Autore Topic: 018 - Pagine dal Diario di un Ragazzo felice - Le Stalle e l'Ovile  (Letto 450 volte)

victor

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LE STALLE E L’OVILE

Oltre questi fabbricati c’erano le stalle. A queste si accedeva dalla strada, ma noi ragazzi entravamo scendendo dall’orto mediante una scala a pioli. Il fabbricato più grande era la stalla “grande” che ospitava il cavallo con cui mio nonno si recava in campagna. In questo locale c'era un soppalco dove veniva conservato il fieno e la paglia. Era qui sopra, in mezzo alle balle di paglia che io e Maria ci eravamo costruiti il nostro nascondiglio segreto. Ed è stato in questa stalla che io una volta mi son preso una ginocchiata da un mulo. Non so per quale motivo era venuto un frate del convento e con mio nonno stavano legando la mula alla mangiatoia. Io li accompagnavo. Mentre il frate legava la mula alla mangiatoia, io che avevo una certa dimestichezza con gli animali, battei con il palmo della mano sulla schiena dell’animale. La mula, forse nervosa in quanto si trovava in un locale nuovo che non conosceva, forse infastidita dal mio contatto, sferra un calcio terribile. Colpisce me con il ginocchio e mi scaraventa a circa cinque metri di distanza in mezzo al letame, che per fortuna attutì il mio impatto con il terreno, mentre con lo zoccolo ed il ferro colpì un grosso palo che sosteneva il tetto della stalla e ne scheggiò circa la metà. Io fui colpito dal ginocchio della mula all’altezza del braccio e della spalla destra che mi procurarono una lussazione dell’omero. Chiamato il medico di famiglia, questi consigliò di chiamare un macellaio noto in quanto era molto bravo ad “aggiustare le ossa”. Costui arrivò il pomeriggio e trovò me dolorante con il braccio legato al collo. Tolse la fasciatura, e cominciò a palpare la mia spalla e d’un tratto afferra il mio braccio e gli fa compiere una serie di movimenti e di giri in tutte le direzioni. Io urlai “aiuto, sto morendo … salutatemi mio padre … salutatemi mia madre …” e svenni. Quando mi risvegliai ero a letto con il braccio e tutto il torace fasciati insieme. Rimasi a letto un paio di giorni durante i quali Maria mi teneva compagnia e mi dava da mangiare in bocca in quanto io non potevo muovere il braccio destro che era tutto immobilizzato.

Accanto alla stalla grande c’era quella “piccola” in cui la notte venivano rinchiuse le capre di proprietà di mio nonno. Poi c’era anche l’ovile, in cui il pecoraio custodiva la notte le sue capre, in parte coperto da una tettoia e in parte completamente aperto. Sotto la tettoia era stato ricavato un recinto in cui veniva fatto il formaggio e la ricotta. Sul fondo si trovavano gli stabulari per i maiali.

Come ho detto, io, per tutto il giorno avevo a disposizione degli spazi che per un ragazzo dagli otto ai quattordici anni si potevano considerare sterminati. La mattina mi alzavo presto. Non come mio nonno, che si alzava alle cinque per andare tutti i giorni alla messa delle sei presso la chiesa del vicino convento dei frati cappuccini. E neanche come la zia e la servitù che quando mio nonno usciva di casa e apriva il portone erano già tutti in cucina. Ma un po’ più tardi, infatti verso le sei e mezzo passava Maria nella mia stanza e mentre preparava i miei vestiti sulla sedia, apriva le imposte e mi svegliava. Nel bagno, inizialmente non c’era ancora acqua corrente. C’era una toletta di marmo su cui stava poggiata la brocca con l’acqua, e la vaschetta di ferro smaltato (“il bacile”) dentro cui ci si lavava. Poi verso il 1950 fu istallato l’impianto di acqua corrente ed anche il primo scaldabagno a gas, che fu portato da mio padre. Lavato e vestito passavo in cucina. Maria aveva già apparecchiato la tavola per me e per mio nonno che tornava dalla messa verso le sette, aveva scaldato il latte munto e bollito fin dalla sera prima. Mentre io e mio nonno facevamo colazione con il latte e le nuvolette (due io ed una mio nonno) la zia prendeva il caffè e fumava uno spezzone di sigaretta Chesterfield con il bocchino. Dopo di che, se non andavo in campagna con mio nonno avevo tutta la mattina libera per scorazzare per la campagna e le case dei vicini.

A quei tempi non esistevano giocattoli, dovevamo costruirceli da soli. Nell’entrata (l’ingresso di servizio), nel sottoscala, c’era una cassetta con tanti attrezzi ben ordinati e suddivisi in cassette più piccole. C’era una sega, ma io non l’adoperavo, c’era un’ascia, c’era una roncola (era l’attrezzo che io usavo più spesso per tagliare i rami o gli alberelli), c’erano delle chiavi per svitare bulloni, c’erano alcuni giravite. Io potevo usare tutto quello che volevo. Unica regola era che lo rimettessi a posto subito dopo averlo usato (non esisteva “lo faccio dopo”).

Come ho detto i giocattoli me li costruivo da solo. Ad esempio ogni anno mi costruivo un arco con le frecce. L’arco lo ricavavo da un alberello di olmo, molto flessibile ed elastico, legato alle due estremità con un filo di spago. Lo tagliavo con la roncola e con la stessa asportavo tutti i rami laterali. Poi, con il coltello toglievo la corteccia e smussavo le asperità. Inizialmente il coltello me lo procuravo in cucina (la regola era sempre la stessa “si chiama Pietro, ritorna indietro”), poi mi costruii un coltello rudimentale, ma molto robusto, con una striscia di lamiera che ricavai da un pezzo di cerchio di una botte. Ci lavorai tanto tempo e ricavai un specie di coltello molto robusto ed efficiente, quasi un pugnale, tornendo il manico ed affilando la lama sulla pietra di fiume, che mio nonno teneva vicino alla cisterna proprio per affilare gli attrezzi di lavoro. Mio nonno era al corrente di questi miei armeggiamenti e non solo mi spiegava come tornire l’impugnatura ed affilare la lama sulla pietra di fiume bagnandola continuamente, ma anche come dovevo usarlo per non ferirmi oltre a raccomandarmi di utilizzarlo sempre in maniera appropriata. E io seguivo le sue istruzioni e i suoi insegnamenti. Le frecce le ricavavo da alberelli di castagno, più sottili e più leggeri. Il castagno era altrettanto dritto come l’olmo ed anche più rigido.

Con un alberello di castagno mi feci il mio bastone, che utilizzavo quando andavo in campagna con mio nonno. Dalla cime di qualche canna che Tano tagliava in un canneto vicino al fiume e mi portava di tanto in tanto mi ricavavo le cerbottane. Raccoglievo i frutti del “melicucco” (Celtis australis) piccoli e rotondi con cui mi riempivo le tasche, e poi affacciandomi dal muro di cinta del cortile, dopo aver mangiato quel poco di polpa che ricopriva i semi li lanciavo con la cerbottana contro i ragazzini o le ragazzine che giocavano in strada. Non era una battaglia, ma era una maniera per attaccare discorso. Infatti, poi porgevo loro i frutti di melicucco, oppure mandorle, o albicocche o fichi che raccoglievo direttamente dagli alberi che si trovavano nel cortile o nella campagna vicina. Ero amico di tutti nel quartiere, sia dei ragazzi che dei grandi, e tutti mi volevano bene.

Il duro impegno per l'acquisizione delle competenze, la passione e le doti personali creano eccellenza ... e distinguono il professionista dal lavoratore ... Victor