sì, Dio, ecco!, era quello il nuovo nome che gli fischiave nelle orecchie: lui, ancor più terribile del treno, e forse suo gemello, lui il tiranno che lo aveva destinato all'incapacità di volere, imprigionandolo in quel mondo di carta!
Che poi, era davvero questo Dio il colpevole? Chi era Dio? Non ne sapeva nulla, lui, di Dio! Era una parola come un'altra nella sua bocca, il pretesto per appigliarsi a qualcosa: uno sfogo di poco conto. Ne aveva sentito parlare un giorno: unico creatore del cielo e della terra, qualcuno aveva detto; ma non era forse una menzogna in quella vita senza senso, o era forse Dio a essere senza senso? Quale logica perseguiva? Chi era? Era Dio il suo nome o non ne aveva nessuno? A chi rivolgersi? A chi ribellarsi? Chi bestemmiare?
Stanco e affranto, Albert correva incontro alla sua via d'uscita.

"Che abbia trovato la via giusta
nella mia via giusta," pensò, come in delirio.


Il fischio nelle orecchie era tornato a scuotergli le sinapsi. Vedeva doppio, triplo, sangue nero gli colava dalle narici. Correva, correva verso la salvezza: verso la stazione.
Quando vi giunse controllò gli arrivi: il primo treno del primo binario avrebbe fatto al caso suo, e dopo un attesa spasmodica, con quindici minuti di ritardo tipico dei treni ad alta velocità, Albert si lanciò tra le ruote della prima carrozza, urlando al cielo la sua ribellione.
Ma non si fece nulla. Neppure un graffio.
Provò la sensazione di venire meno, di cessare di essere, e come da un sogno si svegliò sul binario, circondato da spettatori d'ogni età che gli ridevano in faccia.
Ragazzi cenciosi e donne anziane in vestiti variopinti lo circondavano tra i flash delle macchinette fotografiche; qualcuno filmava.
Come...? Eppure aveva sentito il peso del macchinario!, il dolore strappargli via le ossa!, il sangue spruzzargli fuori dalle vene; possibile si fosse immaginato tutto?
"Dio, che tu sia maledetto Dio! Chi sei!? Ci sei!? Voglio sapere!" gridava, coi pugni all'aria, travolto dalle risate degli spettatori che si affollavano sul primo binario.
"Aspetto il prossimo!" gridò anche a loro, "il prossimo sarà quello giusto!"
Al treno successivo non cambiò nulla. Albert provava la morte, la intuiva, non cessava di esigerla, ma persino il suo corpo rimaneva integro, come immune al passaggio del treno. "Sono fatto di una carta dalla quale si può passare attraverso," si disse, oppresso dall'onnipotenza di quel mistero.
E dopo lunghi insuccessi cadde svenuto. Al mattino seguente si svegliò. Era di nuovo a casa. Si trasse fuori dalle coperte, come sempre guardò il sole benevolo, come sempre fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, e andò a lavoro con un piano ben preciso.
Esasperato da quel fattore sconosciuto che gli proibiva di mettere fine ai suoi dolori, per dispetto appiccò un incendio nell'ufficio.
"Vediamo, vediamo se adesso non mi licenziate!" gridava, ridendo tra le fiamme che inghiottivano il mondo e i colleghi. Il fuoco si sprigionava intorno, pire umane correvano ovunque, gettandosi e rotolandosi al suolo.
Aveva bloccato tutte le uscite, era deciso a immolarsi nella speranza di morire. Vomitò l'anima quando vide che i colleghi, sebbene avvolti nelle fiamme, non urlavano dalla disperazione, bensì ridevano inebriati d'una felicità insensata.
Alcuni, fermi sul posto, in piedi sulle scrivanie, lo plaudivano sganasciandosi dalle risa. Danzavano simili a fuochi fatui. Odore dolciastro di carne si spandeva nell'aria insieme al fischio inesorabile del treno.
"Perché!?" imprecò Albert, che voleva vederli contorcersi dal dolore, accomunati a lui dalla sofferenza.
Non si sorprese quando di colpo si ritrovò fuori dalla stanza. Era sulla strada di fronte al palazzo degli uffici impiegatizi. Osservava le fiamme divampare dalle finestre dei piani più alti, tra dense colonne di fumo. Alcune sagome si lanciavano nel vuoto e si abbattevano al suolo come stelle cadenti.
La morte li aveva presi, una morte felice, ed Albert provava nei loro confronti un'invidia più insidiosa delle altre, poiché sconosciuta.
Un uomo lo avvicinò, osservando quello spettacolo di rivolta e distruzione.
Era vestito in giacca e cravatta, grigio ed immobile nella sua eleganza sfarzosa. Un monocolo gli brillava all'occhio sinistro. Disse, atono, stringendo la mano ad Albert: "Lei quest'oggi ha ottenuto promozione. Signor Albert, lei appena effettuato svolta nella sua vita: WhitePlus Inc. le impone contratto tempo indeterminato come Operatore Incendiario, impossibilità licenziamento, ottima paga."
E rovistandosi nelle tasche ne trasse un lungo contratto che Albert, con suo tenue stupore, sembrava aver firmato qualche anno prima. Siccome si toccava la testa, e un nuovo treno sicuramente incombeva, il funzionario aziendale gli diede una pastiglia contro il dolore. "Duole, lei, vero?" chiese non curante, "Passerà lei."
Passò difatti. Quando Albert il giorno dopo si alzò di nuovo nello stesso letto di sempre, non si stupì per nulla: ogni mattina tornò ad alzarsi puntuale. Andava in un nuovo ufficio uguale a quello precedente, e vi dava fuoco con calma e incoscienza. Veniva pagato a percentuale: più decessi causava, maggiore era l'incasso.
Nel suo settore divenne un'artista: appiccava incendi alla moda, d'un certo spessore. I pompieri gli fornivano l'occorrente. La polizia si congratulava, poiché sapeva con quale passiva dedizione egli si cimentasse nel mestiere.
I dipendenti degli uffici lo attendevano gioiosi, scattanti all'idea di bruciare per mano dell'innovatore del dolo.
Albert li guardava prendere fuoco come fogli di carta, perdersi nella cenere, andare verso la morte, felici; ma era tornato all'inconscienza: non sapeva più di provare invidia, non sapeva più di provare dolore.
C'erano tantissimi uffici da bruciare, il lavoro non gli mancava, e sebbene non ne fosse consapevole, negli anni perse ogni speranza ma non perciò divenne un uomo disperato.

6
Horror / Re:Sull'autobus - prima parte
« il: Aprile 11, 2012, 17:37:57 »
Citazione
vita da pendolare?

Ahahaha.. sì, mi hai beccato, quaranta minuti di autobus al giorno.

7
Altro / Immolarsi
« il: Febbraio 15, 2012, 22:47:09 »
Ricordo, ricordo un parco...
E forse era un sogno, perché il parco... bé, il parco era immenso, tetro, illuminato dai soffici raggi lunari. Faceva un bel fresco, di quelli notturni, di cui talvolta sembra quasi di potersi saziare.
C'era odore di libertà, ma anche un particolare tanfo di benzina. Lunghe ombre si stagliavano tristi, tra gli alberi rumorosi e le placide e inerti panchine di legno. Qualche foglia rotolava piano piano, come a non volersi far sentire, ma più era cauta, più...
E.. sì, sì, doveva essere un sogno. E del resto, perché mai non doveva esserlo? Chi si aggira a quell'ora di notte in un parco?
Di certo non io, e forse neppure coloro che mi circondavano.
Non ero difatti solo.
Disposte in cerchio con il sottoscritto c'erano almeno una cinquantina di persone. Gente casuale, di quella che si confonde facilmente nella folla, di cui non noti nulla perché non vuoi notare nulla. Buona parte si massaggiava di continuo il mento, con totale tranquillità e un espressione in viso che suggeriva pensieri profondi; come avessero voluto ostentare un qualche tipo di conoscenza superiore.
Di primo impatto mi piacque, di questi individui, l'assoluto silenzio. Purtroppo questo non era destinato a durare a lungo. Ben presto difatti capii dì essere partecipe a un piccolo spettacolo, credo una cosa di poco conto, ma comunque abbastanza importante per dare aria alla bocca di quei rispettabilissimi signori dal mento indurito.
Protagonista di questo intrattenimento era un giovane piantato come un palo proprio al centro del nostro assemblamento.
Da lui ci separavano una trentina di passi. Lo accerchievamo. Era quanto bastava a renderlo isolato. Indossava giacca e cravatta, un cappello a larghe falde (nella speranza di coprire un incipiente calvizie),  e aveva occhi irrequieti e ansiosi che sembravano schizzargli ora da una parte ora dall'altra, come alla ricerca di possibili pericoli.
"Che nessuno, che nessuno mi fermi," borbottò sin da quando ebbi coscienza di vederlo, e, mentre con una mano ben aperta in segno di stop, si teneva a distanza da noi curiosi, con l'altra si versava addosso del liquido scuro da una tanica marrone; la poggiò a terra dopo essersi imbevuto per benino.
"Perché, perché si vuole far del male?" chiese uno dei miei compari, e fu come se la domanda fosse stata posta anche da tutti gli altri in coro.
"Qui vorrei precisare," disse il giovane, "che non voglio farmi del male, bensì voglio darmi fuoco!"
"C'è una bella differenza!," aggiunse poi, e, mutato il volto nella più ferrea maschera di compunzione, si mise a cercare qualcosa nelle tasche. Muoveva solo le mani, freneticamente, e con gli occhi ci invitava a sfidarlo.
La puzza di benzina era un avvertimento piuttosto chiaro, eppure tra di noi qualcuno se la rideva, se pur sommessamente. Il giovane però non sembrò dar peso a quell'evidente scherno.
"Non cerco.. non voglio la vostra approvazione, né il vostro aiuto. Andate, andate via!" disse, continuando maldestramente a setacciarsi le tasche. Dovevano essere enormi, e quante cose contenevano! Con il passare del tempo vicino ai suoi piedi si vennero a creare montagnette di foglietti sbiaditi, scontrini fiscali accortocciati e non, tessere del videonoleggio, della libreria; insomma, di tutto fuorché un portafoglio.
"Ci dica almeno perché, ci racconti la sua storia," incalzarono nuovamente in due o tre. Ed erano decisamente i più preoccupati. I restanti sbadigliavano un po' risentiti. Si sentivano commenti poco gradevoli, bisbigliati con aria di complotto: "Ma quando si decide?" "Qui facciamo l'alba!" "Che delusione." "Tornerei a casa volentieri, mi aspettano degli ospiti domani e.." "Vedi tu che ha dimenticato.."
Notai che i più audaci offrivano loro stessi l'accendino al giovane. Ma questi rifiutava con sdegno.
"No, solo con il mio! Il mio! Dev'essere il mio! Cosa volete da me? Perché siete qui? Potreste, potreste non osservare?" diceva frugandosi ormai anche nei calzini a caccia del suo strumento fatale.
Poi alle continue e insistenti domande di chi voleva sapere, rispose che il suo non era un gesto di protesta, che non voleva rivendicare una vita difficile, una storia di povertà o maltrattamento, né tantomeno era disoccupato o in preda a chissà quale morbosa depressione. Semplicemente desiderava darsi fuoco.
"E perché ha scelto un luogo pubblico?"
"Saranno pur fatti miei!"
E detto ciò si dilungò nel spiegare che di certo non si aspettava che in un parco, alle quattro di notte passate, potessero esserci una tale quantità di appassionati curiosi e professionisti del sociale. Uno dei tanti detrattori del giovane suicida, un uomo sulla quarantina infagottato in un maglione a rombi rosa, sì obbligò a fare un passo, tremando come una foglia, e si sperticò in una ramanzina sconcertante.
"No, ma deve capire che essendo un luogo pubblico.. cioé.. disturba.. e.. poi, di quale utilità è? Sà, lo si dice per lei, se ne ricavasse qualcosa da questa scemenza.. magari.. Domani, assolutamente domani in centro città, a mezzogiorno, in piazza! Ho degli amici in comune, potremmo organizzare la cosa.. acquisterebbe una certa notorietà.."
In molti approvarono quel discorsetto. Il suicida mostrò il pugno all'uomo che aveva osato avvicinarsi.
"Scusi.. ma andare a casa sua a fare certe cose, no eh?" biascicò da qualche parte una voce femminile intrisa di vera indignazione.
Intercettai con la coda dell'occhio costei e, notai basito che tutta quell'indignazione non l'aiutava di certo a muovere un solo passo da qualche altra parte. Ma del resto non potevo giudicarla, io stesso non riuscivo ad andarmene.
Ero fulminato dalla curiosità. Anzi, non che io fossi realmente curioso, ma dentro di me ugualmente sentivo qualcosa di simile alla curiosità, una specie di richiamo affascinante, e per forza di cose, per quanto ne fossi inorridito, il mio corpo si rifiutava di assecondare il disgusto che provavo in quel momento verso me stesso. Ricordo che proprio allora ebbi la chiara visione di un incidente stradale, di corpi carbonizzati tra le lamiere, e nelle tasche forse, invece di un accendino, cercai una macchina fotografica.
Poi sputai per terra, contrariato.
Ah! Infame debolezza! Ancora poco e avrei aperto anch'io la bocca insieme a tutti quegli altri! Riuscivo solo a odiarmi, a odiarmi senza tregua.
Il giovane nel mentre aveva finalmente trovato il suo amato accendino, uno di quelli a benzina, costosi, ricaricabili, tutto tutto platinato. "Guarda.. guarda che accendino.." bofonchiò qualcuno, "No no, non è disoccupato."
Notai che il ragazzo avrebbe voluto seguire il consiglio della signora; era evidente che non se la sentiva più di darsi in pasto al suo pubblico, e, tentennante, indietreggiava a caccia di una via di fuga.
Ma ugualmente si guardava attorno sperduto, spaurito, con il terrore vivo come non mai negli occhi. Forse in quegli istanti pensava che qualche brav'uomo gli sarebbe saltato addosso per consegnarlo ad un istituto d'igiene mentale, alla polizia, o a qualche altra associazione benefica, a salvaguardia della vita umana e del prossimo, ma soprattutto dell'equilibrio e della serenità da cui dipende l'ordine pubblico. E i suoi timori avevano fondamento, poiché, del mio gruppo non ce n'era uno solo che, se pur mostrando un apparente disinteresse alla sorte del malcapitato, indietreggiasse o lo lasciasse libero di scappare.
Anzi, ora che l'uomo aveva trovato l'accendino, ecco che gli osservatori prendevano coraggio e di passettino in passettino lo stringevano sempre più in una morsa letale. Avrei voluto aiutarlo ma da solo non potevo fare la differenza, né tantomeno sentivo di possedere le capacità adatte a corrompere qualcuno dei miei compagni di sventure.
Di salvarlo dalle fiamme non né avevo alcuna intenzione: non erano fatti miei quel che voleva fare del suo corpo. E da sempre ricordo le parole di una canzone famosa, da me pienamente condivise:

"Io sono libero di morire quando lo desidero."

Sicché, ancora immobile nel mio rimescolio di pensieri contradditori e di rimorso cocente, venni spinto in avanti da due signori che mi tenevano stretto stretto per le ascelle.
Erano due bassi omini pelosi, con la coppola grigia e dai cui sguardi potevo chiaramente leggere: "Lo sappiamo, lo sappiamo cosa vorresti fare.."
"Lontani, lontani," gridava disperato il suicida, e ci minacciava vanamente con l'accendino proteso verso tutti quei volti a lui ostili.
Ma in cuor suo penso avesse timore di coinvolgere qualcuno nelle fiamme.
Quell'uomo aveva scelto uno spiazzo isolato del parco, forse per tramutarsi in cenere senza recare danno alcuno neppure agli alberi. Immaginai che avesse scelto questo luogo appunto per rimirare per un ultima volta quel poco di verde che aveva da offrire la città, lo spettacolo della luna, il fragile silenzio di quella notte stellata.
Ma erano solo supposizioni, non osai chiedere. Anzi, mi vergognai di quelle supposizioni!
La piccola cerchia avanzò lentamente d'un altro passo. Sembrava volessero, anzi, sembrava volessimo torturarlo piano piano, toglierli il respiro a poco a poco, sadicamente. In quell'istante dalla disperazione dei suoi occhi capì che aveva compreso: ormai non si sarebbe potuto più togliere la vita neppure di fronte a noi! Il rischio di un incidente era troppo elevato, o al primo tentativo qualche onesto cittadino (poiché ce n'è sempre qualcuno) si sarebbe scagliato verso la sua mano tentando di portargli via l'accendino. "Perché? Cosa volete?" mormorava tra sé e sé, come un disco rotto.
Era incredibile come nel mio gruppo tutti fossero compatti nell'accerchiarlo nonostante il vociare indicasse sempre i differenti propositi. C'era sempre chi si augurava che facesse in fretta, altri che volevano salvarlo, chi ancora consigliava di rimandare la cosa all'indomani per un successo garantito di pubblico, etc...
Ma ora tutte queste cose le bisbigliavano sommessamente, in un brusio continuo, con gli occhi luccicanti di un piacere vibrante e sconosciuto.
Pure io mi sentii gli occhi bagnati, ma, con mio stupore, non ebbi la debolezza di pensare a delle lacrime. Anche la mia era sordida eccitazione, e non potevo evitarla; mi ero come sdoppiato: la voce della mia coscienza, di un altro me, risuonava dalle profondità di un lungo e buio cunicolo, infliggendomi terribili tormenti.
Ma erano utili solo a sentirmi umano. In un flash vidi ancora macchine contorte, corpi carbonizzati, impietose sirene di ambulanze... e nella mia testa già si andava formando una volontà superiore, un piano ben preciso, per sfuggire a quell'orribile supplizio. Dovevo solo tentare la fortuna, solo tentare la fortuna, solo tentare la fortuna... e... con un colpo veloce mi liberai dei miei aguzzini, e sgusciai veloce verso la nostra vittima. Di primo impatto lui rimise in tasca l'accendino, parandosi il volto con le mani, ma io mi ero già apprestato alla sua tanica, rovesciandola speranzoso sulla mia testa.
Tirai un sospiro di sollievo scoprendo che avevo avuto fortuna: c'era ancora abbastanza benzina anche per me. Guardando i miei ex compagni con occhio di sfida gridai:
"Mi darò fuoco! Ma con un accendino a vostra scelta! Tirate a sorte!"
Io sì, io volevo attenzione. E quella variante, se pur banale, colpì nel segno l'uomo alla costante ricerca di una novità.
La piccola folla ammutolì di colpo, si fermò come una combricola da cui sprizza quel tanto di vita che si può vedere in un gruppo di morti viventi disorientati. Notai felicemente che alcuni di loro già tornavano a lisciarsi il mento, e indietreggiavano osservandomi incuriositi.
Altri ancora si stropicciavano le mani. Ero il nuovo fenomeno del momento, assai più interessante di quello vecchio, poiché avevo sicuramente motivazioni differenti dalle sue, da studiare, da capire, da contestare, in profondità, in tutte le direzioni, bramosamente, fino a rosicchiarne le ossicina. E poi, accipicchia, si poteva tirare a sorte e scegliere l'accendino!
Il ragazzo suicida mi guardò con occhi letteralmente fuori dalle orbite, forse voleva chiedermi perché, perché lo avessi fatto, ma suppongo non ne avesse il coraggio, e così supposi un altra volta, e un altra volta nella mia supposizione risposi:
"Io sono libero di morire quando lo desidero."
Forse la mia ipotesi era corretta, perché lui sorrise, mi strinse la mano, e un attimo dopo già correva lontano, ormai dimenticato dalla folla che adesso aveva occhi solo per me.
Un minuto dopo vidi in lontananza un piccolo fuoco che avvampava frenetico; che danzava libero nell'oscurità di una notte dove la luna era già sepolta da fitte nubi. Alle narici mi arrivava un tenue odore di carne bruciata.
"Allora," dissi a quelle carcasse, "Chi tira per primo a sorte?"
Ma quelli neppure mi risposero, e da subito compresi a cos'ero destinato.
Il primo chiese:
"Perché, perché si vuole dare fuoco?"
Oh, c'era stata quindi un'evoluzione!
Ma non mi interessava seguirne il seguito, e quindi mi accinsi a rompere a mia volta le regole del gioco: estrassi il mio accendino finché avevo tempo a disposizione. Osservai la lunga fiamma, mentre quelli già avanzano borbottando le solite frasi sconnesse.
Pensai: "Per quale motivo dovrei farlo? In fondo non mi sono già immolato?"
E difatti suppongo che un motivo non c'era... eppure quel fuoco, maledizione, quel fuoco era così invitante...
Ma ripensandoci bene... forse... forse, sì, forse era stato solo un sogno.

8
Altro / Re:La fossa
« il: Gennaio 09, 2012, 18:58:06 »
E' un'ottima interpretazione, non ci avevo pensato  :) Il racconto è per buona parte scritto sulle basi di un mio sogno.

9
Altro / La fossa
« il: Gennaio 05, 2012, 17:04:11 »
Falth passeggiava tranquillo quando d'un tratto la terra gli crollò sotto i piedi. Non fece in tempo a reagire, subì la caduta passivamente, come un infarto, e perse i sensi.
Poi si svegliò sdraiato supino in una grande buca. Aveva abiti e capelli pieni di polvere ma, per sua fortuna, sembrava non aver riportato nessuna ferita. Sentiva solo un po' di indolenzimento al collo e un fastidioso prurito agli occhi. Sopra di lui il cielo sembrava l'unica via di fuga e un rumore indefinito, come di macchinari in funzione, comprimeva l'aria ronzando tutt'intorno. Di secondo in secondo cresceva d'intensità. Falth pensò d'essere all'inferno, ma ben presto si dovette ricredere, poiché due operai si affacciarono dall'alto osservandolo incuriositi. Indossavano larghe camicie a quadri e scintillanti elmetti di protezione. Sulle prime non dissero nulla, poi con un tono contrito, come controvoglia, sputacchiarono qualche parola.
"Ci sono dei lavori in corso." disse uno.
"Dovrebbe fare più attenzione." aggiunse l'altro.
"Non erano segnalati." rispose Falth
Nel mentre si era alzato e, a piccoli passi, misurava larghezza e profondità della sua prigione. Le pareti, un misto di terriccio e sporgenze di pietra, erano alte il doppio dell'uomo. Non sarebbe riuscito a uscirne senza aiuto.
Purtroppo i due operai non sembravano minimamente interessati alla presunta gravità della situazione; sostavano da quelle parti, come fossero di passaggio e nulla più. La loro morbosa curiosità ricordava vagamente quella dello spettatore tra le gabbie dello zoo. Si erano accesi una sigaretta e scandivano il tempo con le grosse scarpe antinfortunistiche, ben attenti a non scivolare di sotto.
Falth volle sollecitarli. Prese un po' di terriccio e glielo lanciò verso gli occhi.
"Allora? Cosa fate là impalati? Volete darmi una mano?" chiese con stizza.
"Dovrebbe fare più attenzione." ripeterono i due, poi, lanciati a terra i mozziconi, si voltarono sparendo a passo svelto.
Falth li sentì persino correre. Pensò che fossero andati a cercare aiuto: in fondo da soli non potevano fare granché. Il loro atteggiamento non faceva ben sperare, ma Falth riponeva fiducia un po' in chiunque; quando la situazione lo richiedeva egli era capace di mettersi completamente nelle mani del prossimo. Del resto la sola idea di arrampicarsi lo metteva in soggezione. Aveva provato a sfiorare una delle pareti e la sensazione era stata di sconforto totale, come se anche solo poggiandovi una mano potesse provocare un altro crollo.
Con suo gran sollievo gli operai apparvero nuovamente sul bordo della fossa. Tra le mani callose tenevano due grosse pale di ferro.
"Le vede queste?" chiesero a Falth, e agitarono gli arnesi al vento come fossero soddisfatti di possederli. Falth fece per rispondere ma ancor prima che aprisse bocca i due lo inondarono di terriccio bagnato. Palata dopo palata, veloci e solerti, sembravano più che intenzionati a seppellirlo vivo nella fossa.
Falth di primo impatto si coprì il viso, tentò di chiamare aiuto ma ogni parola gli rimaneva incastrata nella cassa toracica. La terra non gli arrivava ancora al ginocchio quando cominciò a irrigidirsi a causa del panico. Sentiva le cavità nasali otturate, gli occhi ormai prossimi a spegnersi, misurava ogni battito convulso del cuore, e un folle desiderio di morire al più presto gli martellava ferocemente nelle tempie.
La paura era tale che subentrò uno stato simile all'incoscienza. Lo seppellirono senza patemi. Fu come un istante. Dal giorno alla notte in un solo momento.
Con suo grande terrore si risvegliò, aprì gli occhi e ovunque non c'era altro che il vuoto di un'avvilente oscurità. Riusciva a pensare e non gli piaceva proprio per niente: se pensava allora non era morto, se sentiva qualcosa allora non era morto: e se invece fosse stato quello il destino dell'uomo dopo la vita terrena? Condannato ad ascoltare per l'eternità; immobile, eppure in movimento; in pace, eppure senza riposo.
Poi d'un tratto si sentì come sbalzato, lanciato velocemente dentro e fuori quell'impalpabile buio, e lo scenario cambiò ai suoi occhi in un secondo.
Una distesa di sabbia nera si spandeva uniformemente, senza confini, fin dove Falth poteva vedere. Qua e là spuntavano sterpaglie bruciate, tronchi di alberi spogli e numerosi cumuli di grosse pietre bianche. Il cielo era di un pallore cadaverico, come appiccicoso, colmo di nubi sottili. Nell'aria vibrava un ronzio insopportabile.
Superato il primo momento di perplessità e inquietudine, Falth tentò di muoversi per cercare risposte, per sfuggire a quell'abberrazione. Ma fare anche un solo passo gli risultò impossibile. Guardando verso il basso si accorse di non avere più i piedi; e non solo: in lui non c'era nulla di umano. Era diventato di pietra. Era diventato un muro di pietra. Poteva solo osservare, passivo e imperturbabile. Avrebbe voluto sradicarsi dal suolo, ma un inaspettato istinto di conservazione gli suggerì che quella mossa avrebbe solo peggiorato le cose. Sentiva che quella strana sabbia gli forniva un qualche tipo di nutrimento, una fonte di vita a cui attingere.
Un bambino tozzo, dai capelli castani, gli apparve di fronte come un sontuoso miraggio. Due lunghi incisivi gli spuntavano dalle labbra rendendolo in tutto e per tutto un castoro. Con un gesto rapido si abbassò i pantaloni urinando sopra quello che un tempo era stato un uomo.
Falth non sentì né il minimo ribrezzo, né il minimo calore: sentimenti, reazioni umane, sensazioni, erano svaniti lasciando spazio ad un estasiante bisogno inconfessabile di subire, subire e ancora subire. Pian piano apparvero altri bambini e il muro divenne loro compagno di giochi. Alcuni ci disegnavano sopra, altri lo prendevano a calci; c'era chi semplicemente mostrava il posteriore o si sprecava in insulti.
"Ancora! Ancora", pensava il muro, "Resisto! Resisto! Non potete farmi niente! Non potete farmi niente! Sono indistruttibile!"
Avrebbe riso se ai muri fosse concesso di ridere. Ben presto Falth capì che più angherie sopportava, più cresceva rafforzandosi e allungandosi a piacimento. Era quello l'obiettivo della sua nuova natura: dimostrare. Mentiva a sé stesso, fingeva una soddisfazione propria degli uomini, mentre superava in altezza altri muri che di minuto in minuto sbucavano lentamente da quel suolo malato. Di centimetro in centimetro, approdando su nuovi piani, Falth affrontava passivamente nuove difficoltà; era ormai in ascesa, oltre il cielo, e udiva chiaramente voci sconosciute, di incoraggiamento, tese ad elogiare la sua foggia, il suo valore di resistenza. Gigantesche mani apparivano e applaudivano tutt'intorno a lui, in cerchio, come una giostra di immagini veloci e sfocate; lo incitavano, lo incitavano a continuare.
"Resisto! Cresco, cresco e resisto! Nulla mi può scalfire! Nulla!"
Poi d'improvviso tutto svanì, Falth si sentì scrollare da parte a parte, scosso all'interno, strappato dalla sua nuova vita. Era sul bordo di una grande buca, profonda almeno una dozzina di metri, e due operai lo scuotevano al pari di un vecchio straccio. "Cosa dici? Cosa ti deve scalfire?" lo apostrofò uno dei due schiaffeggiandolo.
Falth lo ignorò, intontito, come un perfetto ebete. Non rispose nulla né azzardò una qualche reazione. I due operai continuavano a parlargli, a cercare di capire in che condizioni versasse, lo esortavano a dire il suo nome.
Falth non poteva sentirli. Una cacofonia devastante gli assediava il cervello.
Nella zona la manovalanza effettuava scavi a casaccio, senza utilità alcuna, trivellando il terreno con veri e propri eserciti di martelli pneumatici. Non si contavano le bocche spalancate in grida silenziose, i pugni tesi minacciosamente ad aumentare il ritmo lavorativo; alte impalcature d'acciaio, intrecciate tra loro in un labirinto senza fine, serpeggiavano brulicando di migliaia di operai. Il clangore metallico degli attrezzi da lavoro risuonava cupo, simile a un eco infernale. Al centro del cantiere, conficcate a X, svettavano sopra ogni cosa due monolitiche colonne di un viscido metallo nero. Talvolta dalla struttura scaturivano spessi strati di pulviscolo e lunghi getti di vapore. In cima, tenuta in sospeso da due lunghe catene, vi era collegata una gigantesca gabbia di ferro. Al suo interno Falth notò un uomo in età avanzata, magro e sottile, con il volto scarno e il corpo nudo coperto a malapena da lunghi e luridi stracci.
Falth prese a osservarlo, in un ipnosi a metà tra estasi e delirio. "Chi sei? Chi sei?" balbettava.
Il vecchio parve quasi sentirlo, poiché si aggrappò  alle sbarre e contorse il volto in un urlo disumano.
Vedendolo in quello stato, Falth tremò in tutto il corpo, si staccò a passo svelto dagli operai e, gridato qualcosa di incomprensibile, si gettò nuovamente tra le braccia della fossa.
Fu come un istante. Dal giorno alla notte in un solo momento.



10
Cassonetto differenziato / Re:Ci siamo tutti?
« il: Gennaio 05, 2012, 16:56:05 »
Uh, sapevo sarebbe tornato online  dharmas Io ci sono! .. e .. Buon anno!

11
Horror / Re: Sull'autobus - terza e ultima parte
« il: Novembre 15, 2011, 14:23:32 »
Grassie Brunello  dharmas che la pera magica sia con te.

12
Horror / Sull'autobus - terza e ultima parte
« il: Novembre 15, 2011, 11:30:47 »
Il Controllore mise una mano nel taschino della divisa, e ne estrasse un lucidissimo fischietto nero. Lo utilizzò a lungo, diffondendo nell'aria qualcosa di simile al richiamo di un corno da guerra. Subito sull'autobus affluirono altri uomini con la sua stessa divisa e il suo stesso aspetto, come una mandria di bufali inferociti. Erano talmente tanti, affluivano in numero così crescente, che l'ossigeno cominciava a scarseggiare. I passeggeri volevano scappare ma le miriadi di Aiutanti li tenevano inchiodati ai loro posti con le famose bacchette di ferro. A turno cominciarono a sbatterle ovunque, su tutte le superfici, creando una cacofonia inarrestabile.
"Ecco, ecco cos'ha portato qui. Le sto mostrando la conseguenza delle sue azioni. Osservi, osservi," diceva il Controllore, estasiato in tutto lo spirito dalle gesta dei suoi amici di merende. Un paio tra gli Aiutanti si avvicinarono ai seggiolini riservati agli invalidi, li sradicarono di netto e poi li lanciarono fuori dai finestrini. A bastonate distrussero la macchinetta dei biglietti, gli anelli per appendersi durante il tragitto, scioglievano i poggiamani con grandi fiamme ossidriche scaturite direttamente dalle loro stesse bocche.  I passeggeri sussultavano in tutto il corpo, immobili eppure contorcendosi ugualmente nelle viscere, con occhi allentati dalla pressione del terrore. Volevano dormire, volevano solo dormire, dormire senza risveglio. Il terribile clangore metallico continuava a diffondersi nell'aria come l'immutevole rumore della catena di montaggio.
"E' lei, è lei il colpevole! La causa di tutto questo!" urlava il Controllore dritto in faccia a William Charpanvam, "Vi sarà tolto tutto, vi sarà tolto tutto! E adesso vediamo di rimettere in funzione questa vecchia carcassa di un'autobus, venga con me, venga con me."
Prese William in consegna e nuovamente lo trascinò fino alla cabina del Conducente. "Vattene fuori dai piedi", urlò a quest'ultimo e se ne liberò con un calcio.
Uno dei due principali Aiutanti si avvicinò al suo maestro, tentando di calmarlo con un abbraccio affettuoso. Sul viso gli si leggeva una profonda preoccupazione. "Lei è un Controllore, e sta perdendo il controllo, stia attento, sta perdendo il controllo e lei è un Controllore, stia.." Ma quell'altro lo allontanò con uno schiaffio ben mirato, gridando come un ossesso.
"Finiscila, Il Signor William Charpanvam ha bisogno di una lezione, ha bisogno di una fottuta lezione."
"Ma.. ma.. ma lo ha già arrestato, non le basta? Portiamolo via, comincio ad avere.."
Il Controllore neppure lo ascoltò, prese William per la collottola e di peso lo mise al posto del Conducente. Gli tolse le manette strattonandolo senza riguardo. Charpanvam era tornato a tremare, a tacere, non tanto per sé, quanto per gli altri; sentiva i passeggeri urlare di disperazione dietro le sue spalle, ed ognuna di quelle voci si infiltrava nel suo corpo come una colla umidiccia e pesante.

"E' colpa.. e' colpa dell'umidità..."

"Ora metti in moto, sbrigati, voglio vedere come sai guidare." disse il Controllore a William, e messa mano ad un altra tasca della divisa ne estrasse una pistola d'ordinanza. Con il braccio fermo la puntò alla testa di William. "Metti in moto, metti subito in moto, hai voluto la libertà di lamentarti, ebbene, adesso la sconterai, la sconterai fino all'ultima goccia."
Alla vista della pistola William si pisciò letteralmente nei pantaloni. Tornò a balbettare. "M-m-ma.. io.. ecco.. ecco.. non credo di poterlo fare.. non so.. non ho neppure la patente B... La prego.. la prr-r-rego Signor Controll.."
"Ma sentitelo questo cretinotto," ridacchiò il Controllore ormai fuori controllo. I suoi stessi Aiutanti lo guardavano allibito. Nessuno di loro si promuoveva più in azioni di terrorismo gratuito. Con la bocca spalancata dallo stupore, passeggeri e Aiutanti seguivano la scena in trepida attesa di una conclusione. La tensione sfrecciava nell'aria come un fitto stormo d'uccelli chiassosi.
"Vedi di mettere in moto, o ti sparo, qui, adesso, in questo preciso istante. Neppure io ero un Controllore un tempo, lo sono dovuto diventare, ho dovuto imparare, adeguarmi al mio ruolo, non mi piace quello che faccio ma lo faccio al meglio, ed è proprio per questo che siamo qui, per assimilare, divorare il nostro ruolo e professionalizzarci. Per tanto accetta il tuo nuovo ruolo, sii Conducente, e metti in moto."
William non se lo fece ripetere due volte e diede sfogo all'autobus mettendo piede all'acceleratore. Il mezzo da prima avanzò piano piano, sicuro, poi, sotto il controllo inefficace del suo Conducente, cominciò a sbandare di lato in lato, minacciando di sfracellarsi di qua e poi di là. Finì per andare contromano evitando solo per miracolo il contatto con altre vetture. William non riusciva a dominare il bestione di metallo, girava il volante a sinistra e si ritrovava ad andare a destra, la frizione semplicemente pareva non esistere, il freno rispondeva solo a tratti. Tutto gli era sconosciuto e misterioso come la prima volta sotto le coperte bagnate di sudore.
Il Controllore notava la sua difficoltà e rideva di gioia. Morire non gli importava. Avrebbe portato tutti all'inferno piuttosto che togliere quell'incompetente dal posto di guida.
"Allora?" ripeteva inebriato di piacere, "Ti piace? Ti piace la tua libertà? E' facile guidare? Ora non fai lo spaccone vero? Ora non ti lamenti? Eppure ti schifava la mia guida, ne sono certo, potevo sentire il tuo odio e il tuo disprezzo a chilometri di distanza per il mio atteggiamento al volante. Ma nonostante quello che vedi con gli occhi, ebbene, senza conoscere la difficoltà, non puoi mettere bocca sul lavoro altrui. Non hai idea dello stress, della diffamazione e dell'umiliazione continua, ed è solo colpa tua, solo colpa tua se adesso io sono Un Controllore!"
William lo ascoltava senza parole, sudando in ogni centimetro della pelle, braccato da quella verità incontestabile. Allora non si era sbagliato! Il Controllore era stato un Conducente! E forse come lui, prima d'essere un Conducente era stato anche un passeggero!
"N-n-on volevo... n-n-non volevo.." disse balbettando. L'autobus era ormai fuori controllo, i passeggeri lanciavano grida disumane lasciandosi trasportare dal moto del mezzo, sbattuti come biglie da ogni parte.
"La prego.. riprenda il controllo.. riprenda il controllo del mezzo.. siamo tutti uguali, tutti uguali di fronte alla morte.. nessun Conducente, nessun controll.."
"Ti sbagli, ti sbagli di grosso ragazzo." gli urlò il Controllore tenendo il dito tremante sul grilletto, pronto a sparare più che mai.
"Non parlare di uguaglianza, non parlare di giustizia, non parlare, non parlare e basta, guida, guida, guida!"
William aveva perso la speranza, non sarebbe riuscito a convincerlo. Era il disastro ad aspettarlo, ad aspettare tutti quanti. E la colpa era solo sua. La colpa era stata la sua. Lui che voleva cambiare le cose, per gretto egoismo voleva cambiarle, vedere tutto di un colore invece che di un altro. Impuntarsi su delle sciocchezze gli era costato caro; la colpa era stata esclusivamente sua. Un alone di depressione gli permeava il corpo come un pesante sudario. Anche se si fosse sacrificato lasciandosi uccidere, nessuno gli avrebbe potuto raccontare il finale, nessuno gli avrebbe potuto assicurare che gli altri si sarebbero salvati. Poi sentì qualcosa arrampicarglisi dai piedi fino alla gamba, ed una voce sussurrargli:
"Non arrenderti, non arrenderti."
William si distrasse solo un attimo dalla strada e abbassando lo sguardo incrociò quello di una piccola pera verde, dal gambetto vivace. La piccoletta stava sulla sua gamba e lo guardava con occhi pieni di fiducia, infusi di una fede impossibile da non abbracciare.
"Io credo che tu possa farcela," gli disse con voce soave la pera, "tu puoi fare di tutto, accetta il rischio, vai oltre il dubbio, sei in un territorio nuovo, lo so, ma puoi riuscire, puoi riuscire. Liberati dalla paura. E' la paura. E' la paura," continuava la pera, "E' la paura che ti incatena, che ti serpeggia nel corpo, che ti stupra da dentro divorandoti l'anima. Tu sei immobile nella pancia della paura. Nulla è una sciocchezza, prendi posizione quando necessario! Combatti, e non combatti da solo, perché siamo in tanti, siamo in tanti," e a queste ultime parole salì sul volante fissando dritta negli occhi William. Poi alzò la voce a tal punto da sentirla rimbombare ovunque come un monito, il timbro era baritonale; scandiva le seguenti parole a ripetizione, come un incitamento alla resistenza:

"Mostrate Chi siamo
Mostrate Quanti siamo
Che assaggino il fuoco dell'incoscienza,"

Da subito il motto si propagò tra le bocche degli altri passeggeri. William fu il primo a ripeterlo, ad urlarlo fino allo sfinimento, e ora, sì, ora qualcosa stava cambiando. lo urlava e sorrideva, lo urlava e sorrideva. L'autobus cominciava ad assestarsi sulla strada, ma non era ancora abbastanza. La guida di William non era ancora perfetta, ancora non aveva tutti i pezzi del puzzle. Da dietro tutti i passeggeri prendevano di mano le bacchette agli Aiutanti, e adesso erano loro a sbatterle con forza ovunque. Se pur feriti, se pur impauriti, o striscianti al suolo, prendevano coraggio intonando quel coro di rivolta, di speranza. Era come il battito di un cuore feroce, destinato a non spegnersi mai nell'eternità. Avanzava galoppando a ritmo scatenato, travolgendo le orecchie del Controllore e degli Aiutanti tutti, lasciandoli instupiditi come tanti piccoli manichini di legno.

"Mostrate Chi siamo
Mostrate Quanti siamo
Che assaggino il fuoco dell'incoscienza,"
"Mostrate Chi siamo
Mostrate Quanti siamo
Che assaggino il fuoco dell'incoscienza,"

William Charpanvam scattò in una risata interminabile, senza senso, rumorosa abbastanza da soffocare tutto il resto. Ora, ridendo, teneva le mani salde sul volante e guidava sapendo sempre quello che faceva. Inseriva le marce con rapidità, e tutto gli era così abituale, così facile e comprensibile. Ben presto tutta la confusione cessò, fu silenzio; il mezzo andava cauto nel traffico cittadino. William era divenuto un Conducente. Ma tra i passeggeri non ci furono scrosci d'applausi, o regali destinati a lui: ben presto in due o tre cominciarono a reclamare sul sistema di ventilazione. William era costretto a sorbirsi tutte le loro problematiche. Il Controllore era perplesso, affascinato da una simile trasformazione. Già da un pezzo aveva abbassato la pistola. Era sconfitto. Annichilito. La vita si era spenta nei suoi occhi di marmo, presagio di quel che stava per avvenire.
Un Aiutante, Elbert, quello più anziano, gli si avvicinò e lo abbattè con un colpo di pistola alla tempia.

"Lei è dismesso dal suo incarico."

Schizzi di sangue volarono su William e sulla pera. Quest'ultima disse: "C'è sempre qualche conseguenza."
William osservava tristemente la scena. L'Aiutante che ora era divenuto Controllore gli tese la mano e disse con voce sibillina: "Ora lei è il nuovo Conducente. Mi congratulo. E' arrivato puntualmente a lavoro, come ci aspettevamo da tempo. Sono sicuro che andremo d'accordo. Posso invitarla a cena questa sera? La mia famigl.."
Ma William lo bloccò subito scuotendo la mano. No, quella sera non avrebbe potuto, e forse neppure quelle successive. Aveva un autobus da guidare.
E non solo quella sera, a lungo guidò l'autobus, a lungo si destreggiò tra le strade di quella vorticosa città dall'aria malata, come un baluardo incontrastato della sicurezza dei passeggeri. I primi tempi la pera lo seguì nelle sue vicissitudini, sempre, costantemente, gli dava apporto e sostegno. Poi un giorno la cara amica prese a vedersi sempre più di rado sull'autobus, scomparve quasi; i due si incontravano solo ed esclusivamente al di fuori del turno lavorativo, per passare una serata in allegra compagnia e nulla più. William si sfogava con lei, parlandole di tutti i problemi relativi a quel mezzo complesso che è l'autobus. La pera ascoltatava attentamente, buttando in corpo due o tre bicchierini di prosecco.
Di tanto in tanto, qualche passeggero, che conosceva a memoria la leggenda della pera, si accostava alla cabina del Conducente e gli chiedeva:
"Che tipo è? Che tipo è questa pera?"
William tendeva a non rispondere, o tutt al più formulava cose scontate e banali. Ma nella sua testa, all'immagine dell'amica dalla fede incrollabile, associava sempre un unico, dolce pensiero:

"Attraverso i suoi occhi il mondo è venuto a stanarmi
e adesso si aspetta che io mi inchini alla vita,"

13
Horror / Sull'autobus - seconda parte
« il: Novembre 15, 2011, 11:24:05 »
Ma ben diverso fu l'atteggiamento dell'ex Conducente. Si accostò infine a William e squadrandolo serio disse: "Il biglietto prego."
"Mi dispiace," disse subito William veloce, balbettando e incastrando le parole l'una nell'altra.
"Ecco io, vede, le spiego, anzi, ma l-le-lei dovrebbe già sapere-re, tutto, no?"
"Ho capito, ho capito," disse il Controllore agitando una mano come stesse trattando una sciocchezza di poco conto. E chiamò a se gli Aiutanti. Questi si disposero al suo fianco, le braccia conserte. Ora usavano le sbarre di ferro sui poggiamani accanto alle orecchie di William. Se questo provava a tapparsi le orecchie, ecco che prontamente gli arrivava una bastonata sulla mano libertina.
"Dunque, ricapitoliamo, lei non ha il biglietto, vero? Lo immaginavo. Già da prima la stavo osservando. Lei ha il tipico atteggiamento di chi trasgredisce le regole. Ingrassa e impigrisce bollendo a fuoco lento nella nostra amata società."
"No, no, no", disse William agitando le mani nonostante le bastonate. Ora la paura lo faceva parlare alla svelta, ma tutto sommato comprensibilmente. "Io, deve sapere che prima, quando lei era un Conducente, e non un Controllore, io le ho spiegato che la macchinetta non funziona e che, ecco, mi hanno rubato il portafoglio, perché sà, io ho l'abbonamento annuale, e così.."
Il Controllore scosse la testa. "La finisca con queste scuse. La macchinetta oggi è fuori servizio, come sta indicato sul cartello affisso all'entrata dell'autobus" detto questo indicò un punto tra le porte all'entrata. William allungò il collo in quella direzione ma non vide nessun tipo di segnaletica atta ad avvisare del disservizio. "Non c'è nulla, lì" disse William facendo spallucce.
"Non mi prenda in giro. Elbert," disse il Controllore rivolgendosi a uno degli Aiutanti.
"Controlla sulle porte d'ingresso. C'è qualcosa, lì?"
Elbert annuì vivace con il suo testone. "Sì, sì, c'è qualcosa."
"Vede? C'è qualcosa, lì, a quanto pare."
"Ma non è assolutamente vero", sbottò William che cominciava a scaldarsi.
"Elbert, te lo chiedo di nuovo, c'è qualcosa lì?" ridacchiò il Controllore.
Ed Elbert sempre annuì, con rinnovato vigore e un sorriso di plastica.
"Ottimo. Quindi, ricapitoliamo: scuse a parte, rimane il fatto certo e inconfutabile che lei non possiede nessun regolare titolo di viaggio."
"Ma mi hanno rubato il portafoglio!" si lasciò scappare William; urlava e si agitava sul suo seggiolino che a fatica lo teneva sospeso nell'aria. Cigolava paurosamente.
"Questo lo afferma lei. Lo ha fatto presente all'autista?"
"Ma era lei l'autista, fino a qualche secondo fa!"
"Ancora con questa storia? Crede forse che un agente pubblico come il sottoscritto possa essere preso per i fondelli tanto facilmente? Non ho mai svolto la mansione di Conducente, tantomeno per una compagnia di mezzi di trasporto."
Il Controllore prese violentemente per un braccio William e, trascinandolo tra gli sguardi divertiti dei passeggeri, lo portò verso la cabina di guida.
"Eccolo qui, il suo Conducente. Le sembro forse io?"
Nella cabina c'era effettivamente un Conducente, ed era uguale e identico al Controllore; cambiava solo la divisa, ma i lineamenti del viso, persino la corporatura, denotavano una somiglianza inverosimile.
William annuì con la testa. "Sì, è proprio lei.. cioé... non so.. siete due.. ma .. beh, siete Voi, siete Lei, non so come spiegarmelo.."
Ma il Controllore già lo riportava al suo posto, lasciandocelo cadere di peso. Poi mise un dito sotto il mento, come nell'atto di pensare attentamente.
"Bisognerebbe ricordarsi sempre di fare il biglietto." disse infine, e già stava compilando un moduletto giallo.
"Ma io non me ne sono scordato" brontolò William, e con una mano afferrò il braccio del Controllore. "Perché, perché, non mi ascolta quando parlo?"
"La sto ascoltando" sbuffò lui controvoglia. Poi si scrollò di dosso William.
"Sto compilando il verbale. Devo aggiungere anche aggressione a pubblico ufficiale?"
Dietro, al di sopra d'una delle sue spalle, sbucava la testa della signora dalla gonna violacea. Immobile osservava di fronte a sé, e, senza muover nemmeno le labbra, imitava alla perfezione la voce di William:
"I-i-o non ho scordato di fare il biglietto, è solo che.. mi hanno derubato.. e questo.. sì, questo già gliel'ho detto.. e quindi.."
"Scuse e ancora scuse, e di nuovo scuse," si diede poi a inveire verso il Controllore. Gli sputava nelle orecchie.
"Signora, mi faccia fare il mio lavoro", fece lui. Con calma assoluta continuava a compilare il suo moduletto, ogni tanto si fermava, guardando in alto come imbambolato.
"Ecco, una firmetta qui." disse a lavoro ultimato. Agitava in faccia a William il foglio giallo, la penna puntata verso il suo occhio.
"Cosa, cosa sarebbe?"
"Una multa, che domande."
Ma nonostante William avesse il foglio a neanche un centimetro dagli occhi, tutto ciò che poteva distinguere non erano altro che scarabocchi insensati. Di leggibile c'era solo lo spazio dedicato alla sua firma. Sopra la linea tratteggiata c'era persino il suo nome stampato a grandi lettere.

"WILLIAM Charpanvam"

"Non capisco, non capisco." disse William.
"Cosa non capisce? La faccia finita una buona volta. Io gestisco solo fatti concreti. E per tanto, al momento, allo stato delle cose attuali, è evidente che lei è a bordo del mezzo senza regolare titolo di viaggio. Lei ha parlato di un furto, ma il Conducente sembra non saperne nulla, anzi, lei sostiene persino che fossi io il Conducente. Fosse in mio potere la farei visitare d'urgenza da uno psichiatra. Ora mi faccia il piacere, metta una firma qui, si rassegni a pagare la multa, così posso darle la ricevuta e proseguire il mio lavoro."
Ma William non voleva saperne. Nel suo cervello non c'era spazio per un'idea del genere. Una multa? E per quale motivo? Lui aveva l'abbonamento annuale, lo aveva! e lo aveva smarrito insieme al suo portafoglio, lo aveva regolarmente acquistato, lo aveva di diritto, lo aveva in ogni caso.
Stava perdendo la ragione.
Stava perdendo la ragione.
Di nuovo spiegò queste cose al Controllore e quello per tutta risposta lo ignorava, stringendo adesso la mano ai suoi due Aiutanti. I due ricambiavano con gioia.
Poi di colpo si girò verso William, sventolandogli il misterioso bigliettino giallo.
"Vedo che non ha ancora firmato" disse, poi gli Aiutanti lo presero da parte bisbigliandoli qualcosa nell'orecchio.
William avrebbe voluto cogliere l'occasione, fuggire senza pensarci due volte, ma la signora dalla gonna viola lo teneva fermo al suo posto, stringendogli le braccia fino a fargli male. "Lei, schifoso trasgressore. Nullafacente a tempo pieno. Ridicolo buffone" ripeteva senza tregua, guardandolo con aria schifata.
William, rosso in volto, la sopportava digrignando i denti, senza opporre la minima resistenza.
Gli mancava la forza necessaria a pensare, la testa gli si era svuotata come un pallone sgonfio, irrecuperabile; e in tutto il corpo percepiva una presenza estranea che avrebbe voluto strapparsi via a morsi, vomitare dall'altezza di un grattacielo, tra urla senza fine.
Una luce abbagliante cominciò ad accecarlo pian piano, nel cervello gli crebbe, come un tumore, una fitta simile a un segnale acustico insopportabile, e.. e.. vide, vide qualcosa di strano, come un immagine nitida sullo schermo di un televisore.
Si sentiva imprigionato in quella visione.

"C'è Un ragazzo in mezzo alla gente.
Cammina piano.
Si fa largo tra torme di gambe paralizzate, di facce sfocate.
Trasporta una cesta di frutta.
Sorride.
Sorride.
Sorride ma ha paura.
Indossa una camica ben abbottonata fino al colletto bianco.
Cammina piano.
Cammina piano.
Cammina piano ma ha paura.
Trasporta una cesta di frutta.
Dentro la cesta dozzine di pere lo guardano divertite.
Si ferma.
Si ferma e tutti si fermano attorno a lui.
Si fermano e lo guardano.
Lo guardano.
Lascia cadere la cesta.
Le pere rotolano ovunque veloci.
E lui le smaciulla ad una a una, le schiaccia.
Le schiaccia con l'incoscienza negli occhi.
Le schiaccia ridendo.
Ridendo.
La sua bocca riempe ogni cosa.
Si espande come un buco nero.
Ridendo.
Ridendo.
Il mondo si svuota d'ogni colore.
Nel nulla appare una pera luminescente.
E' fuggita e sorride.
E' fuggita e sorride.
Sorride."

William era di nuovo sull'autobus.
Era in piedi.
Si guardava le mani piene di sangue. Due manette gli luccicavano ai polsi. Su entrambi i fianchi era tenuto fermo dagli Aiutanti immobili, con la testa china.
Distesa a terra c'era una donna dalla gonna viola. Aveva il volto tumefatto, i vestiti strappati in più punti, e dalla bocca le usciva un filo di bava. A fatica si reggeva su un braccio, guardando William con il terrore marchiato a fuoco sul volto stanco.
"E' colpa, è colpa dell'umidità, l'umidità, mi dica che tutto va bene, mi dica che tutto va bene" borbottava tra i singhiozzi. Il Controllore le si avvicinò sollevandole la testa con la mano stretta ai lunghi capelli biondi. "Guarda, guarda cos'hai fatto," disse a William scrollando quella maschera di lividi e sangue. "Io, io, io non volevo, non volevo! Non è possibile che sia stato io!", gemeva William che nulla ricordava. Non poteva pensare d'essere stato capace d'un azione tanto sconsiderata; perdere il controllo di fronte a tutti, in quella maniera, no no, non era proprio da lui. Non era tanto lo stato critico della signora a preoccuparlo, bensì l'aver dato mostra di sé, aver messo a nudo una reazione inconcepibile ed anormale. "Perché, perché", si ripeteva mentalmente continuando a osservarsi le mani, "Possibile, possibile siano le mie mani, possibile si possano sporcare, queste mani"
Con uno sforzo sovraumano tentava di liberarsi della presa dei due Aiutanti, di fare anche solo un passo verso la sfortunata donna adesso lasciata giacere dal Controllore. Voleva chiederle, voleva sapere: "Sono stato io?" "Sono stato io?" Ma non disse nulla, poiché si sentiva colpevole a priori, colpevole anche solo nel dubbio, e gli mancava il coraggio di conoscere la verità.
"Forza, la aiuto a rialzarsi," disse il Controllore alla donna e finalmente questa venne rimessa in piedi con notevoli sforzi. Tra i passeggeri ci fu un fuggi fuggi generale per offrirle il posto. Si accalcavano a dozzine, pregandola di accettare, più e più persone arrivarono a discutere di quale fosse il posto più comodo per la povera disgraziata. A dire il vero tutti i seggiolini sembravano nelle stesse condizioni, ma di questo avviso non sembrava nessuno, e perciò si andò per votazioni. Il vincitore fu sommerso d'applausi, di complimenti, inviti a cena, strette di mani tra sorrisi a sessantaquattro denti.
"Ecco, così si ragiona, siamo pur sempre in democrazia" diceva il Controllore osservando la scena compiaciuto.
"Vede, Signor William Charpanvam," disse poi verso l'arrestato, "così si ragiona. Lei non l'ha capito. Sin dall'inizio non l'ha capito. Non solo non possiede il biglietto, non solo ha mentito spudoratamente, recidivamente, ma non ha saputo tenere sotto controllo i suoi impulsi, si è reso più umano del necessario, ha minato la serenità e la stabilità di questo luogo, e per tanto sono costretto a dichiararla in arresto - come può ben vedere dalle manette che le stringono i polsi."
"Ma .. questo.. questo è inamissibile," ripeteva tra sé William, spaventato anche solo a pensarlo. Si sentiva colpevole, eppure la condanna gli andava stretta.
"Come? Ha detto qualcosa?", gli fece il Controllore accostandosi e chinandosi fino al suo viso. Gli Aiutanti tenevano l'imputato schiacciato quasi al suolo, con le ginocchia tremanti e piegate.
"Sì'", rispose William con impeto, "Dico che tutto questo è inamissibile. Dov'è? Dov'è la giustizia?" chiese sputando ai piedi del Controllore. Questi non se ne accorse neppure, talmente era immerso nella contemplazione delle sue unghie.
"Eccoci alla capitolazione finale. Alle scuse aggiungiamo le lamentele gratuite" disse poi sorridendo e prendendo il viso di William tra le sue mani guantate di nero. Inaspettatamente lo baciò sulla fronte. Gli sussurrò: "Accetti, accetti e subisca."
"Ma qui.." balbettò William ".. qui si è compiuto un omicidio.. l'ho visto coi miei occhi.. quel povero vecchio.. Arresti me.. ma.. va bene, mi arresti.. ma arresti anche loro.."
"Signor William Charpanvam, lei ha mentito abbastanza per oggi. E anche se ciò che dice fosse vero, scommetto che lei sarebbe complice in quell'omicidio. Del resto io non sono tenuto a verificare quel che vedono i suoi occhi, ma solamente quello che interferiscono i miei. E' lei il colpevole qua dentro, e nessun altro. Si lasci portare via e facciamola finita una volta per tutte. Se oppone ancora resistenza, sarò costretto a insistere con altri metodi meno ortodossi."
"Questo è inamissibile," continuava William, e sputò ancora.
"La smetta. La smetta." tuonò il Controllore.
"Mai. E' inamissibile. E' inamissibile. E poi lei è un Controllore, con quale autorità mi arresta?" chiedeva William con lo sguardo fisso, senza remore, poiché adesso, se pur colpevole, in cuore non aveva più paura.
"Con la mia, con la mia autorità," gridò il Controllore alzando un pugno al cielo, "Io non solo controllo, ma sono autorizzato, autorizzato punto e basta. Non c'è altro da dire, altro da reclamare, né da discutere. Ma se vuole metterla sotto questi termini, allora..."

14
Horror / Sull'autobus - prima parte
« il: Novembre 15, 2011, 11:21:49 »
William non era mai salito su un autobus così squallido. I vetri dei finestrini erano sporchi e anneriti, i seggiolini scritti e spaccati, dal tettuccio cascava qualche goccina d'acqua. Un po' ovunque saltavano agli occhi bottigliette di plastica, lattine squarciate, al suolo c'era una sporcizia e una polvere da metter paura persino ai topi. William, indignato e impettito nel suo piccolo posto, scuoteva la testa dal ribrezzo. "No, no, così non va" ripeteva ogni cinque secondi, guardandosi attorno schifato. Era un piccolo omino bassetto, con la testa larga larga e due occhi vivaci e cattivi.
Egli era abituato a ben altro genere di mezzi pubblici. Si ricordava con tenerezza della volta in cui, avendo problemi nel salire su di un autobus, un gruppo di passeggeri gli aveva teso la mano. Da subito si erano dati a cedergli il posto, poiché portava due grandi buste della spesa, e tutt'intorno sembravano volersi assicurare delle sue condizioni. L'autobus stesso era cangiante come il cuore dei suoi occupanti, riluceva di una strana serenità; le sbarre a cui tenersi erano bianche e scintillanti; l'autista di tanto in tanto fermava il mezzo, controllava che tutti stessero bene, poi, fischiettando un motivetto, tornava a guidare con calma e sicurezza autoritarie. La strada non aveva misteri per lui, e lo faceva ben capire a William che, seduto a poca distanza, ne ammirava il sorriso e l'aria spavalda.
In quest'altro autobus, purtroppo, il Conducente aveva già dato segni di visibile squilibrio. Il mezzo sbandava a destra e a sinistra, come al ritmo di una strada ubriaca e accidentata. Si potevano vedere i passeggeri scuri in volto, ondeggianti di lato in lato, appesi come salami agli anelli pendenti dall'alto, oppure afflosciati come vegetali sui loro posti a sedere. Il Conducente, così aveva notato William, parlava al cellulare con un suo amico. "E non ha neppure l'auricolare! Quel disgraziato!" pensava William osservandolo a bocca spalancata. Ed effettivamente il lungo autista, un personaggio alquanto sgradevole e dal naso moccoloso, teneva il volante con una sola mano, mentre con l'altra, scossa dal nervosismo, portava all'orecchio un cellulare vecchio modello. Era due volte più grande di un cordless. William era allibito: il Conducente non dava neppure a nascondere il suo crimine efferato! Gridava come se dall'altra parte del filo non potessero sentirlo per qualche strano motivo!
"Si, caro, sono felice, felicissimo per te," sghignazzava stridulo quel povero pazzo in preda all'intimo bisogno di mettere a rischio gli occupanti del mezzo pubblico.
Come se non bastasse, William era costretto a rabbrividire di fronte al comportamento indecoroso dei passeggeri stessi. Aveva notato che in molte occasioni questi si piazzavano di fronte alle entrate, e, appena scorti possibili ospiti indesiderati - vecchi o paralitici - li intercettavano con un calcio in pieno volto. I poveretti rotolavano al suolo sulla strada. Alcuni demordevano, i più coraggiosi, che non avevano voglia d'aspettare il prossimo autobus, tentavano nuovamente la salita e nuovamente venivano respinti tra le risate del pubblico immobile sui propri posti a sedere. Avevano l'aria di grosse civette dagli occhi sorridenti. L'autista, in tutto questo, non solo non interveniva a favore dei disperati, anzi, quando ne notava qualcuno più disgustoso di altri, ecco che gli chiudeva le porte in faccia proprio a un centimetro dal naso. Con alcuni dava il meglio di sé, e, forse fortuna, forse abilità, riusciva a intrappolarli tra le porte; quando succedeva ecco che fermava l'autobus e, applaudendosi da solo, picchiandosi il pugno sul petto dalla soddisfazione, incitava i pestatori a randellare con gioia lo scemo del momento. Questo, dopo esser stato percosso con entusiasmo da chiunque - bambini compresi - veniva sospinto dolcemente fuori dall'abitacolo. Di tanto in tanto i persecutori si prendevano una pausa e qualche vecchietto sgusciava lesto tra le porte. Purtroppo gli toccava rimanere in piedi, poiché nessuno si degnava di cedergli il posto. Neppure a William era concesso di alzarsi per aiutare costoro. Al solo tentativo, veniva immediatamente spinto giù da due energumeni che già da un po' di tempo lo tenevano a bada. "Sei uno strano, " gli dicevano grattandosi il naso, "un tipo rivoltoso."
Ma a parte questi spiacevoli episodi, sull'autobus in questione, l'atteggiamento generale non era dei più sociali. Bastava chiedere "Che ore sono?" e la risposta solitamente avveniva in questi termini:
"Che cazzo ne saprò mai. Vai a fanculo."
William sarebbe voluto uscire da quel covo di pazzi. Già dai primi momenti si era accorto che qualcosa proprio non andava, là dentro. Purtroppo era in ritardo a lavoro. Se abbandonava l'autobus corrente, era costretto ad aspettare il prossimo. E se anche quello fosse stato nelle medesime condizioni? Di quei tempi non si poteva mai dire. Certe storie alla televisione facevano accapponare la pelle. William ricordava di autobus bruciati da soli, come per autocombustione, tra urla indicibili e odore di carne fumante. L'odore appunto non si sentiva, ma la giornalista lo descriveva con una tale enfasi da materializzarlo nella mente del telespettatore.
D'un tratto William, perso nei suoi pensieri, mise una mano in tasca e si accorse dell'assenza del portafoglio. Era stato derubato! Il terrore lo fece sbiancare. Sudava, e gli occhi, inquieti, si giravano di lato in lato a caccia di un possibile colpevole. Aveva l'impressione che tutti i passeggeri riuscissero a intuire il suo disagio. Uno dei tanti disse: "Oh! Oh! Oh! Sembra che qualcuno abbia perso qualcosa!"
Tutt'attorno si era fatto uno strano silenzio. Si sentiva solo l'uomo che aveva parlato, che adesso ruminava frenetico la sua gomma da masticare.
Il primo pensiero di William andò al suo abbonamento annuale. Era perduto insieme al portafoglio! Doveva fare il biglietto. La sola idea di un controllo, di un Controllore, lo metteva in agitazione a tal punto da fargli dimenticare dei documenti d'identità e delle carte di credito ormai in mani estranee.
Tentò di alzarsi ma venne prontamente bloccato da uno dei due omoni a sua guardia. "Dove vai?" gli disse indicando con la testa un vecchio a due passi da loro. Questi piagnucolava come un bambino. Era vestito di grigio, con larghi pantaloni di seta, e le lacrime rilucevano sul suo volto rosso e affossato.
"Devo, devo solo fare il biglietto a bordo." balbettò William.
"Ah sì?" continuò l'omone schioccandoli un'occhiataccia.
"Sei sicuro? Sei sicuro di non voler cedere il posto a questo miserabile?"
"No, cioé.." mormorò William confuso. Non riusciva a pensare. "Le spiego.. fosse per me, sì, fosse per me lo farei sedere.. ma adesso questo sì.. beh, sì, questo adesso non è il mio scopo principale, bensì vorrei timbr.."
"Quindi ti piacerebbe farlo sedere?" gli urlò addosso quell'altro mettendogli il naso a un centimetro dalla bocca. Lo annusava convulsamente.
"Ti piacerebbe farlo sedere?!" gridò adesso, come isterico. Batteva i piedi a terra. Ansimava come un cane in procinto di lasciare questo mondo.
"No.. ecco.. ecco.. io vorrei solo fare il biglietto.."
"Bene, allora dillo."
"Cosa, cosa dovrei dire?" chiese William implorando pietà con le mani giunte all'altezza del viso.
"Dillo! Dillo!"
"Cosa? Cosa?!"
"Dillo! Che non vuoi farlo sedere! Urlalo, adesso, qui, in mezzo a tutti noi! Voglio sentirti gridare! Avanti! Avanti!"
"Non voglio.. non voglio..." diceva William stringendo adesso i piccoli pugnetti. Una lacrima gli rigava il viso.
"Non voglio.. non voglio.."
"Cosa, cosa!? Dillo, dillo!"
"Non voglio farlo sedere!" urlò infine William. Si agitava sul posto come impazzito. Le mani, tese in alto, gli tremavano come farfalle dispettose.
Urlò ancora, più forte di prima: "Non voglio farlo sedere!"
Così l'omone lo prese egli stesso per le spalle, lo alzò a mezz'aria voltandosi verso i passeggeri. Ci fu un boato d'esultanza. Rantoli di piacere, cori infernali di parole incomprensibili, sputi nell'aria, si sovrapponevano sulle labbra di facce feroci contratte in uno spasmo di godimento. Il piacere e la gioia si diffondevano come un passaparola febbricitante. Il vecchio venne circondato, preso per testa e piedi da almeno cinque individui, e poi scaraventato oltre la vetrata posteriore del mezzo. Lo seguirono con lo sguardo, mentre rotolava contorcendosi nell'asfalto bollente. Due macchine lo evitarono al pelo, la terza lo sventrò da parte a parte come un soffice grissino.
"Quello però dovete, dovete pagarlo," disse l'autista continuando a guardare la strada. Le mani gli si muovevano lente e sensuali sul grande volante nero. Gorgogliava come una iena.
William intanto piangeva, piangeva e inseriva le monetine nella macchinetta dei biglietti. Quelle uscivano subito dalla fessura sottostante, senza dare risultato alcuno. Di titoli di viaggio non ve n'era traccia.
"Non funziona, non funziona!" gemeva William battendo le mani su quel pezzo di metallo inanimato. E d'insuccesso in insuccesso si diede a bestemmiare, a picchiare la macchinetta con calci furiosi. "Voglio," pensava in un turbine di raccapricciante esaltazione, "Voglio il mio fottuto biglietto"
Un uomo sottile e allungato come un seme gli si accostò e, allungando la testa verso la macchinetta vi poggiò la lingua lucidandola di centimetro in centimetro. "Prova così, prova così" bisbigliava continuando a leccare come in un accesso di voluttà. Uno dei suoi grandi occhi fissava con insistenza William. Tutt'intorno risate oscene si propagavano come in un'orgia di demenza senile.
William corse verso la cabina del Conducente, respirava a fatica, sentiva la testa girare e ovunque coglieva sguardi di derisione e scherno. "Sei una piccola troia!" gli urlò qualcuno.
"Signor Conducente, signor Conducente," disse William appoggiandosi al vetro della cabina e sgusciando poi con la testa proprio alle spalle dell'uomo alla guida. "Ho un problema. La macchinetta dei biglietti è guasta. Mi hanno rubato il portafogli, ho perso tutto! Ho perso l'abbonamento! Ho paura, ho paura che possa salire il Controllore!"
William non aveva mai visto un Controllore, eppure ne temeva l'esistenza. "Se non si è mai visto," pensava, "è solo perché si confonde tra il resto dei passeggeri. Non si può sapere quando sale, né tantomeno quando scende."
Il Conducente non rispose per qualche interminabile secondo, poi disse, con voce calma e neutrale: "Fai bene, fai bene ad avere paura. Secondo fonti certe oggi i controlli saranno intensificati nell'area urbana e suburbana. E sai," concluse sibilando e contorcendosi sul posto, ".. non me ne frega uno stracazzo di niente se la macchinetta è fuori servizio o se ti sei perso l'abbonamento nel buco del culo."
Poi strinse forte il volante, così forte che le vene gli affioravano sulla pelle come una violacea cartina geografica. Oltre il parabrezza luminescente, William scorgeva il panorama. Un cielo plumbeo era intaccato dal rossore del  tramonto, e tra file di interminabili palazzi si assestavano lunghi cantieri in fase di costruzione.
"Io... io.. io la contesto, le faccio un r-r-eclamo Signor Conducente! Q-q-questo non è l'atteggiamento adat-to! Qui d-d-entro è tutto uno schifo!" balbettò William e senza pensare, senza sapere perché, si volse frenetico e corse verso l'uscita. Accanto alle porte c'era un pulsante rosso, gigantesco, e un martelletto, entrambi chiusi in una scatoletta di soffice vetro. L'etichetta diceva: "ROMPERE IN CASO DI EMERGENZA"
William la infranse con un pugno, si impossessò dell'arnese di ferro e con quello colpì ferocemente il pulsante rosso.
In tutto l'autobus scattò una cacofonia d'allarmi, luci celesti lampeggiavano da moltissime angolazioni, spruzzi d'acqua salata si diffondevano rapidamente ovunque, ed infine il mezzo si bloccò sulla strada come se fosse morto di sua spontanea volontà. Il motore graffiava l'aria con rantoli convulsi.
William riprese fiato, si accasciò al suolo con le mani tra le ginocchia, stremato in tutto il corpo dallo scemare dell'ansia accumulata di minuto in minuto.
Si accorse che tutti i passeggeri erano seduti correttamente, immobili; sembrava che i senza posto fossero stati divorati per l'occasione.
Ora vestivano eleganti, rasati come militari avulsi alla vita mondana, accartocciati nello stesso abito nero e distinto; protendevano il braccio a mezz'altezza, ritto di fronte a loro, e da ogni mano si allungavano piccoli cartoncini bianchi. "Sono, sono dei biglietti", pensava William alzandosi e osservando l'ambiente completamente rinnovato. L'autobus brillava di una luce sulfurea, e l'aria, tutta, era rarefatta e a tratti irrespirabile.
"Attenzione Signori", gridò una voce alle sue spalle, e William si girò incrociando con lo sguardo il Conducente che adesso stava in piedi a pochi passi dalla cabina di guida. Era pervaso da una strana serietà, sul volto non si muoveva neppure un muscolo; lunghe basette nere gli scivolavano caute fino al mento. Indossava una divisa grigia con otto bottoni bianchi, sul petto saltava all'occhio un minuscolo cartellino identificativo. William non riusciva a leggerne le credenziali.
D'un tratto le entrate si spalancarono da sole, e da ognuna delle due emerse un uomo uguale e identico al Conducente. "Che siano gemelli?" pensò William.
"Attenzione Signori," gridò ancora il Conducente. Stringeva una lunga bacchetta  di ferro e la sbatteva con forza su un poggiamano. Quel rumore metallico penetrava subdolamente nelle orecchie di William.
"Attenzione Signori," ripetè per l'ennesima volta. Ora non urlava, solo aveva un tono da nazista moderno, autoritario, alto e preciso, che ti costringeva a sussultare, a porre attenzione ad ogni parola, tra battiti frenetici del cuore, scanditi a meraviglia da quella lunga bacchetta metallica.
"Io sono il Controllore" disse poi il Conducente divenuto Controllore.
"E' in corso una verifica dei titoli di viaggio. Se dovete scendere a questa fermata, indirizzatevi presso i miei colleghi. Il vostro biglietto verrà verificato e sarete lasciati andare"
Nessuno sembrava voler scendere; aspettavano imperturbabili.
Ai piedi del Controllore, una signora di mezz'età, dalla gonna viola di cartapesta, gli si strusciava sulle scarpe come un cagnolino ubbidiente. "La prego, la prego," farfugliava felice, "La prego, parliamo del tempo, dell'andamento dei controlli nell'ultimo mese, della viscida amoralità dei trasgressori, si dilunghi dettagliatamente sulle novità introdotte con l'avvento dell'abbonamento impersonale, mi sorrida, mi sorrida e dica che tutto va bene, mi sorrida e dica che tutto va bene"
"Non c'è bisogno di farla così lunga, signora," disse lui con tono canzonatorio. "Mi mostri semplicemente il biglietto"
Ma la Signora sembrava non intendere, poiché, anche ora che il Controllore avanzava tra i posti a sedere, egli era costretto a scrollarsela di dosso con grandi pedate. Quella lo intralciava senza sosta, sorridendo e biascicando frasi sconnesse sull'umidità e l'effetto serra.
William era tornato al suo posto e seguiva ogni più piccolo movimento del Controllore, cercando di indagare nei suoi occhi, di carpire quale misteriosi segreti celasse quell'individuo fatto tutt'uno con il suo ruolo. Tremava da capo a piedi, come un uovo che sta per schiudersi. Non poteva fuggire e lo sapeva: avrebbe tardato a lavoro, e non solo, gli Aiutanti del Controllore lo avrebbero fermato subito, diffamandolo in pubblico per la sua gravosa mancanza.
Il Controllore, irreprensibile e professionale, esaminava a lungo il biglietto che gli veniva mostrato, serio e impassibile come solo una pietra levigata sa essere. I suoi Aiutanti posteggiavano le uscite, guardandosi attorno e fischiettando. Perennemente picchiavano sui poggiamani con le loro sbarrette di ferro, e perennemente ripetevano parole d'esortazione in tono alto e inflessibile: "Questa è una verifica. Siete pregati di esibire i vostri biglietti."
Schioccavano la lingua come grigi camaleonti giganteschi.
William si teneva una mano sul petto, pronto alla storia da raccontare al Controllore. "Gli dirò della macchinetta, del portafoglio rubato, insomma, sono cose che conosce già! Però gliele ricorderò e lui sarà clemente! Da Conducente non sembrava un brav'uomo, ma adesso, beh, adesso è un Controllore!"
In tempi passati William aveva sperato di incontrarne uno, di questi famosi controllori, di inchinarsi con il braccio verso l'alto per mostrare il suo scintillante abbonamento annuale. Nella sua immaginazione il Controllore sorrideva benedicendolo con un simpatico occhiolino.

15
Altro / Re: Il gioco - terza e ultima parte
« il: Ottobre 09, 2011, 18:40:36 »
Grazie a voi ragazzi che continuate a seguire i miei bizzarri racconti  dharmas

Pagine: [1] 2 3 ... 6