Autore Topic: Escatologia  (Letto 3083 volte)

Doxa

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Escatologia
« il: Ottobre 05, 2015, 00:20:07 »
Nell'Antico Testamento della Bibbia cristiana ci sono i “Libri sapienziali”:  sono libri didattici o di etica morale. Uno dei libri è denominato  “Qohèlet”, termine ebraico che deriva dal participio presente femminile del verbo “qahal”, che significa “assemblea”, in greco “ekklesia”, da cui il nome proprio in greco-latino “Ecclesiastes” (= colui che parla o partecipa all’assemblea) che in Occidente è diventato sinonimo di Qohèlet” . Questo testo fu  redatto nel 250 a.C. circa. L'autore finge di scrivere sotto dettatura del re Salomone (Qohèlet), vissuto 700 anni prima, perché in quel periodo si era soliti attribuire testi letterari a personaggi storici considerati sapienti.

Il Qohèlet o Ecclesiaste è composto di 12 capitoli con meditazioni sul senso della vita e della morte, dell’amore e del dolore, del bene e del male, ecc..
 
Nel terzo capitolo Qohelet  afferma che…

1 Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
2 C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace. (Qo 3,1-8).


“C’è un tempo per nascere e un tempo per morire”…. Questo versetto scandisce il ritmo della vita e della morte, il susseguirsi delle generazioni e delle stagioni.

“Si passano le stagioni” è il titolo di un’antologia con le poesie del critico letterario Luciano Erba (1922 – 2010), ed è anche  il primo verso di una sua breve poesia, “La piroga”: “Si passano le stagioni / a scavare il tronco di un albero / per preparare la piroga / su cui c’imbarcheremo in autunno.” In questi versi l’autore esprime la sua riflessione malinconica ma non sconsolata sul fine vita.   Chi  ha la fervente fede cristiana immagina la piroga mentre naviga oltre i mari del tempo e dello spazio per condurlo nella “corte celeste”, invece chi non crede nell’esistenza di Dio pensa che la piroga finisca nel baratro del nulla.

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Re:Escatologia
« Risposta #1 il: Ottobre 06, 2015, 00:41:45 »
Riflettere sulla morte degli esseri viventi ci consente di essere consapevoli della fine della propria vita. Ma c’è differenza tra il morire improvvisamente nell’ età giovanile in cui ci si crede immortali e il decedere nella senescenza al termine del decorso progressivo di una malattia.

Si dovrebbe morire nel “momento giusto”, nel “tempo opportuno”, denominato dagli antichi Greci “Kairos”, che è diverso da Kronos, tempo lineare e sequenziale.

Morire nel momento opportuno, giocandolo per esempio a scacchi con la morte, come fece il nobile cavaliere svedese Antonius Block nel film del 1957 “Il settimo sigillo”, diretto dal regista Ingmar Bergman.

Antonius  torna in patria col suo scudiero, Jons,  dopo la decennale crociata in Terra Santa, ma in Svezia  imperversa la peste e la disperazione. La sequenza del film lo fa apparire al suo arrivo su una sassosa battigia. Mentre  rovista nella sua bisaccia gli appare la personificazione della Morte, avvolta da un mantello nero. Tra i due comincia un interessante dialogo.

Antonius Block: Chi sei tu?

Morte: Sono la Morte.

Antonius: Sei venuta a prendermi?

Morte: È già da molto che ti cammino a fianco.

Antonius: Me n'ero accorto.

Morte: Sei pronto?

Antonius: Il mio spirito lo è. Non il mio corpo. Dammi ancora del tempo!

Morte: Tutti lo vorrebbero... Ma non concedo tregua.

Antonius: Tu giochi a scacchi, non è vero?

Morte: Come lo sai?

Antonius: Lo so. L'ho visto nei quadri. Lo dicono le leggende.

Morte: Sì, anche questo è vero, come è vero che non ho mai perduto un gioco.

Antonius: Forse anche la Morte può commettere un errore.

Morte: Per quale ragione vuoi sfidarmi?

Antonius: Te lo dirò se accetti.

Morte: Avanti, allora.


La Morte che gioca a scacchi. L'affresco di Albertus Pictor a Täby kyrkby  ha ispirato il regista Ingmar Bergman. Täby è una città della Svezia centrale, situata nella contea di Stoccolma.

Antonius e la Morte si siedono davanti la scacchiera e si studiano in silenzio.


La partita a scacchi tra Antonius e la Morte.

Antonius riprende il discorso e dice alla Morte: "Perché voglio sapere fino a che punto saprò resisterti, e se dando scacco alla Morte, avrò salva la vita". Prende dalla scacchiera due pedoni, uno bianco ed uno nero, e sorteggia le parti. Ti tocca il nero dice alla Morte.

Morte: Si addice alla Morte, non credi?

Sistemati i pezzi sulla scacchiera, comincia il gioco, che in modo saltuario si protrae per più giorni, utilizzati da Antonius per tornare verso il suo castello, dove l’attende la fedele moglie. Durante il tragitto lui e il suo scudiero incontrano molte persone che per paura della morte per peste si sottopongono a violente pratiche per espiare i peccati, altri inseguono gli ultimi piaceri prima della fine.

In una chiesa Antonius si confida con un monaco, che in realtà è la Morte. I due sono divisi da una spessa grata in ferro che evoca l’immagine di una prigione.


[…] “Vorrei confessarmi  –dice Antonius- ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e trovo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini di incubo, nate dai miei sogni e dalle mie fantasie”.

La Morte gli domanda: "Non credi che sarebbe meglio morire ?"

Antonius: E’ vero !

Morte: Perché non smetti di lottare?

Antonius: E’ l’ignoto che m’atterrisce.

Morte: Il terrore è figlio del buio.

Antonius: Sì, è impossibile sapere…, ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde dietro mille e mille promesse e preghiere sussurrate ed incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me e sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto Egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? Mi ascolti?

Morte: Certo.

Antonius: Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza, voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto, e voglio che mi parli.

Morte: Il Suo silenzio non ti parla?

Antonius: Lo chiamo e Lo invoco e se Egli non risponde io penso che non esista.

Morte: Forse è così, forse non esiste.

Antonius: Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine? Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno, come cadendo nel nulla, senza speranza!

Morte: Molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose.

Antonius: Ma verrà il giorno in cui si troveranno all’estremo limite della vita.

Morte: Sì, sull’orlo dell’abisso…

Antonius: Lo so, lo so ciò che dovrebbero fare. Dovrebbero intagliare nella loro paura un’immagine, alla quale poi dare il nome di Dio.

Morte: Perché non la smetti di fare tante domande?

Antonius: No, non la smetterò.

Morte: Tanto nessuno ti risponde.

Mio commento: Come uomo del medioevo Antonius è culturalmente stravolto dalla religione cristiana. Non riesce ad immaginare che la vita non ha bisogno di Dio per avere senso.  Il significato alla propria vita lo si dà,  in particolare, con la progettualità, con l’amore. Comunque sono tanti gli individui che hanno bisogno di credere in un dio onnipotente ed onnisciente,  al quale chiedere protezione. La fede li aiuta a salvarsi dalla disperazione. Antonius stesso dice che "la fede è una pena così dolorosa: è come amare qualcuno che è lì fuori e che non si mostra mai per quanto lo si invochi".

La fede che vince la paura della morte è anche il messaggio del film e dell’Apocalisse dell’apostolo Giovanni, da cui “Il settimo sigillo”.
 
Torno al film.

Antonius Block, incalzato dalla Morte e dagli eventi, fa in modo per perdere la partita a scacchi. Con un movimento del braccio Antonius colpisce intenzionalmente la scacchiera facendo cadere alcuni pezzi, che la Morte rimette su ma in modo tale da poter vincere. 
Antonius, chiede scusa per l’accaduto e dice:  “Scusa. Questo mantello è così ingombrante”.

Morte: Non preoccuparti. Ricordo benissimo dove stavamo, […] ti devo dare una notizia interessante.

Antonius: E cioè?

Morte: Che ho vinto! Ti do scacco matto.

Antonius: È vero !

Morte: Ti è stato d`aiuto questo rinvio?

Antonius: Ah, sì, certo.

Morte: Ne sono lieto. E adesso ti lascio. Quando ci rincontreremo sarà giunta l`ultima ora. Per te e i tuoi compagni di viaggio.

Antonius: E tu ci svelerai i tuoi segreti?

Morte: Io non ho alcun segreto da svelare.

Antonius: Allora non sai niente?

Morte: Non mi serve sapere.
« Ultima modifica: Ottobre 06, 2015, 07:24:59 da dottorstranamore »

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Re:Escatologia
« Risposta #2 il: Ottobre 07, 2015, 05:46:15 »
Nell’epistola 65 delle “Lettere a Lucilio” il filosofo e politico Seneca pone un interrogativo: “Quid est mors ?” (che cos’è la morte ?) e dà la risposta: “Aut finis, aut transitus”: o fine della vita e dissoluzione del corpo o passaggio  verso qualcos’altro. Sono due concezioni contrapposte:  per quella materialistica  la morte è finis, per quella spiritualistica la morte è transitus, ma verso dove ?
Per avere “risposte” molte persone si rivolgono alla teologia ed alla filosofia,  pensano alla “fine dei tempi”: questa  frase viene escatologicamente usata da alcune religioni e miti  per indicare la distruzione della Terra, della biosfera e della specie umana.

Nella religione ebraica il "tempo della fine"  è denominato “fine dei giorni” (aharit ha-yamim), la frase appare più volte nella Tanakh, acronimo con cui si designano i testi biblici.
L'Ebraismo insegna che quando si muore, l'anima lascia il corpo e raggiunge tutte le altre anime che riposano nello Sheol (il soggiorno dei morti, o Ades). Ci sarà la risurrezione degli esseri umani dopo il giudizio finale da parte di Dio.

Anche la religione cristiana offre la compassionevole menzogna  di credere che dopo la morte ci sia la risurrezione e che l’anima del defunto, unita al corpo alla “fine dei tempi”, trascorrerà l'eternità in continua contemplazione di Dio in paradiso. Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche riconosce al cristianesimo di avere realizzato un “colpo di genio”, trasformando una sconfitta, la morte di Gesù,  in un trionfo.

Però nel  cristianesimo ci sono delle distinzioni.

L’ortodossia orientale non menziona la fine del mondo ma la fine dell’empia società umana. Gesù paragonò quel momento che verrà ai giorni del Diluvio Universale: “e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo”. (dal vangelo di Matteo, 24, 39) La frase è interpretabile come fine dell’umanità e non del pianeta Terra.

Invece le credenze cattoliche sul “tempo della fine”  vengono espresse nella  “professione di fede”, il “Credo”.

Pure la religione islamica (basata parzialmente sull’ebraismo) afferma l’esistenza dell’anima individuale e che un giorno ci sarà il “giudizio finale”, detto “ultimo giorno”, che conosce soltanto Allah. L’Islam insegna che chi non crede in Allah è destinato all’Inferno, chi invece è stato giusto potrà contemplare Allah.
 
Per gli atei l'uomo appartiene alla razza animale e come tale non ha un’anima che sopravvive al corpo dopo la sua morte. Essi credono che la morte sia la fine totale e irrimediabile della vita.

Il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889 – 1976)  nel suo libro “Essere e tempo” dice che la morte è “un’imminenza che sovrasta” ogni individuo, è l’orizzonte della vita. Questa consapevolezza a volte dà malinconia oppure angoscia. Ma chi ha fede in Cristo crede che dopo la morte ci sia la resurrezione,  il "reditus ad Deum" (ritorno a Dio).
Morire in Dio diventa offerta di sé.  Questo evento lo esprime con efficacia il poeta toscano  Renzo Barsacchi ne “Le notti di Nicodemo”:

“Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d'ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze”.

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Re:Escatologia
« Risposta #3 il: Ottobre 08, 2015, 00:21:59 »
Fra circa un mese, il 2 novembre, è il cosiddetto “giorno dei morti” e  la Chiesa cattolica commemora tutti i fedeli defunti (in latino: “Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum)”. La scelta di questo giorno si deve ad Odilone, abate di Cluny, il quale nel 998  ordinò  la commemorazione dei defunti  in tutti i conventi cluniacensi dopo i vespri di “Ognissanti” . Nel giorno successivo venne celebrata la Messa  “pro requie omnium defunctorum”. Questo rito commemorativo venne gradualmente  diffuso in tutta Europa. 

Ma il 2 novembre la liturgia della Chiesa cattolica evoca la risurrezione e non la morte. “Tuis enim fidelibus, Domine, vita mutatur, non tollitur” (= Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata): questa locuzione in lingua latina è nel primo prefazio del rito cattolico della Messa dei defunti. La proposizione  evoca il significato cristiano della morte, che la considera non come la fine dell'esistenza ma come continuazione verso ciò che si è atteso e desiderato: stare al cospetto di Dio.

Molta parte dell’umanità non si rassegna a credere che dopo la morte ci sia  il nulla, teme l’ignoto.  E allora c’è il rifiuto della morte,  perché non possiamo accettare che tutto ciò che di positivo è stato realizzato durante la propria esistenza  venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Chi crede in Cristo e nella Sua risurrezione pensa che la strada della morte è una via della speranza verso l’eternità.  Invece chi non crede nell’aldilà pensa che non ha molta importanza quanto si viva ma come si viva.

Il filosofo stoico e politico Seneca (4 a.C. – 65) nel “De brevitate vitae”  sostiene che gli individui sbagliano a lamentarsi per la brevità del tempo assegnato loro dalla natura. Debbono capire che molto del loro tempo lo sprecano: “Exigua pars est vitae, qua vivimus. Ceterum quidem omne spatium non vita, sed tempus est” ( “Il tratto di vita in cui viviamo è minimo. Infatti tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo”).

Nella “Consolatio ad Marciam”  (la prima delle tre consolationes scritte da Seneca a Marcia,  figlia di Cremuzio Cordo, storico nel tempo dell’imperatore Tiberio),  il filosofo  per consolarla della morte del figlio, avvenuta tre anni prima, le dice che la morte è inevitabile e che tutto sommato è un distacco benefico dagli affanni della vita. “…chi è morto non è afflitto da alcun male e le notizie che propagano alcuni scrittori sul terrore degli inferi sono chiacchiere: nessuna tenebra sta addosso ai morti, non ci sono né carcere né fiumi brucianti di fuoco né il fiume Oblio né tribunali né accusati né in quella libertà tanto ampia alcun nuovo troveranno…”

Per esempio non troveranno il Purgatorio, che non è un luogo fisico ma una condizione spirituale. Le “anime purganti” dei credenti cristiani che prima di morire non si sono pentiti o non hanno espiato le colpe passate, non possono raggiungere la visione beatifica. Si può loro abbreviare il tempo di sosta nel Purgatorio con le preghiere e soprattutto  con le offerte e le donazioni da parte dei viventi. Eh si ! Oltre l’aspetto “sacro” c’è quello “profano”… e dolciario: infatti per il  2 novembre in molte località italiane c'è l'usanza di preparare alcuni dolciumi,  detti “dolci dei morti”, oppure “ossa di morto”.
 
Ed è ancora diffusa la tradizione ispirata dalla religione cristiana di recarsi al cimitero nel “giorno dei morti” per portare fiori e lumini sulle tombe delle persone amate.

Ma “All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?

[…]Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l'obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
e l'estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo”.
[…]
(da “I sepolcri”, di Ugo Foscolo)

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Re:Escatologia
« Risposta #4 il: Ottobre 09, 2015, 01:11:36 »
Nel mese di agosto del 1913 Sigmund Freud trascorse parte delle vacanze estive a San Martino di Castrozza, nel Trentino, che faceva ancora parte dell’impero austro-ungarico.
In quell’occasione ebbe modo di passeggiare con due amici, lo scrittore e poeta austriaco di origine boema Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) e la scrittrice e psicoanalista tedesca di origine russa Lou von Salomé, nota anche come Lou Andreas Salomé (1861 – 1937). 

Durante la passeggiata l’amico, che egli definisce “il poeta” (Rilke),  “ammirava la bellezza della natura intorno a noi, ma senza gioirne. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza fosse destinata a svanire, che d’inverno sarebbe scomparsa, proprio come ogni bellezza umana e tutte le belle e nobili cose che gli uomini hanno creato o potrebbero creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato”.

Freud contestò al poeta pessimista che la caducità del bello implichi il suo svilimento, dicendogli che: “il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta“.

Ancora Freud: “Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione dell’opera d’arte o della creazione intellettuale dovessero essere svilite dalla loro limitazione temporale”.

Comunque l’opinione di Freud lasciò indifferenti i due amici. Secondo lui  “Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello. L'idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l'animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l'interferenza perturbatrice del pensiero della caducità”.

Freud racconta queste sue riflessioni in un articolo iniziato nel 1913, ma interrotto,  poi cominciò la prima guerra mondiale nel 1914 con le devastazioni. Rielaborò il testo  nel 1915 e lo pubblicò col titolo  “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. Caducità

La guerra con il disinganno, mette in discussione tutto, a cominciare dall'immagine della morte. Mette in gioco l'essere stesso dell'uomo, il suo rapporto con la negazione di sé. Ci costringe a essere eroi, ma ci rende incapaci di credere alla nostra morte. Meglio dunque adattarsi alla morte, accettarla e non respingerla.

« Ultima modifica: Ottobre 09, 2015, 14:22:21 da dottorstranamore »

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Re:Escatologia
« Risposta #5 il: Ottobre 10, 2015, 00:36:09 »
Determinati  rinvenimenti archeologici  evidenziano che già  nel paleolitico  c’era il culto dei morti e le prime forme  di religiosità collegate alla sepoltura, di solito nelle grotte. I cadaveri venivano inumati  assieme a cibi, utensili, armi e ornamenti che dovevano accompagnarli nell’aldilà.
La polvere di ocra rossa caratterizzava la spiritualità ed il simbolismo funerario. Veniva posata accanto al cadavere o su alcune parti della salma, forse perché simboleggia il sangue, considerato forza vitale. Usavano l’ocra anche per disegnare o dipingere simboli sul luogo della sepoltura oppure praticavano le incisioni rupestri, come quelle in Valcamonica.
I luoghi di culto solitamente coincidevano con le stesse caverne, come attestato dai numerosi dipinti e dalle incisioni scoperte sulle pareti. Le grotte di Altamira nella Spagna settentrionale, quelle di Lescaux nella Francia meridionale e le caverne dei Balzi Rossi e di Grimaldi, al confine tra la Francia e l'Italia, nei pressi di Ventimiglia, vi sono importanti esempi di arte preistorica.

Gli storici dividono il Paleolitico in tre periodi: 

Paleolitico inferiore: da 2,5 milioni di anni fa al 75 000 a.C., caratterizzato dalla comparsa dell’
Homo habilis e dell’Homo erectus.

Paleolitico medio: 75 000 - 40 000 a.C., in cui comparve l’Homo sapiens neanderthalensis o  uomo di Neandertal.
 
Paleolitico superiore: 40 000 - 10 000 a.C., in cui si diffuse l’Homo sapiens sapiens.

Alla fine di questo periodo apparvero le prime forme di agricoltura e l'addomesticamento di alcuni animali favorì lo sviluppo dell'allevamento. Inoltre si diffuse maggiormente il culto dei defunti e degli antenati, di cui si cercava la protezione e con i quali si tentava di entrare in contatto con pratiche di tipo magico-religioso. La eco di quel lontano passato risuona nella mitologia greca, dove c’è Thanatos: personifica la morte ed è rappresentato come un uomo barbuto ed alato, con una lucerna spenta e rovesciata. Gli antichi Romani lo chiamavano Mors. Suo fratello gemello era Hypnos (il Sonno).

Il poeta e scrittore  Esiodo nella sua “Teogonia” dice che Thanatos  fu concepito dalla “Notte” (Nyx) dopo l’amplesso con suo fratello Erebo, personificazione delle tenebre. 

Dal suo nome deriva la “tanatofobia” (la paura della morte), e le parole “tanatoestetica” e “tanatoprassi”,  che riguardano gli addetti delle agenzie funebri, perché le  esequie necessitano di competenza professionale. Ci sono scuole che insegnano come diventare “maestro di cerimonia funebre.
Non basta. All’università statale di Torino c’è l’insegnamento di “Tanatologia storica” presso la facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea in “comunicazione interculturale”.  La docente, Marina Sozzi, è esperta in problemi inerenti la morte ed il morire, i riti funebri ed il lutto nella società contemporanea.   

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Re:Escatologia
« Risposta #6 il: Ottobre 14, 2015, 09:19:53 »
“Laudato si', mi' Signore,
per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po' scampare:
guai a quelli che morrano
ne le peccata mortali;
beati quelli che trovarà
ne le Tue sanctissime voluntati,
ca la morte secunda no li farà male”.

Così pregava San Francesco d’Assisi nel "Cantico delle Creature".

“sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po' scampare”, perché la morte è un evento biologico connaturato col vivere, ma la pensiamo come un'entità esterna al vivente, un fenomeno estraneo.

Nell’antica Grecia e nella Magna Grecia la filosofia eleatica ed eraclitea cercarono di dare una spiegazione metafisica della morte  e del divenire, inteso come mutamento, perenne nascere e morire. Il riflesso di quelle teorie a me sembra che  si possa vedere nella rappresentazione del “tuffatore”, a Paestum, antica città chiamata dai coloni Greci “Poseidonia” in onore di Poseidone (Nettuno nella religione romana) il dio del mare e dei terremoti nella mitologia greca.


“tuffatore di Paestum” (480 – 470 a.C..)

Questa immagine è dipinta su una delle lastre che costituiscono la cosiddetta “tomba del tuffatore”,  sepoltura a cassa, formata con cinque lastre di travertino, , quattro ai lati ed una di copertura, tutte intonacate ed affrescate. Sulla lastra di copertura è raffigurato un uomo nudo che si lancia da un trampolino verso l’acqua. Secondo Mario Napoli, archeologo scopritore della tomba, il tuffo rappresenterebbe il passaggio simbolico dalla vita alla morte, l’inizio del viaggio verso l’aldilà, nell’Ade. La scena è racchiusa da una linea di cornice nera con volute e palmette ai quattro angoli; ci sono  due arbusti o piccoli alberi senza foglie, sul lato destro un alto trampolino dal quale si è lanciato il tuffatore, che appare sospeso nell’aria mentre cala verso lo specchio d’acqua sottostante.

"Panta rei os potamòs": = "Tutto scorre come un fiume" afferma il noto aforisma attribuito ad Eraclito, filosofo del divenire, del continuo cambiamento della natura.

Allora cosa fare ? Il poeta latino Orazio  ci consiglia il “carpe diem”, = “cogli il giorno”, locuzione tratta dalle “Odi” (1, 11, 8, che di solito viene citata in questa forma abbreviata, anche se sarebbe opportuno completarla con il seguito del verso oraziano: "quam minimum credula postero" ("confidando il meno possibile nel domani").

La “filosofia” oraziana del carpe diem si fonda sulla considerazione che non possiamo conoscere il nostro futuro né determinarlo, possiamo soltanto intervenire sul presente perciò è importante gestire bene la propria vita, cogliendo le occasioni, le opportunità, perché, dice questo poeta nel verso precedente,  "Dum loquimur, fugerit invida aetas" ("Mentre parliamo, sarà fuggito avido il tempo"). Nel binomio ci sono due concetti,  la qualità (carpe) e la temporalità (diem) del vivere.


« Ultima modifica: Ottobre 14, 2015, 09:27:59 da dottorstranamore »

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Re:Escatologia
« Risposta #7 il: Ottobre 15, 2015, 11:12:43 »
"Memento mori": letteralmente significa “Ricordati che devi morire”, questa locuzione viene ancora usata  come motto dall’ordine religioso dei monaci  “cistercensi della stretta osservanza”,  detti “monaci trappisti”, dal  nome dell’abbazia francese  di Notre-Dame de la Trappe,  fondata a Soligny-la-Trappe nel 1140.

La frase  “memento mori” ha una lontana origine, deriva da alcune parole  dette da Dio ad Adamo: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; / finché tornerai alla terra, /perché da essa sei stato tratto:/ polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gn 3, 19).  Quest’ultima frase fu desunta dalla Chiesa per elaborare la seguente proposizione: “Ricòrdati, Uomo, che sei polvere, e in polvere ritornerai.”(Meménto, homo, quia pulvis es, et in púlverem revertéris)”,  che viene citata dal sacerdote il “Mercoledì delle ceneri”, il primo giorno della Quaresima,  periodo liturgico penitenziale che serve per la preparazione spirituale alla Pasqua cristiana, alla resurrezione di Gesù.

“Durante la Messa il sacerdote dopo la lettura del Vangelo e l’omelìa prende l’aspersorio dal secchiello e benedice le ceneri: “Benedici queste ceneri che stiamo per imporre sul capo, riconoscendo che il nostro corpo tornerà in polvere”.

Poi i  fedeli vanno dal celebrante per ricevere la cenere  sul capo o sulla fronte. Ad ognuno il sacerdote dice: “Ricòrdati, Uomo, che sei polvere, e in polvere ritornerai.”.

Il rito delle ceneri serve per ricordare il comune destino mortale; la  cenere simboleggia la temporaneità della vita umana. Una frase con simile significato veniva usata nell’antica Roma, quando un condottiero rientrava nell’urbe dopo la vittoria in una guerra considerata molto importante e gli veniva tributato l’onore del “trionfo” con una cerimonia solenne.

Il triumphator, il trionfatore indossava gli abiti previsti per la cerimonia e portava le insegne di “Iupiter Optimo Maximus: tunica palmata (ornata ai bordi con ricami di foglie di palma), sopra metteva la “toga picta” (di colore viola ed ornata con ricami d’oro), scarpe dorate, scettro, ramo  di alloro e la corona triumphalis, fatta con  l’alloro. Saliva su una biga o una quadriga  trainata da cavalli bianchi e tra ali di folla festante andava sul colle capitolino per deporre nel tempio di Giove Feretrio le “spolia optima”, il bottino: l'armatura, le armi ed altri oggetti  che il generale romano aveva tratto come trofeo dal corpo del comandante nemico ucciso o fatto prigioniero.   

Il corteo trionfale iniziava con i senatori ed i magistrati in toga accompagnati da squilli di tromba; seguivano gli animali sacrificali, i tori bianchi.
La parte centrale del corteo era occupata dal gruppo del trionfatore, con littori dai mantelli rossi da guerra e fasci avvolti d’alloro, flautisti e citaredi e per ultimo, la biga o la quadriga del trionfatore.

La sfilata cominciava dal Circo Flaminio,  passava tra il Teatro di Marcello e i Templi di Apollo Sosiano e di Bellona, percorreva la zona tra il Campidoglio e il Foro Olitorio, usciva dal pomerium della Porta Triumphalis ubicata presso l’area sacra di S.Omobono e del forum boarium.  Passava nel Circo Massimo e quindi si dirigeva verso il Palatino lungo la Via Sacra fino a giungere al Tempio di Giove Feretrio.  Qui deponeva  anche la corona di alloro e lo scettro, immolava le vittime sacrificali (i tori bianchi) e la festa finiva con un banchetto per i magistrati ed i senatori. Il cerimoniale prevedeva che nel riconsegnare la corona il generale esclamasse la solenne frase "Onorem et Gloria", mentre lo schiavo, il “servus publicus” presente sulla biga a fianco del trionfatore e che per tutto il tragitto teneva sollevato sul capo del militare la corona aurea, sussurrava all'orecchio di questi la frase "Memora tu est semper homus" ossia "Ricordati, sei sempre un uomo". Oppure “Respice post te. Hominem te memento” (= Guarda dietro a te. Ricordati che sei un uomo”) per fargli presente l’importanza dell’umiltà e non della superbia.

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Re:Escatologia
« Risposta #8 il: Ottobre 16, 2015, 08:38:35 »
“ll vero scandalo non è la morte, ma ritrovarsi morti - senza neppure saperlo - quando si è ancora in vita. L’imperdonabile scandalo è vagare per il mondo privi di slancio, desiderio, curiosità. Soprattutto privi di qualunque pensiero e immaginazione”. Lo afferma il giornalista Eugenio Scalfari nel suo nuovo libro titolato “L’allegria, il pianto, la vita”.

Infatti molte persone si precludono  delle possibilità, le scelte, a volte per evitare l’ansia. Ma anche l’inconscio condiziona molte delle nostre azioni, pensieri  e decisioni.

Sigmund Freud  nel suo libro  ”Interpretazione dei Sogni”,  argomenta pure sui sogni di morte e dice che “Il nostro inconscio non crede alla possibilità della propria morte e si considera immortale”. La negazione è un importante meccanismo di difesa del nostro Io che, disturbato dalla consapevolezza di una determinata realtà, cerca inconsciamente di dimenticarla e di bloccare così la tensione emotiva (in modo particolare l’angoscia) che ne deriverebbe. Come spesso capita ai malati terminali che rifiutano di pensare di essere alla fine della propria vita e a volte reagiscono con comportamenti incomprensibili. L’intimo e struggente incontro tra sofferenza e certezze che crollano può motivare il non credente alla conversione religiosa, ad aggrapparsi a qualcosa di sfuggente ma che consola e dà coraggio.
 
Ogni malato ha un suo modo di reagire di fronte alla morte: vari sono i bisogni, le emozioni, i meccanismi di difesa, che il morente si trova a vivere; varie e personalizzate sono anche le sue reazioni psicologiche. Molto dipende anche dall’appoggio relazionale che riceve, dall’aiuto psicologico. 

È la paura dell’ignoto, a volte è l’angoscia che coinvolge emozionalmente il malato che sta morendo.



Nell’'iconografia occidentale del passato la morte veniva simboleggiata dalla clessidra e da un vecchio, oppure come scheletro con una spada che galoppa sopra un cavallo, od anche con arco e frecce e colpisce casualmente tra la popolazione senza fare distinzioni di classe o razza, come avviene nelle epidemie.  Nel XV secolo cominciò l’iconografia della morte rappresentata come uno scheletro, che indossa un saio o un mantello nero (allusione alla “peste nera”) ed impugna la falce per la fienagione ma gli serve per togliere la vita alle persone. 

Nella mitologia Greca la personificazione della morte era “Thanatos”, chiamato Mors od Orco dagli antichi Romani. Ma erano le tre Moire che personificano il destino ineluttabile degli individui. La loro mansione era quella di tessere il filo del fato di ogni persona, svolgerlo ed infine reciderlo per segnarne la morte. Queste figure furono assimilate dalla mitologia romana e denominate “Parche”: una filava il filo della vita, un’altra dispensava i destini, assegnandone uno a ogni individuo stabilendone anche la durata, e la terza, l'inesorabile, tagliava il filo della vita al momento stabilito. Le loro decisioni erano immutabili, neppure gli dèi potevano cambiarle. Venivano chiamate anche Fatae, ovvero coloro che presiedono al Fato, dal latino Fatum (="destino").

Nelle religioni abramitiche è presente la figura dell’Angelo della Morte, che, a seconda delle culture, ha il compito di presiedere alla morte ed accompagnare le anime dei defunti. L’Angelo della morte è citato nel biblico Libro dell’Esodo. Nel Corano è denominato “Azrael”; nella teologia cristiana l’angelo della morte è l’arcangelo Michele che conduce le anime verso la luce divina;  nelle scritture rabbiniche sono nominati diversi angeli della morte.

Nel Nuovo Testamento ci sono  i “Cavalieri dell'Apocalisse” sono quattro figure simboliche descritte nell’Apocalisse dell’apostolo Giovanni [6, 1 – 8]. I nomi dei cavalieri non sono menzionati  ma l’ultimo cavaliere è denominato Morte.
« Ultima modifica: Ottobre 16, 2015, 08:43:09 da dottorstranamore »

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Re:Escatologia
« Risposta #9 il: Ottobre 18, 2015, 00:33:31 »
Nella mitologia greca “Thanatos” è la personificazione maschile della morte, assimilabile nella mitologia romana a Mors, divinità femminile, oppure a Letus / Letum, nome che  in origine definiva l’evento del decesso ma successivamente fu considerato personificazione di una divinità della morte. A volte Letus veniva erroneamente  identificato con Orcus (equivalente al greco Horkos), il dio degli Inferi. L’origine di tale divinità è forse etrusca, perché Orco è idealmente rappresentato  in alcuni affreschi nelle tombe etrusche nelle sembianze di  un gigante peloso e barbuto.

Dall'associazione con la morte e con gli Inferi, il termine orcus cominciò ad essere usato anche per altre creature mostruose e ripreso dai bestiari medievali.

Nel nostro tempo ancora viene citato l'orco per intimorire i bambini irrequieti. Lo si immagina antropomorfo, con connotazioni bestiali, spesso demoniache.
 
Gli antichi romani credevano nella presenza di divinità nell'aldilà  ed erano certi che il defunto continuasse a vivere all' interno della tomba ma in modo incorporeo. Essi erano convinti dell’esistenza dell’anima, che sopravvive al corpo dopo la morte e discende nell’Ade. Le anime liberate dal corpo si tramutavano in essenze divine, i Manes, per i quali si effettuavano anche cerimonie pubbliche con offerte e sacrifici.  Ci sono pareri discordi sulle funzioni dei Mani. Per alcuni studiosi  erano divinità dell’oltretomba, altri li considerano anime dei morti, per alcuni entità buone, per altri  malvage.

In epoca romana (ed anche oggi) il servizio funebre aveva vari costi. Se l’estinto  era povero la salma  veniva portata alla sepoltura dai vespillones, addetti al trasporto funebre, se invece il defunto era di origine nobile o patrizia, il rito funebre veniva affidato ai libitinarii, cosiddetti dal nome di Venere Libitina, divinità arcaica incaricata di badare ai doveri ed ai riti che tributavano ai morti, perciò presiedeva ai funerali.
 
I libitinarii erano professionisti delle onoranze funebri, che venivano svolte con solennità. Fra loro c’era il pollinctor, che cospargeva di unguenti  e profumi la salma, poi  vestita con la "toga praetexta" se il defunto era un senatore, altrimenti con una "toga candida". Al funerale partecipavano i tibicines (suonatori di flauto), i cornicines (suonatori di corno) e le prefiche, donne pagate per intonare le nenie funebri. Il rito comprendeva anche la “laudatio funebris”, l`orazione in onore del defunto. Infine si inumava o si cremava la salma. 

Dopo il funerale e la sepoltura seguivano i riti di purificazione ed un banchetto “gastronomico”, il “refrigerium” vicino la tomba. I parenti del defunto di solito mangiavano il “farrèum” (focaccia di farro), la “lenticula” (lenticchie cotte e condite), l’ “epityrum” (olive condite), “ova” (uova sode condite), “placenta” (dolci con formaggio e miele) e “mulsum” (vino speziato).

Nove giorni dopo la sepoltura i parenti del defunto organizzavano la  “coena novendialis”, durante la quale sulla tomba venivano versati vino od altre bevande.

I “refrigeria” si ripetevano anche nell’anniversario della morte e nel periodo della rievocazione dei defunti,  i “Parentalia”, che si celebravano ogni anno dal 18 al 21 febbraio.  L'ultimo giorno era dedicato ai Feràlia: la famiglia si recava a pregare presso le tombe dei propri cari e mangiavano del cibo, per dare la loro vicinanza simbolica al defunto.
 
Un’altra ricorrenza connessa con il culto dei morti avveniva nel mese di maggio ed era denominata “Lemuralia” o “Lemuria”. Festeggiavano gli spiriti dei defunti, i “lemures”, sia buoni sia malvagi. Successivamente i Lemures vennero considerati solo come spiriti malvagi che perseguitavano i viventi. Ovidio nei “Fasti” narra che i Lemuri  venivano anche denominati “Manes”.  Per esorcizzarli dalla casa il pater familias si metteva al centro di una stanza e per nove volte lanciava dietro di sé una manciata di fagioli neri o fave, senza voltarsi indietro, dicendo ogni volta la jacula (= giaculatoria) propiziatoria:  “Manes exite paterni” (uscite  spiriti degli antenati). Inoltre, batteva su recipienti metallici  per allontanare gli spiriti che in tale occasione erano tornati tra i vivi.

In quel tempo si credeva che i lemuri ("spiriti della notte", detti anche larva[e], termine equivalente a fantasma) vagassero senza posa per le strade come anime in pena.
« Ultima modifica: Ottobre 18, 2015, 00:39:20 da dottorstranamore »

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Re:Escatologia
« Risposta #10 il: Ottobre 19, 2015, 00:03:38 »
Rivelami, Signore, la mia fine;

quale sia la misura dei miei giorni

e saprò quanto è breve la mia vita.

Vedi, In pochi palmi hai misurato i miei giorni,

e la mia durata davanti a te è un nulla.

Solo un soffio è ogni uomo che vive,

come un'ombra è l'uomo che passa;

solo un soffio che si agita,

accumula le ricchezze e non  sa chi le raccolga”.

(Salmo 39, 5 – 7)

Questi versi mi rimandano con la memoria al post che scrisse la nostra amministratrice, “Presenza”:  “Quando si parla di lei, anzi quando non si parla di lei generalmente la paura ha preso il sopravvento. Il cuore batte all'impazzata, l'angoscia stringe la gola e si vorrebbe solo non vederla mai. Magari non si vede, ma sapere che esiste e trovarsela davanti quando chi amiamo sta per lasciarci, o anche noi stiamo per lasciare quella vita che abbiamo vissuto e forse vorremmo vivere ancora o forse no, ecco quello è il momento della paura. Se ripenso al volto di chi sta per morire e a quell'ultimo respiro violento che si porta via la vita, e se ripenso a come inaccettabile è per l'occhio umano vedere un corpo senza vita al punto che ci si aspetta da un momento all'altro che quello possa muovere una mano, o magari voltare la testa o aprire gli occhi, comprendo come siamo tanto attaccati alla vita. E magari sono parole al vento quando in piena vita riusciamo a dire che tutto scorre, lasciare andare è l'atteggiamento giusto di fronte alla perdita, alla fine. In verità non siamo niente, nessuno di noi lo è ed io per prima che sto qui a scrivere mentre la morte fa parte della vita e la vita fa parte della morte.
Perché si ha paura della morte? Forse perché è la fine della vita, forse perché è indissolubilmente legata al dolore della perdita, forse perché siamo attaccati come le patelle allo scoglio e detestiamo in cuor nostro dover lasciare tutto, tutto quello che abbiamo accumulato perché è troppo bello averlo? Eppure la vita ci regala così tanto tempo che quando abbiamo tempo di vivere non ci ricordiamo del tempo che scorre e quando siamo di fronte alla fine vorremmo accumularne ancora.
Mi guardo allo specchio la mattina, e perché no il pomeriggio o la sera prima di andare a letto e scopro sempre me stessa, così come sono. Ciò che cambia è quell'involucro al quale ci attacchiamo, il nostro corpo, e quando invecchia e diventiamo relitti è lì che ci accorgiamo di quanto il tempo passa.
Le cose, sì, tutto quello che abbiamo, facciamo, crediamo e lasciamo rimane, e non ci portiamo appresso niente, non ha senso, non potrebbe avere senso. Ed ecco che mentre stiamo lì in fondo ad un letto, magari con la malattia da compagna e con la morte vicina, è chi resta ad attaccarsi a quelle nostre cose. E quelle cose sono la storia di ognuno di noi. E chi ama quella storia non può disfarsene insieme con il corpo e così chiede alla vita di lasciare almeno quelle. La morte ci guarda da vicino e dice: “abbi cura di quelle cose, così come io avrò cura di lui, di questo corpo che hai amato”.
Amo la morte perché dà pace, e la vita perché dà la gioia. E amo entrambe perché si assomigliano, perché ci ricordano ogni istante che ogni cosa è un dono, perché ci ricordano che nulla è attaccamento, e nella libertà di essere troviamo, tutti, il niente.
Adesso è spuntato il sole, svegliati uomo, dice col suo calore e la sua luce, ogni momento è quello giusto. Nulla si ferma, nemmeno un corpo senza vita, nemmeno una vita senza corpo. Tutto cambia.
E allora, morte mia, compagna dei giorni senza giorno, comprendo adesso cosa vuol dire “vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo”, e mai come adesso vivo così.
Oh morte mia, nei tuoi occhi i miei occhi si perdono e lasciarsi andare è quanto di più dolce possa accadere. Sei quella pioggia sottile che si posa sulle cose, sei quel venticello leggero che soffia alla mattina e quel raggio di sole dopo una settimana di nuvole. Sei nella vita e della vita sei ogni cosa, in quella inevitabile fine che rende ogni cosa eterna
”.

Anche se non pensiamo alla morte lei è dentro di noi, fin dal concepimento. 

Il mistico e filosofo indiano Rajneesh Chandra Mohan Jain (1931 – 1990),conosciuto in letteratura con lo pseudonimo “Osho”, scrisse che
“Vita e morte non sono due estremi lontani l'uno dall'altro. Sono come due gambe che camminano insieme, ed entrambe ti appartengono. In questo stesso istante stai vivendo e morendo allo stesso tempo. Qualcosa in te muore a ogni istante…”   Ma nell’infinito non ha importanza la durata della vita.

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Re:Escatologia
« Risposta #11 il: Ottobre 20, 2015, 00:19:44 »
In questo topic i precedenti post li considero lo zibaldone introduttivo agli argomenti che m’interessano: il fine vita, il testamento biologico e l’eutanasia: temi  questi che in Italia suscitano lo scontro ideologico tra laici e cattolici.
 
E’ frequente la disputa tra “sacralità della vita” e “qualità della vita”, questa alternativa può indurre a pensare che solo le persone con una fede religiosa possano difendere la vita come bene primario e dunque indisponibile, mentre chi non è religioso deve per forza, se usa la ragione, propendere per la qualità della vita, invece le due cose non si escludono.

Tutti concordano che la vita umana è un bene primario che la società e gli individui devono difendere e tutelare,  ma ci sono casi (come la malattia allo stadio terminale o lo stato vegetativo persistente) in cui la vita perde  valore e la qualità della vita è inaccettabile, nonostante il progresso biomedico e biotecnologico  che concede di prolungare “il fine vita”. Ci sono macchinari che permettono al malato terminale di mantenere le funzioni vitali in modo artificiale, ma ci sono individui che non vogliono essere tenuti in vita in tal modo.
 
Nel passato le decisioni sulle terapie da intraprendere erano prese del medico che sceglieva ciò che riteneva necessario per il malato. Oggi invece è cambiato  il rapporto medico-paziente: il malato viene coinvolto in tutti gli aspetti che riguardano la sua malattia e le possibili cure, perché è lui che ha il diritto di decidere in autonomia della qualità della sua vita. Il diritto di autoregolamentarsi significa anche avere il diritto di rifiutare le cure cosiddette “salva vita”, oppure quelle cure senza le quali sopraggiunge la morte.

Il diritto di ogni individuo a realizzare la propria volontà coincide con il diritto all’autodeterminazione, fondamento della prospettiva laica in bioetica.
Il diritto all’autodeterminazione è un diritto di libertà e di responsabilità che ognuno ha verso se stesso e che supera la delega di tali importanti decisioni al medico o ad altri, come i propri familiari o il giudice. La capacità di scegliere per se stessi in modo indipendente comporta il diritto di ricevere informazioni precise e complete sulla diagnosi, sulle opzioni di cura e l’eventuale intervento, le loro conseguenze e i loro rischi. Solo dopo aver ricevuto tali informazioni, il paziente dà il proprio consenso o, per contro, rifiuta le terapie proposte dal medico. Questo passaggio fondamentale viene chiamato “consenso informato”.

Per le disposizioni di fine vita l’Italia è arretrata rispetto ad altre nazioni europee. Ancòra non abbiamo una legge sul “fine vita”, che comprende l'accanimento terapeutico e l'eutanasia.
   
Per la bioetica l'accanimento terapeutico è un'opinione soggettiva, mentre in medicina indica i trattamenti sproporzionati e inutili per mantenere in vita il malato terminale.   

La scelta dell'eutanasia coinvolge la bioetica, la legge,  la religione cattolica, i medici e i familiari del paziente che vuol sbrigarsi di dare l'addio alla vita per non continuare a subire i dolori. I casi di Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli ed Eluana Englaro hanno dimostrato l’inadeguatezza della legislazione italiana al riguardo, suscitando reazioni sulla liceità e al valore legale del testamento biologico in riferimento non solo all’interruzione dei trattamenti sanitari, ma anche all’eutanasia.
« Ultima modifica: Ottobre 20, 2015, 13:39:10 da dottorstranamore »

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Re:Escatologia
« Risposta #12 il: Ottobre 21, 2015, 06:07:36 »
“Fine vita” /2

La morte ci segue come un' ombra e ci rapisce per portarci nel nulla.

Saper accettare la temporaneità della vita dipende anche dall’età, dalle esperienze, dai tratti caratteriali.

Quando l’individuo diventa anziano si rende conto che gli rimangono pochi anni da vivere. E c’è chi teme la morte, chi invece l’aspetta come liberazione dalle tribolazioni quotidiane, chi ha  paura di soffrire a causa della malattia, chi pensa al suicidio come fine rapida per non farsi logorare dall’angoscia del fine vita, e lo attua come fece il regista Mario Monicelli. 

Qual è il confine tra un livello ragionevole di cure mediche e l’accanimento terapeutico?

Fino a che punto la sofferenza fisica del malato o i costi delle terapie sperimentali giustificano la rinuncia a tentare cure con poche speranze di riuscita o che possono allungare solo di poco la vita del paziente?  Ci sono  tecnologie e macchinari che consentono di tenere in vita pazienti che versano in condizioni gravissime. E’ giusto ? E’ sbagliato ?  I credenti nell’aldilà e gli atei hanno risposte differenti.

I quesiti posti dalla ricerca biologica e medica vengono studiati dalla bioetica che dà risposte etico-morali ai dilemmi suscitati dalle innovazioni e applicazioni sul corpo umano. 

Nella bioetica contemporanea prevalgono due teorie basate su due distinte filosofie: una di matrice “religiosa” e l’altra di matrice “laica”.

Il primo modello teorico è rappresentato dalla bioetica cattolica che enfatizza la sacralità della vita, perché ci è concessa da Dio…,  il secondo modello è rappresentato dalla bioetica laica, che invece considera importante la “qualità della vita” del malato. 

Sono due paradigmi che svolgono anche la funzione di parametri di giudizio e di schemi di valore nella nostra epoca pluralista che tende al relativismo soggettivo e vuole che ogni individuo possa scegliere con piena libertà ciò che giudica la cosa migliore per lui. Se così è, allora perché in Italia l’iter della legge sul testamento biologico è in stallo per motivi non laici ma  etico-religiosi ?

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Re:Escatologia
« Risposta #13 il: Ottobre 22, 2015, 00:16:28 »
“Fine vita” /3

Nel caso di malattia terminale o inguaribile (coma irreversibile), oppure invalidante, che renda incapace di comunicare ed esprimere la propria volontà (ictus cerebrale) cosa fare ? 

Perché non permettere ai cittadini, quando stanno bene con la salute di dichiarare per iscritto quale trattamento terapeutico vogliono nei casi suddetti ? 

E’ più importante ed urgente riconoscere determinati diritti alle coppie omosessuali o il cosiddetto “testamento biologico” ?

Dopo anni di discussioni i parlamentari ancora non riescono a legiferare sul “fine vita”, ma in questi giorni stanno accelerando l’iter per il riconoscimento dei diritti civili alle coppie omosessuali, proprio mentre in Vaticano c’è il sinodo sulla famiglia, intesa in senso tradizionale.

Penso che sarebbe stato meglio se il Parlamento avesse dibattuto e approvato nello stesso periodo i due disegni di legge. Purtroppo non è possibile, perché per i diritti civili alle coppie omosessuali c'è la maggioranza nei due rami del Parlamento; la stessa maggioranza non c'è per il testamento biologico e l'eutanasia, considerati anatema dalla Chiesa cattolica, il "vade retro Satana".

Il testamento biologico permette all’individuo di far sapere ai medici le  disposizioni in merito al consenso o al rifiuto dei trattamenti sanitari, alle cure mediche cui intende o non intende sottoporsi nel caso di stato vegetativo persistente provocato da una malattia. 

Si obietta sulla validità del consenso o rifiuto manifestato “ora per allora”, rispetto alle concrete circostanze da prendere in esame per la meditata decisione, e si dibatte sul vincolo assoluto o relativo delle disposizioni per il personale sanitario. L’opinione prevalente ritiene che il medico possa disattendere le direttive anticipate, indicandone esaustivamente i motivi, nel caso in cui, sulla base delle conoscenze scientifiche e terapeutiche, non risultino più corrispondenti a quanto l’interessato aveva previsto al momento della loro redazione. Per conseguenza la “dichiarazione anticipata di trattamento” (sanitario)  deve dare la possibilità di cambiare la precedente decisione. Il medico deve tenerne conto ma senza essere vincolato,  perché ogni decorso della malattia può assumere caratteristiche diverse.

Ovviamente il testamento biologico è meno generico se viene redatto da una persona già consapevole di essere in procinto di perdere la propria capacità a causa del decorso di una malattia degenerativa. Tale documento può  anche contenere la nomina di un “fiduciario” che possa agire in relazione alle concrete situazioni di fatto quale “decisore sostitutivo”, tenendo conto della volontà precedentemente espressa dall’incapace, dei suoi valori e convinzioni.

Per quanto riguarda la questione dell’incertezza che il testatore biologico, divenuto incapace, voglia effettivamente tenere ferma la volontà precedentemente manifestata, c’è il suggerimento su come agire nel documento del Comitato Nazionale per la Bioetica sulle dichiarazioni anticipate di trattamento del 18 dicembre 2003:  “é preferibile far valere le indicazioni espresse dall’interessato quando ancora era in possesso delle sue facoltà e quindi, presumibilmente, coerente con la sua concezione della vita piuttosto che disattenderle facendo appello alla possibilità di un presunto (ma mai comprovabile) mutamento della volontà nel tempo successivo alla perdita della coscienza”.

Alcuni intravvedono nelle direttive “fine vita” una implicita ammissione dell’eutanasia, invece sono due cose diverse. Ma se anche fosse una forma di eutanasia qual è il problema ? Se il malato terminale non vuole la morfina o altri oppiacei per lenire i dolori e vuole concludere la sua vita terrena entro breve tempo perché impedirglielo ? Se non crede che sia stato creato da dio, se non è un cristiano che diritto ha la Chiesa di opporsi alla sua laica volontà di voler morire ?   

Il rifiuto del paziente é  tutelato dall’art. 32 della Costituzione, il quale sancisce che nessuno può essere sottoposto a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, in accordo con il principio fondamentale (affermato dall’art. 13 della stessa carta costituzionale) della inviolabilità della libertà personale intesa anche quale libertà morale, vale a dire il diritto dell’individuo all’autodeterminazione e all’integrità della propria coscienza.

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Re:Escatologia
« Risposta #14 il: Ottobre 23, 2015, 00:18:23 »
Testamento biologico. In Italia  il testamento biologico non ha valore giuridico, nonostante la legge n. 145 del 2001 abbia autorizzato il Presidente della Repubblica a ratificare la Convenzione di Oviedo del 1997, la quale stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento non è in grado di esprimere la propria volontà, saranno tenuti in considerazione”.

La ratifica della Convenzione non è ancora stata effettuata perché non sono stati volutamente emanati i decreti legislativi previsti dalla legge per l'adattamento dell'ordinamento italiano ai principi e alle norme della Costituzione.

Il  Comitato Nazionale di Bioetica  nel documento del 2003 dà indicazioni sulla dichiarazione anticipata  di trattamento, detta anche  testamento biologico. Per essere valido deve avere la data di compilazione  in forma scritta  da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere e non sottoposti a condizionamenti psicologici. Non deve tendere all’eutanasia e deve indicare le terapie che l’individuo  vuole o non vuole  accettare nell'eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio consenso o dissenso alle cure proposte per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, malattie che costringano a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione.
 
Quindi il testamento biologico è uno  “strumento” di autodeterminazione del malato ed è la logica estensione del concetto di “consenso informato alle cure”, che è accettato da tutti. Se un individuo non lo compila e non è più in grado di intendere e di volere,  la decisione sulla  sua sorte passa ai congiunti di primo grado o ai rappresentanti legali.

Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza. Il diritto che si vuol riconoscere al paziente di orientare i trattamenti a cui potrebbe essere sottoposto non è un diritto all’eutanasia, né un diritto soggettivo a morire che il paziente possa far valere nel rapporto col medico. E’ solo il diritto di chiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche  volte a prolungare artificiosamente la vita  con la somministrazione di farmaci, l'utilizzo di macchinari (es. la ventilazione polmonare), la nutrizione artificiale.

I  cristiani  considerano sacra la vita, donata da Dio. A tale loro convinzione  si oppone  l’autodeterminazione dei non credenti. La capacità di autodeterminazione  si ha quando si è in possesso delle proprie facoltà mentali e si scrive il testamento biologico “ora per allora” nel caso di  un decadimento che potrebbe annichilire la volontà, la coscienza e le relazioni interpersonali.

I cattolici credono che la difesa della vita umana non sia negoziabile. Temono che cedere sul fine vita  significherebbe aprire ad altri cedimenti,  come l’eutanasia. Il riferimento è alla vicenda di Eluana Englaro. Il padre della ragazza che visse  per anni in stato vegetativo, ottenne dal tribunale il permesso all’interruzione dei trattamenti sanitari.