Autore Topic: "Vizi privati, pubbliche virtù"  (Letto 5702 volte)

Doxa

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #15 il: Agosto 03, 2015, 07:49:46 »
Le virtù

Dopo la “passeggiata” tra i sette vizi capitali, senza temere per la salvezza della propria anima, proseguiamo il cammino letterario nei sentieri delle sette virtù: quattro cardinali e tre teologali.

Il sostantivo “virtù” deriva  dal latino virtus”, che significa “virilità”, dal latino “vir” (= uomo), evoca la forza fisica, i valori guerreschi maschili, come il coraggio.

Nella lingua italiana il significato di virtù è dominato dal concetto di bene, da valori assoluti non condizionati dal relativismo.
 
La virtù è una costante disposizione d’animo a fare il bene, a prescindere da ogni considerazione utilitaristica di premio o di castigo, di felicità o di infelicità. Può quindi essere definita come la motivazione che induce l’individuo ad impegnarsi per il conseguimento di un fine elevato.

Nei poemi omerici e per gli antichi Greci la  virtù (in greco areté) è essenzialmente valore militare, forza, capacità di combattere con coraggio. Lo stesso significato ha la parola virtus  per  gli antichi Romani.

Nella mitologia romana, Virtus era la divinità del coraggio e della forza militare, la personificazione della virtù. Veniva onorata in un tempio insieme ad Honos, personificazione dell’onore. 

La virtù divenne oggetto di indagine filosofica con Socrate, che si pose il problema di “che cosa è la virtù”  e lo risolse facendo dipendere la virtù dal sapere, dalla conoscenza: si comporta  in modo virtuoso solo chi sa cosa deve fare.

Per il filosofo Platone le virtù corrispondono al controllo della parte razionale dell'anima sulle passioni. Ne “La Repubblica” indica per la prima volta le quattro virtù, che da Sant'Ambrogio in poi verranno chiamate "cardinali", cioé"principali":
la temperanza, intesa come moderazione dei desideri;
il coraggio o forza d'animo necessaria per mettere in atto i comportamenti virtuosi;
la saggezza o "prudenza", controllo delle passioni;
la giustizia:realizza l'accordo armonico e l'equilibrio di tutte le altre virtù presenti nell'uomo virtuoso.

Aristotele  nell’”Etica Nicomachea” distingueva tra due specie di virtù: le dianoetiche  e le etiche. Le prime sono legate al prevalere della conoscenza, le seconde al dominio  della ragione sull’impulsività, secondo il criterio del “giusto mezzo” fra gli estremi.  La virtù è misura, che induce ad eliminare i comportamenti estremi e a scegliere con equilibrio e moderazione.  Compito della razionalità dell’uomo è proprio quello di dare una misura, un limite all’elemento irrazionale (cioè passionale e istintivo): il coraggio, per esempio, è una virtù in quanto è il giusto mezzo tra gli opposti della viltà e della temerarietà.

Ne gli scritti dei  filosofi stoici ci sono alcuni precetti simili quelli evangelici: la fratellanza universale, la necessità del perdono e l’amore per il prossimo.

La filosofia cristiana assorbì in parte lo stoicismo, sebbene l’impostazione stoica fosse quella di cogliere l’uomo dentro il mondo, mentre il cristianesimo poneva l’uomo in rapporto a un principio trascendente, Dio, che supera il mondo e la vita terrena.

Tommaso d’Aquino adattò al cristianesimo la dottrina aristotelica: nell’individuo c'è la tendenza naturale ad organizzare i propri comportamenti secondo principi razionali e pratici; su tale disposizione generale si fondano quelle particolari abitudini al buon comportamento che sono le singole virtù.

Seguendo Aristotele, Tommaso distingue le virtù umane in intellettuali e morali; tra queste ultime le virtù cardinali (cioè principali) sono quelle indicate da Platone: la saggezza (o prudenza), il coraggio, la temperanza (o moderazione) e la giustizia. Queste virtù, dettate dalla ragione, sono sufficienti per la vita terrena dell’uomo, non bastano però per il raggiungimento della felicità soprannaturale e per la salvezza eterna; di qui la necessità delle virtù teologali, provenienti direttamente da Dio che le infonde nell’anima dell’uomo: la fede, la speranza e la carità.

Nell’età moderna il filosofo Immanuel Kant studiò attentamente la morale, in parte condizionata dalla società ed in parte innata nell’individuo. La morale  sociale segue quello che il filosofo chiamò ‘imperativo ipotetico"; la morale innata, invece,  forma l'"imperativo categorico": due volontà differenti fra loro, che offrono all’individuo  due strade da seguire, simili solo per alcuni tratti.

Gli "imperativi ipotetici" causano nell'individuo una forzatura nel comportamento, per renderlo conforme alla legge, che può essere quella della società, come quella della religione, che spesso si intrecciano tra loro. L’individuo si sottomette alla legge senza considerare il motivo della sua azione ma solo perché così prescrive la norma.
Invece gli “imperativi categorici” non sono stabiliti da leggi o norme, non regolano la vita dell’individuo. L’imperativo categorico è universale, comune a tutti,  e da tutti inteso alla stessa maniera. E’ un “devi perché devi” e non un “devi perché vuoi”.

La legge morale non dice: ‘fai il bene’, come se fosse una costrizione, ma ‘segui la legge morale’, che porta sempre al bene. L’imperativo, perciò, non si esprime nel contenuto dell’azione, ma nella sua forma (‘obbedisci alla legge morale’). Ci si comporta secondo il dettato morale indipendentemente da qualsiasi motivo e conseguenza della propria azione: si realizza così la virtù come soggezione della volontà all'"imperativo categorico".
A Kant interessavano le condizioni “trascendentali” della vita morale dell’individuo, le condizioni a priori che garantiscono la possibilità di agire moralmente.

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #16 il: Agosto 05, 2015, 10:09:37 »
Settenario delle virtù

La virtù è una disposizione abituale a compiere il bene, a praticare le cosiddette buone azioni. 

Come già detto nel precedente post,  Platone  ne  “La Repubblica” (IV, 427 e – 433 e) fu il primo ad  elencare  e commentare le quattro virtù:  prudenza, giustizia, temperanza, fortezza, poi da Ambrogio vescovo di Milano (dal 374 al 397) furono dette “cardinali” perché considerate principali o morali  nel “De officiis ministrorum” (= il dovere dei ministri, cioè dei sacerdoti), un manuale di etica per il clero.  Tali virtù appaiono anche  nel “Libro della Sapienza” nell’Antico Testamento : “Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini nella vita”(8,7).

A differenza delle virtù cardinali le virtù teologali danno concretezza al rapporto del credente verso Dio e caratterizzano l’agire morale del cristiano.

L’aggettivo “teologale” deriva dal sostantivo “teologia”, parola composta da “theòs” (=Dio) e “logos” (= parola, discorso). E’ un ramo della filosofia che ha per oggetto la divinità o gli dei, la religione e i culti o i miti.

Anche il termine "teologia"  compare per la prima volta nel IV secolo a.C. nell'opera di Platone la “Repubblica” (II, 379 A).

Le tre virtù teologali furono  elencate per la prima volta da Paolo di Tarso nella prima Lettera ai Tessalonicesi, scritta nell’anno 50 (circa): “L’impegno nella fede, l’operosità nella carità, la costante speranza” (1 Tessalonicesi 1, 3).  Ribadite da questo apostolo tra il 53 ed il 57 nella  prima lettera ai Corinzi: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza, la carità, ma la più grande di esse è la carità”. (1 Cor. 13, 13)

Le virtù cardinali e teologali venivano considerate in modo separato ma dal 12/esimo secolo furono unite in un settenario di virtù come categorie essenziali nelle rappresentazioni cristiane, perché i credenti saranno giudicati da Dio in funzione dei loro peccati e delle loro virtù, ricevendo la ricompensa del paradiso o il castigo dell'inferno (Mt. 25, 35-36).

L'alternativa fondamentale salvezza/dannazione dominò la diffusione del discorso morale sviluppato dalla patristica e dai chierici nel Medioevo. Con la predicazione e la confessione La Chiesa voleva controllare le coscienze ed i comportamenti sociali degli individui.

Le raffigurazioni dei vizi e delle virtù si inseriscono in questo processo. 

Lo spagnolo Prudenzio (348 – 413) nella “Psychomachia” ("Lotta dell'anima"): descrive in forma epica la lotta spirituale dell'anima, supportata dalle virtù cardinali, contro l'idolatria e i corrispondenti vizi. Quest'opera esercitò una forte influenza sulla poesia medievale e sulla letteratura cristiana in generale. Come poema allegorico ebbe un ruolo determinante nel primo sviluppo della rappresentazione dei vizi e delle virtù. Nella “Psychomachia” Prudenzio descrive combattimenti epici che impegnano le personificazioni femminili: la Fede contro l'Idolatria, la Pudicizia contro la Libidine, la Pazienza contro la Collera, l'Umiltà contro la Superbia, la Sobrietà contro l'Abbondanza, la Generosità contro l'Avarizia, la Concordia contro la Discordia.

I combattimenti dei vizi e delle virtù sono rappresentati  in numerosi codici miniati. Dal 12/esimo secolo quelle simbologie vennero estese agli affreschi parietali e all’arte monumentale, scolpite in particolare nei capitelli e nei portali delle chiese. 

Le rappresentazioni artistiche sono generalmente sotto forma di allegorie femminili, statiche o dinamiche, in trono, in piedi o a mezzobusto, raramente alate, identificabili attraverso iscrizioni e per i loro attributi, oppure tramite un animale o un simbolo posto in un disco.

I simboli  delle virtù cardinali furono fissati per la prima volta all'epoca carolingia: Prudenza sorregge un libro, simbolo di saggezza e di discernimento; Giustizia è identificata grazie a una bilancia; Temperanza tiene una fiaccola e versa l'acqua da un recipiente, a simboleggiare la capacità di spegnere il fuoco delle passioni; Fortezza si caratterizza per i suoi armamenti e in particolare per lo scudo e la lancia. Nell'11/esimo secolo a questo schema furono aggiunte delle alcune varianti: Temperanza abbandona la fiaccola e, sorreggendo due recipienti, mescola l'acqua con il vino; Giustizia aggiunge ai suoi attributi una spada e alcune volte gli strumenti per tracciare una linea esatta, come il compasso o il filo a piombo; Prudenza tiene spesso un serpente o uno specchio.

Dal 12/esimo secolo le virtù teologali vennero caratterizzate nei seguenti modi: la “Speranza”  con un ramoscello d'ulivo, segno della fine del diluvio; la “Fede” d un fonte battesimale o una croce; la “Carità” con un pane e un calice.

Alla fine del Medioevo le varianti divennero molto numerose. 

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #17 il: Agosto 06, 2015, 11:11:33 »
Nella “Commedia” il primo Canto del Purgatorio è ambientato sulla spiaggia. Dante vede nel cielo  del polo sud australe quattro stelle molto luminose: sono il simbolo delle virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza), considerate dalla teologia cristiana propedeutiche all’acquisizione delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), accennate nel Canto ottavo del Purgatorio: Dante alza lo sguardo al cielo e guarda tre stelle splendenti che illuminano il cielo australe. Esse simboleggiano le tre virtù teologali, riproposte nel Paradiso nei Canti XXIV, XXV e XXVI. 

Oltre la letteratura anche la filosofia e la psicologia si occupano delle virtù.

Il ramo della filosofia che si occupa delle virtù è l’etica: studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare ai comportamenti degli individui uno status deontologico, distinguendoli in buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti malvagi o moralmente inappropriati.

La domanda che l’etica (o filosofia morale) si pone è:  “che tipo di persona dovrebbe essere”? Invece la  psicologia, in quanto scienza che studia il comportamento umano si pone un’altra domanda: “che tipo di persona è ?”. E’ evidente la divaricazione tra  le due discipline.  La psicologia non valuta l’individuo, ne descrive la personalità in modo moralmente neutro.

Per la psicologia le virtù sono potenzialità latenti, il cui sviluppo è possibile se il bambino vive in un ambiente  familiare interessato al suo sviluppo morale. Infatti le virtù morali vengono acquisite tramite l’educazione e la perseveranza. Quattro di esse sono considerate “principali”, considerate simili ai cardini perciò dette “cardinali”: la prudenza (“prudentia”), la giustizia (“iustitia”), la fortezza (“fortitudo”) e la temperanza (“temperantia”). Ad ognuna di queste dedicherò un post.

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #18 il: Agosto 06, 2015, 15:05:09 »
ti leggo, anche se non commento, perchè non ne sono all'altezza. Una domanda te la vorrei fare, forse centra poco con queste tematiche, ma mi sembri un tipo informato sui fatti: in un libro di Bruno Tacconi ho letto che già dopo una trentina di anni dalla morte di Gesù, i cristiani contavano gli anni dalla sua nascita. Possibile? conosco Tacconi come scrittore preciso ed una svarione simile non se lo sarebbe concesso, tuttavia la cosa mi ha interessata. Che ne dici, sarà vero?

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #19 il: Agosto 07, 2015, 09:30:00 »
Gentile Nihil, ti ringrazio per la pazienza che hai nel leggere i miei post.

Il medico Bruno Tacconi amava la storia delle antiche civiltà mesopotamiche, ma in quale fonte scritta lesse “che già dopo una trentina di anni dalla morte di Gesù, i cristiani contavano gli anni dalla sua nascita.” ? 

Non rammento tale notizia nei libri di storia del cristianesimo che ho letto. Eppure sono testi scritti da storici di questa disciplina.

Non si conosce l’anno di nascita di Gesù, né il mese né il giorno, perciò come facevano i paleo cristiani a contare “gli anni dalla sua nascita” ? I Vangeli canonici non indicano la data. E il primo dei quattro vangeli, quello di Marco,  fu scritto tra il 60 ed il 70 circa. 

Storicamente il primo a proporre l’era cristiana fu il monaco Dionigi il Piccolo, vissuto nel VI secolo. Calcolò che Gesù Cristo fosse nato il 25 Dicembre dell'anno 753 “ab urbe condita”, cioè  753 anni dopo la fondazione di Roma, e pensò che gli anni dovessero essere contati dall’anno domini, dall’ipotetica nascita di Gesù, fondamentale per la religione cristiana, e non dalla fondazione di Roma o dall'inizio del regno di alcuni imperatori, come quello di Diocleziano  nel 284. 


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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #20 il: Agosto 07, 2015, 10:44:53 »
Prudenza: è la virtù che induce a discernere il proprio bene e a scegliere i mezzi adeguati per raggiungerlo.
La prudenza deriva dalla conoscenza e dalla volontà. Cercare il bene (momento conoscitivo), scelta del bene che si vuole (momento volitivo). La prudenza è la retta norma dell’azione, scrisse Tommaso d’Aquino. 

“Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”, è il monito che Gesù dice ai suoi discepoli, che devono essere consapevoli di vivere nel mondo “come pecore in mezzo ai lupi”. (Matteo 10, 16).

Nella parabola evangelica “delle vergini stolte e prudenti” (Matteo 25, 1–13) si legge che “Cinque di esse erano stolte e cinque prudenti”.

La prudenza è nemica della fretta, induce a valutare con calma prima di decidere.

Secondo la filosofia classica, ripresa poi dalla filosofia Scolastica, la Prudenza è intesa come capacità di memoria, intelligenza e previsione. Dante afferma nel Convivio (IV, 27): “Conviensi adunque essere prudente, cioè savio: e a ciò essere si richiede buona memoria delle vedute cose, e buona conoscenza delle presenti, e buona provvedenza delle future”.

Le tre facoltà intellettuali necessarie alla Prudenza sono messe in correlazione con la vecchiaia, la maturità e la giovinezza.

Secondo la filosofia classica, ripresa poi dalla filosofia Scolastica, la Prudenza è intesa come capacità di memoria, intelligenza e previsione. Dante afferma nel Convivio (IV, 27): “Conviensi adunque essere prudente, cioè savio: e a ciò essere si richiede buona memoria delle vedute cose, e buona conoscenza delle presenti, e buona provvedenza delle future”.

Le tre facoltà intellettuali necessarie alla Prudenza sono messe in correlazione con la vecchiaia, la maturità e la giovinezza.


Tiziano: “allegoria della Prudenza” (1565 – 1570 circa; Londra, National Gallery)

Nel quadro sono rappresentate tre teste umane: un anziano, un uomo maturo ed un giovane, che simboleggiano le tre età dell’uomo.  Le loro teste sovrastano tre teste animali: un leone, un lupo ed un cane: il leone è ritratto di fronte, il lupo ha la testa volta indietro, il cane guarda in avanti.

Negli animali raffigurati il lupo simboleggia colui che divora i ricordi del passato e li fa dimenticare; il leone rappresenta la forza con la quale bisogna condurre le proprie azioni nel presente; il cane è  simbolo di speranza nel futuro.

Al di sopra delle tre teste umane c’è scritto un motto diviso in tre parti che spiega il senso dell’allegoria: ”Ex preterito / praesens prudenter agit / ni futura (m) actione (m) deturpet” (Sulla base del passato / il presente prudentemente agisce / per non guastare l’azione futura). Questo testo corrisponde al lavoro del psicoterapeuta: parlare di eventi passati che possono essere stati traumatici per la psiche e fare un lavoro di psicoterapia per attenuarli. Così facendo il passato non influisce negativamente sul presente ma fa parte della vita della persona, anzi serve a continuare verso un futuro con l’esperienza del passato, con la personalità rafforzata.

« Ultima modifica: Agosto 08, 2015, 15:09:02 da dottorstranamore »

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #21 il: Agosto 07, 2015, 22:45:06 »
Gentile Nihil, ti ringrazio per la pazienza che hai nel leggere i miei post.

Il medico Bruno Tacconi amava la storia delle antiche civiltà mesopotamiche, ma in quale fonte scritta lesse “che già dopo una trentina di anni dalla morte di Gesù, i cristiani contavano gli anni dalla sua nascita.” ? 

Non rammento tale notizia nei libri di storia del cristianesimo che ho letto. Eppure sono testi scritti da storici di questa disciplina.

Non si conosce l’anno di nascita di Gesù, né il mese né il giorno, perciò come facevano i paleo cristiani a contare “gli anni dalla sua nascita” ? I Vangeli canonici non indicano la data. E il primo dei quattro vangeli, quello di Marco,  fu scritto tra il 60 ed il 70 circa. 

Storicamente il primo a proporre l’era cristiana fu il monaco Dionigi il Piccolo, vissuto nel VI secolo. Calcolò che Gesù Cristo fosse nato il 25 Dicembre dell'anno 753 “ab urbe condita”, cioè  753 anni dopo la fondazione di Roma, e pensò che gli anni dovessero essere contati dall’anno domini, dall’ipotetica nascita di Gesù, fondamentale per la religione cristiana, e non dalla fondazione di Roma o dall'inizio del regno di alcuni imperatori, come quello di Diocleziano  nel 284. 


il libro in cui ho trovato la cosa è "Masada".In realtà l'ho trovato discretamente brutto e l'ho abbandonato. Inoltre, secondo me, i cristiani avrebbero dovuto immaginare a priori che Gesùsarebbe diventato un tipo famoso!  :)

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #22 il: Agosto 10, 2015, 09:36:42 »
Giustizia.
 
Il sostantivo giustizia deriva dal latino “justitia”, da jùstus” (= giusto) e questo da “jus” (= diritto).
Il termine greco per giustizia è “dikaiosyne” mentre il giusto è “dikaios”. Derivano dal sostantivo “dike” che significava in origine colei che indica, che indirizza e quindi direttiva, indicazione, ordine.

La definizione generale tradizionale, in senso giuridico ed etico-sociale, di giustizia è: "la volontà costante e perpetua di dare a ciascuno il suo diritto".

Ci sono diverse forme di giustizia: tramite il diritto può regolare le relazioni tra gli individui, i rapporti tra una comunità e i suoi cittadini, può riguardare il potere giudiziario, la giustizia  divina, ecc..

Nel mondo greco-romano il concetto di giustizia era basato sul principio ideale del diritto naturale, cioè su norme non scritte ma presenti nella coscienza degli individui, considerate universali, immutabili e necessarie per l’armonia nei rapporti umani.

Il politico ed oratore forense Marco Tullio Cicerone (106 a.C – 43 a.C.) nel suo saggio di filosofia del diritto “De legibus”,  afferma che il diritto naturale è uguale in ogni luogo e in ogni tempo, nato prima della fondazione di ogni Stato e di ogni norma.

L'uomo giusto che si cita nella Bibbia, si distingue per l'abituale rettitudine della propria condotta verso il prossimo.  “Non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia” (Lv 19,15).  “Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo” (Col 4,1).

Per la Chiesa la legge naturale deriva dalla Sapienza divina. La si può definire, in senso biblico, come un insegnamento paterno, una pedagogia di Dio.

Nel catechismo della Chiesa cattolica c’è l’articolo riguardante la legge naturale, detta anche “legge morale”, che permette all’individuo di distinguere il bene e il male, la verità e la menzogna.

La legge naturale è universale e immutabile nei suoi precetti e la sua autorità è erga omnes, rivolta a tutti.

Nel terzo Canto dell’Inferno dantesco il poeta scrive: “Giustizia mosse il mio alto fattore; / fecemi la divina podestate, / la somma sapïenza e 'l primo amore. (vv. 4 – 6) (= La Giustizia spinse il mio grande artefice –Dio- a crearmi, mi fece la divina potenza, la somma sapienza e il primo amore.)

Nel XIX Canto del Paradiso un’aquila si staglia di fronte a Dante con le ali aperte, formata da migliaia di spiriti giusti che fruiscono della visione divina e ognuno di essi sembra un rubino che scintilla colpito dai raggi del sole. Dante  sa che in Paradiso vige la giustizia divina, quindi si prepara ad ascoltare dall’aquila la risposta a un suo dubbio.

I riferimenti danteschi alla giustizia non  sono solo nella Divina Commedia, ma soprattutto nel “Monarchia”.

II concetto di giustizia suppone quello di diritto, perché la giustizia è la dimensione morale del diritto. Entrambi mirano ad assicurare l'armonia morale, politica, sociale e/o economica all'interno di una società.

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #23 il: Agosto 11, 2015, 10:17:45 »
Fortezza: in latino Fortitudo (= forza)


Sandro Botticelli: “Fortitudo” (Galleria degli Uffizi; Firenze)
La fortezza è  simbolicamente rappresentata da una figura femminile  che indossa l’armatura, necessaria per il combattimento contro il male e il conseguimento del bene. Regge nelle mani lo scettro o la spada.

Per il catechismo della Chiesa cattolica la fortezza è la virtù morale che dà coraggio, costanza nella ricerca del bene e resistenza alle tentazioni peccaminose. 

Nel Canto XXXIV dell’Inferno Virgilio indica a Dante la città di Dite: “Ecco Dite”, dicendo, “ed ecco il loco / ove convien che di fortezza t’armi”. (VV. 20 – 21) Dite è il toponimo usato da Dante per indicare nell’Inferno l’immaginaria città di Lucifero, chiusa da mura ferrigne ed alte torri, circondata dalla palude formata dall’acqua del fiume Stige, e l’ingresso vigilato da diavoli.

Nei Canti III, IV e V del Paradiso l’Alighieri celebra la virtù della fortezza, che rifulse in Muzio Scevola e in San Lorenzo. Dante si rivolge
all'anima che appare più disposta a parlare, quella della nobildonna Piccarda Donati. Le chiede chi è, la sua condizione e quella delle altre anime nel luogo. 
Piccarda Donati, a differenza di S. Chiara, non ebbe la fortezza eroica che Dante ammira, tuttavia anch'essa dette esempi di fortezza, come quando non cedette alla violenza del fratello (Corso Donati), che la fece uscire con la forza dal convento delle Clarisse per sposare il facinoroso e ricco Rossellino della Tosa. (vv. 34 – 57)

Per la psicologia il coraggio è collegato all’azione, la fortezza d’animo alle emozioni ed ai sentimenti. Un individuo ha coraggio per affrontare i pericoli e la fortezza d’animo o spirituale per sopportare le sofferenze, le avversità: "Sono come la pianta che cresce sulla nuda roccia: quanto più mi sferza il vento, tanto più affondo le mie radici" (proverbio indiano)

Nel suo libro “La forza d’animo” la psicologa Anna Oliverio Ferraris connette questa forza spirituale alla “resilienza”: la proprietà che hanno i metalli di tornare alla loro forma iniziale.  In psicologia la resilienza  è considerata un mix di resistenza e flessibilità psicologica.  I resilienti dopo aver subito uno stress forte mettono ordine nel caos. Hanno capacità d' iniziativa, non cadono in depressione, sanno gestire i sensi di colpa perché distinguono tra quello che dipende da noi e quello che non dipende da noi. Hanno una dimensione spirituale. Usano la compassione per consolare se stessi e gli altri.

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #24 il: Agosto 12, 2015, 09:40:19 »
Temperanza: è la virtù della moderazione. Questo sostantivo deriva dal verbo temperare, che nell’antichità veniva usato per indicare la miscelazione in modo proporzionale, in particolare del vino, che i Romani mescolavano con l’acqua per renderlo meno alcolico, oppure l’addolcivano con il miele o profumavano con foglie di rosa, viola e cedro, cannella e zafferano.

Da quel significato di giusto dosaggio della miscelazione  ci è pervenuto il senso generale del termine: la capacità di soddisfare con equilibrio e moderazione i propri istinti e desideri.

Il filosofo Aristotele nell’Etica Nicomachea indica la temperanza come il giusto mezzo contro gli eccessi. Invece Cicerone nel “De officiis” la descrive come “giusta misura in ogni cosa”.

Le religioni lodano questa virtù e chiedono ai fedeli di praticarla con la “mortificazione della carne” tramite il digiuno e la castità.

Nella Bibbia la virtù della temperanza, è indicata anche con il termine di “sobrietà”, “moderazione” o “dominio di sé”.

Nell'Antico Testamento la moderazione o temperanza è elogiata nel “Siracide”: “Non seguire le passioni; poni un freno ai tuoi desideri. (Sir 18, 30)

Nel Nuovo Testamento  troviamo la temperanza nella cosiddetta “Seconda lettera di Pietro”, con riferimento all’apostolo ma redatta  in lingua greca tra il 100 ed il 160  da un altro autore che si presenta come Pietro e conosceva la “Prima lettera di Pietro”.
Nella seconda lettera di Pietro si dice: “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno, all'amore fraterno la carità. Se queste cose si trovano in abbondanza in voi, non vi lasceranno oziosi né senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo”.

Per il catechismo della Chiesa cattolica la temperanza è la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore”. Secondo questa definizione l’ultima virtù cardinale è fondamentale nel gestire gli eccessi ed è la capacità di fare ciò che è giusto ed evitare ciò che è sbagliato attraverso l’esercizio del proprio autocontrollo.

Nella “Commedia” dell’Alighieri ci sono esempi di temperanza nella VI Cornice del Purgatorio. Nel Canto XXII (vv. 115 – 154) e nel Canto XXIV (vv. 130 – 154), qui Dante scorge l'angelo della temperanza, che li invita a salire per accedere alla Cornice successiva.
 
Per la psicologia la temperanza è la virtù  di governare la propria vita evitando gli eccessi. E’ l’espressione misurata delle proprie necessità. E’ anche valutazione dei propri limiti e dei punti di forza.

La temperanza ha delle sottocomponenti: l’autoregolazione o autocontrollo, la prudenza, la moderazione nei desideri, la  capacità di perdonare gli altri.


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« Risposta #25 il: Agosto 14, 2015, 06:22:57 »
Nei precedenti post ho descritto le virtù cardinali, le quali ispirano i comportamenti dell’individuo verso il bene. La scelta è  favorita dal modo virtuoso di vivere,  definito “phrònimos” (= saggio) dal filosofo Aristotele.

Ora è giunto il momento di descrivere le virtù teologali, che motivano a vivere in relazione con Dio. Secondo il catechismo della Chiesa cattolica esse fondano e caratterizzano l'agire morale del cristiano.

L’aggettivo “teologale” deriva dal sostantivo “teologia”, e questo dal greco “theologhia”, parola composta da “theòs” (=Dio) e “loghia”, da “logos” (= parola, discorso). Discorso su Dio come soggetto  e come oggetto. Entrambi i significati sono importanti per la teologia cristiana, perché considera la teologia come opera di Dio e dell’Uomo.

Le virtù teologali hanno Dio come oggetto. Con la Fede noi crediamo in Dio, e crediamo tutto ciò che Egli ha rivelato; con la Speranza speriamo di possedere Dio; con la Carità amiamo Dio e in Lui amiamo noi stessi e il prossimo.

Come ho già detto in un precedente post,  le tre virtù teologali furono  elencate per la prima volta da Paolo di Tarso nella prima Lettera ai Tessalonicesi, scritta nell’anno 50 (circa): “L’impegno nella fede, l’operosità nella carità, la costante speranza” (1 Tessalonicesi 1, 3).  Ribadite da questo apostolo tra il 53 ed il 57 nella  prima lettera ai Corinzi: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza, la carità, ma la più grande di esse è la carità”. (1 Cor. 13, 13)

Le tre virtù teologali (fede, speranza e carità) sono  accennate nel Canto ottavo del Purgatorio:  Dante alza lo sguardo al cielo e guarda tre stelle splendenti che illuminano il cielo australe. Esse simboleggiano le tre virtù teologali, riproposte nel Paradiso nei Canti XXIV, XXV e XXVI. 

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #26 il: Agosto 16, 2015, 07:10:26 »
Fede

Il sostantivo “fede” deriva dal latino “fides” e significa “fiducia”, lealtà.

Nell'antica Roma la lealtà fu personificata dalla dea Fides, patrona dell’ordine sociale e politico. Veniva raffigurata come donna anziana, con i capelli bianchi. Simboleggiava il rispetto dei contratti, dei patti. Il suo culto fu stabilito da Numa Pompilio, uno dei mitici sette re di Roma. Sulla collina del Campidoglio, alla dea Fides  venne dedicato un tempio, nel quale venivano custoditi i trattati stipulati dal Senato romano per farli proteggere da questa dea, al cui culto erano assegnati i sacerdoti flamini, addetti anche all’accensione del fuoco sull’ara dei sacrifici.

La dea Fides era considerata importante dagli imperatori perché collegata alla “fides militum”, la lealtà dei soldati.  Ma era fondamentale anche nei rapporti interpersonali e per la “Res publica”, basata  sui valori di Fides, Virtus, Honos, Concordia, Libertas e Pietas.

Fede – fiducia: la radice semantica è la stessa. Fiducia deriva dal latino “fìdere” (= fidare, aver fede). La fiducia spesso si concede senza la certezza di essere corrisposti.  E’ come  una scommessa. 

Nell’ambito religioso la fede è la virtù che induce a credere in Dio, a ciò che egli ha “rivelato”.

Senza la fede la religione si riduce a moralismo e a manifestazione rituale e sociale.

Nel Vangelo di Luca la parola “fede” è più volte citata.
 
Rivolto agli apostoli Gesù disse: “Dov’è la vostra fede ?” (Lc 8, 25)

“In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede”…(Lc 17, 5). Essi sanno che la fede è un dono di Dio per chi si apre al suo agire, e si fida delle sue promesse.

Con l’affermazione del cristianesimo ci fu l’esigenza di chiarire il rapporto tra fede e ragione (fides e ratio), gli aspetti che distinguono o conciliano le verità della fede e le verità filosofiche.

Per Agostino d’Ippona  il rapporto tra fede e ragione è espressa nella frase: “intellige ut credas, crede ut intelligas”, cioé nell’invito a capire per credere ed a credere per capire.

Nella lettera enciclica “Fides e ratio”  del pontefice Giovanni Paolo II, pubblicata il 14 settembre 1998, c’è la metafora delle due ali, la fede e la ragione, che servono all’individuo per la ricerca della verità, perciò non si escludono ma si completano e si sostengono a vicenda.

Nel XXIV Canto del Paradiso l’apostolo Pietro chiede a Dante cosa sia la fede: “ Di', buon cristiano, fatti manifesto / fede che è ?” Il poeta gli risponde: La  “Fede è sustanza di cose sperate” (vv. 64 – 66)

Per la psicologia la fede, la fiducia in Dio  è un’importante risorsa, dà speranza, sostegno morale nella sofferenza e nella malattia, tramite la preghiera.

Il giornalista e poeta romano Trilussa, pseudonimo formato con l’anagramma del suo vero nome: Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri (1871 – 1950), è noto per le sue composizioni in dialetto romanesco, una delle quali la dedico a “La fede”:   

Quella vecchietta cieca, che incontrai
la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse: - Se la strada nun la sai,
te ciaccompagno io, ché la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso,
de tanto in tanto te darò 'na voce,
fino là in fonno, dove c'è un cipresso,
fino là in cima, dove c'è la Croce…
Io risposi: - Sarà … ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede … -
La cieca allora me pijò la mano
e sospirò: - Cammina! - Era fa Fede.

(Trilussa)

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #27 il: Agosto 17, 2015, 06:48:21 »
Speranza

Il sostantivo “speranza” deriva dal latino “spes” ed allude alla fiduciosa attesa di un evento.

Nella mitologia romana la Spes fu venerata come una divinità, rappresentata in piedi con un bocciòlo di fiore nella mano destra e la veste sollevata sul fianco sinistro.   Veniva celebrata con riti in suo onore l’1 agosto.
 
A Roma nel luogo dov’era il Foro Olitorio (Forum Holiturium), ci sono i  resti del tempio dedicato a Spes. Venne fatto edificare dal console Aulo Attilio Calatino durante la prima guerra punica, che si svolse tra il 264 ed il 241 a.C..

Il Foro Olitorio occupava un'area alle pendici del Campidoglio, tra il Teatro di Marcello ed il Foro Boario. Nell’antichità vi si svolgeva il mercato della frutta e verdura. Una parte di quella piazza era adibita ad area sacra con tre tempietti dedicati a Giano, Speranza e Giunone Sospita. 

Nell’urbe un altro tempio dedicato alla Speranza era adiacente al “vicus longus” sul colle Esquilino.

Nella mitologia greca la Speranza era denominata “Elpis”.

Il poeta greco Esiodo, vissuto tra la fine dell’VIII sec. a. C. e l’inizio del VII sec. a.C., nel suo poema didascalico “Le opere e i giorni” narra  che la speranza era tra i doni custoditi nel vaso regalato a “Pandora” ( nome che significa “tutti i doni”), la quale aveva avuto l'ordine di non aprirlo. Ma Pandora fu vinta dalla curiosità, aprì il vaso  e tutti i mali che vi erano contenuti volarono nel mondo. Per volontà di Zeus soltanto Elpìs rimase dentro il vaso, perciò la frase latina “Spes ultima dea” (= la Speranza ultima dea) che ancòra usiamo, ma nella versione che dice: “la speranza è l'ultima a morire”.

Si può vivere senza speranza ? E' un dono prezioso, permette di andare avanti anche quando la situazione che si vive non offre molte opportunità.
La virtù della speranza sostiene moralmente dallo scoraggiamento, dà la forza morale per perseverare nelle difficoltà, per far fronte alle difficoltà quotidiane, per dire si  alla vita, nonostante le sofferenze e  le avversità. Abbiamo bisogno di sperare che sia possibile il raggiungimento di mete,  di poter conseguire progetti, di realizzarci nell’amore.

In ambito psicologico alla speranza è assegnato un compito fondamentale, supportare la motivazione all’azione. Nella psicoterapia permette al paziente di avere fiducia nel futuro, di poter superare la propria sofferenza.

L’ex pontefice e “papa emerito” Benedetto XVI nell’enciclica “Spe salvi”  (= Salvati nella speranza), pubblicata il 30 novembre 2007,   spiega che la “speranza cristiana” non è individualista, ma comunitaria, perché discende dall’essere in comunione con Gesù. Essa agisce nel presente, come certezza dell'avvenire e fiducia che la propria vita non finisce con la morte.

Nel III Canto dell’Inferno si narra che Dante e Virgilio giungono di fronte alla porta dell'Inferno, su cui c’è una scritta che mette in guardia chi sta per entrare:  ammonisce che tale porta durerà in eterno e che una volta varcata non c'è speranza di tornare indietro.
“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate". / Queste parole di colore oscuro / vid’io scritte al sommo d’una porta;”.  Virgilio dice a Dante di non aver paura e di prepararsi all'ingresso nell'Inferno, tra le anime dannate.

Invece il XXV Canto del Paradiso si svolge nel cielo delle stelle fisse, dove ci sono gli spiriti trionfanti. L’apostolo  Giacomo, esortato da Beatrice esamina Dante sulla speranza, virtù che il santo ben conosce in quanto ne è la figura allegorica.

In ambito letterario penso a due poesie di Giacomo Leopardi: “La sera del dì di festa”  e “A Silvia”. In entrambi i componimenti il poeta cita la speranza. 

"La sera del dì di festa"
   
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme;
e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. […]


"A Silvia"

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
 
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno. 

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno. 

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
 
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
 
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce
: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!

Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.   



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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #28 il: Agosto 19, 2015, 11:15:27 »
Carità

Il sostantivo carità deriva dal latino “caritatem”, accusativo di “caritas” (= benevolenza), la quale discende  dall’aggettivo “carus” , che in origine significava “costoso”,  poi fu ampliato di significato ed utilizzato anche per indicare il sentimento di stima ed affetto verso una persona cara.

A volte il lemma carità viene scritto nella forma “charitas” per imitazione del vocabolo greco “chàris”, che significa “grazia” e simboleggia  l'armonia e la perfezione alle quali  un essere mortale dovrebbe tendere.

Con il cristianesimo alcuni termini facenti parte della concezione civile e politica romana assunsero anche un significato religioso e la parola “caritas” passò a significare l'agàpe,  l’amore in senso religioso, l’affetto di Dio verso l’umanità.

Nel nostro tempo di solito usiamo il termine carità con riferimento all’elemosina. A questo riguardo il Vangelo di Matteo ammonisce: Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno gia ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. (6, 1 – 4) Ed ancora la carità in Matteo con la parabola degli operai mandati nella vigna (20, 1 – 16).

L’apostolo Paolo di Tarso nel tredicesimo capitolo della “Prima lettera ai Corinzi (13, 1 – 13) esalta la virtù teologale della carità cristiana nel bellissimo brano noto come “Inno alla carità”.

Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae  afferma che la carità è amicizia dell’uomo con Dio, secondo il passo evangelico di Giovanni “non vi chiamo più servi..., ma vi ho chiamato amici” (15, 15).

Nella simbologia cristiana la carità è simboleggiata dal pellicano, che nel bestiario “Physiologus”, elaborato tra il II ed il IV sec. d.C.,  rimanda a significati metafisici o al comportamento umano. 

Il pellicano esprime la carità materna  quando è raffigurato insieme alla Vergine Maria. Tale icona evoca la Caritas di epoca romana, narrata dallo storico Valerio Massimo, vissuto tra la fine del I sec. a. C, e la prima metà del I sec. d.C.. Tale racconto ispirò la rappresentazione della “Madonna della Carità” che allatta un vecchio mendicante. Invece la  “Madonna del latte” nutre  al suo seno un neonato.

Nel basso medioevo per connotare la personificazione della carità lo scultore ed architetto Nicola Pisano usò come simbolo la fiaccola, invece il pittore Giotto la spiga di grano o un fiore, mentre lo scultore Tino di Camaino,  fece ricorso all’immagine dell’allattamento di due bambini e la melagrana come simbolo dell’abbondanza. 
 
Per Dante Alighieri la carità è il principio ordinatore del sistema morale.

Nel XIII Canto e II Cornice del Purgatorio Dante e Virgilio mentre camminano sentono volare sopra di sé degli spiriti che rivolgono degli inviti alla carità. Invece nel Canto XXVI del Paradiso, VIII Cielo delle stelle fisse, l’apostolo Giovanni esamina Dante sulla carità e questo risponde dicendo che oggetto della sua carità è Dio.  Ma San Giovanni  lo esorta a distinguere e a dire qual è l'origine della carità. Il poeta risponde che tale virtù gli viene da argomenti filosofici e dall'autorità che discende dal Cielo, poiché il bene in quanto tale accende amore di sé non appena viene compreso nella sua essenza (vv. 1 – 66)

Il papa emerito Benedetto XVI parlò della carità in tre documenti:

nell’enciclica  del 25 dicembre 2005 titolata “Deus caritas est” (= Dio è amore), frase desunta dalla “Prima Lettera di Giovanni”:  “Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. (1 Gv 4, 16);
 
nell’esortazione apostolica post-sinodale “Sacramentum caritatis” (=  il sacramento della carità) del 22 febbraio 2007;
 
nell’enciclica “Caritas in veritate” (= la carità nella verità) del 29 giugno 2009, nella quale ha scritto che “La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che, secondo l'insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr. Mt 22,36-40). Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo dei rapporti amicali o familiari, ma anche delle relazioni sociali, economiche e  politiche. 

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Re:"Vizi privati, pubbliche virtù"
« Risposta #29 il: Agosto 21, 2015, 07:37:13 »
Virtù civiche
 
Altre interessanti virtù sono quelle civiche o civili, che inducono i cittadini a perseguire l’interesse generale di una comunità per migliorare le condizioni di vita e favorire il progresso sociale, anche se ci sono individui che hanno interessi, idee e bisogni diversi.
 
Le virtù civiche derivano dalle virtù morali e formano la coscienza civica, che merita l’approfondimento concettuale.

Coscienza” deriva dal latino “conscientia”: indica nell’individuo la sua consapevolezza dell’ambiente circostante e la facoltà di interagire con esso.

Civica”, dal latino “civicus”: l’”homo civicus”  si occupa della “res-pubblica”  (= cosa del popolo); nell'antica Roma, in epoca repubblicana, Marco Tullio Cicerone espresse il rapporto fra res publica e populus in senso patrimoniale: la prima è possesso del popolo, che ne esercita la sua titolarità come un pater familias esercita la propria sulla sua domus. La “Res publica” era basata  sui valori di Fides, Virtus, Honos, Concordia, Libertas e Pietas.

Civicus” deriva da “civis”, = cittadino di una comunità. “Civis Romanus sum” (= Sono cittadino romano), è una locuzione in lingua latina che nell’antichità  indicava l'appartenenza di un cittadino all'Impero Romano e sottintende, in senso lato, tutti i diritti (e i doveri) connessi a tale stato.

La coscienza dei doveri di cittadino viene manifestata con azioni e comportamenti utili al bene comune. L’osservanza delle norme del vivere civile (dettata dal rispetto per i diritti altrui e dalla consapevolezza dei propri doveri) è detta “civismo”: questo termine deriva dal francese “civisme” ed indica la coscienza che il cittadino ha dei suoi doveri civici. Ma in Italia il civismo non è diffuso. Siamo la patria del “familismo amorale”, un concetto sociologico usato dal politologo statunitense  Edward C. Banfield (1916 – 1999) nel saggio pubblicato nel 1958, in Italia nel 1976, con il titolo: “Basi morali di una società arretrata”,  in riferimento ad un paese dell’Italia meridionale, Chiaromonte, in provincia di Potenza.

In Italia la tenuta sociale, controllata nel passato  anche dalla religione cattolica con lo spauracchio delle pene infernali,  non è stata rimpiazzata da una sufficiente educazione alla democrazia con i suoi diritti ma anche con i suoi doveri,  e le norme religiose, finché hanno tenuto, hanno svolto un’opera di supplenza.

Il “Laboratorio sulla società e il territorio” ha  somministrato un questionario per verificare alcuni comportamenti degli italiani che hanno conseguenze sulla collettività e considerati accettabili o inaccettabili.

Alcuni esempi. Il rispetto dell’ambiente ed il rispetto della proprietà sono due virtù civiche fondamentali per gli italiani. Oltre nove su dieci ritengono, infatti, che gettare rifiuti nei luoghi pubblici (96,3%) e compiere atti vandalici come forma di protesta (91,6%) siano i modi di agire inaccettabili.

Per circa un quarto degli italiani, invece,  può essere giustificata la dimensione dell’evasione dal lavoro fingendosi ammalati per assentarsi (il 78,3% lo ritiene inaccettabile), come dalle tasse non pagandole o versandone meno del dovuto (il 72,3% lo ritiene inaccettabile).

Denigrare l’avversario politico (53,2%), bloccare i lavori di interesse pubblico (52,0%), farsi raccomandare (51,3%) sono azioni plausibili per oltre la metà degli italiani.

Il senso di “comunità civica” è più diffuso fra le donne, gli over 50, i non attivi sul mercato del lavoro e tra chi ha un basso livello di studio. Viceversa, un maggior grado di “permissività” si riscontra fra i maschi, le giovani generazioni (fino a 34 anni), chi possiede un titolo di studio medio-alto. La dimensione della morale religiosa e dell’interesse verso la politica rappresentano, infine, un sostrato fondamentale per coltivare le virtù civiche.

Con questo post ho concluso il topic.