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Post - otrebla

Pagine: [1]
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Laboratorio di scrittura creativa / Re: Lei... donna
« il: Maggio 23, 2011, 18:08:29 »
grazie!

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Sentimentale / Re: Quando i ricordi...
« il: Maggio 19, 2011, 19:35:46 »
Grazie Brunello. Detto da te, che scrivi in modo eccezionale, è prorpio un bel complimento.

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Altro / Re: Due biscotti
« il: Maggio 04, 2011, 17:18:48 »
e un pezzo pieno di poesia e molto toccante.

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Introspettivo / Re: Un'altra sigaretta
« il: Maggio 01, 2011, 15:14:29 »
bel pezzo!

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Altro / Re: I miei alunni extra
« il: Maggio 01, 2011, 10:01:55 »
Mi sono emozionata,brava. Ho ripensato a molti aneddoti che mi racconta la mia amica, maestra elementare.
Solo i bambini sanno essere così meravigliosi, anche se a volte noi adulti ne abbiamo paura. :rose:
In trentacinque anni d'insegnamento ho imparato che solo i bambini riescono a mantenere vivo "il bambino" che è in noi!

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Altro / Re: I miei alunni extra
« il: Maggio 01, 2011, 09:57:20 »

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Sentimentale / La partitella
« il: Maggio 01, 2011, 09:50:09 »
Glielo avevo detto poco prima di andarci più piano. Doveva avere una leggera forma asmatica perché passandogli accanto, ogni volta, sentivo un respiro affannato, difficoltoso, ma non era simpatico e questo teneva lontano il pericolo di una pur vaga preoccupazione dettata dall’affetto o solo dall’amicizia.

La palla era stata calciata verso di me con una parabola molto alta e mentre si abbassava passò davanti al sole. Sentii i suoi passi pesanti, da dietro e quel suo inconfondibile ansimare.

A dire il vero, ebbi in un attimo la sensazione che mi stesse capitando qualcosa di doloroso e che il sole ci mettesse del suo, inframmettendosi tra me ed il pallone.

Chiusi gli occhi quasi completamente, un po’ per il bagliore, un po’ per attutire il colpo.

Arrivò puntuale. Un calcione, con la punta di quel piedone scoordinato, lasciato partire da quel bisonte che quanto si presentava al campetto, metteva inquietudine.

Un urlo, un’imprecazione masticata in chissà quale lingua ed il lasciarsi cadere ai bordi del campo cercando di capire quanto sarebbe durata quella fitta fortissima.

Nessuno si preoccupò più di tanto. La partita continuava sui livelli goliardici, cialtroneschi, così com’era stata impostata.

Il campetto dietro la chiesa, d’altronde, raccoglieva tutti per partitelle verso sera; chi perché così fan tutti, panettieri a fine lavoro, promesse del calcio ufficialmente impegnati, con una gran passione, tanto da rincorrere una palla assieme a chi avrebbe potuto compromettergli le chimere di carriera,  bravi ragazzi o ribelli in potenza, tutti insomma, purchè non al di sotto dei dodici e non sopra i sedici anni.
 
Mi trascinai per un paio di metri, appena fuori dal campo per non essere travolto, premendomi forte una mano sul tendine dolorante, con una smorfia che solo per dignità non lasciava spazio al pianto.

L’erba fresca mi dava sollievo sulla schiena sudata e cominciavo a sentire il dolore diminuire d’intensità.

Immobile, supino, per evitare gli intriganti raggi del sole, girai il capo il capo da un lato, chiusi gli occhi completamente per ascoltare più concentrato quel dolore che si stava attenuando, poi li riaprii.

Mi misi sui gomiti per alzarmi, per tornare a casa, poi mi lasciai nuovamente andare, coccolato da un nuovo improvviso benessere.

Con gli occhi spalancati, sentivo il vociare, gli insulti, le incitazioni dei miei occasionali compagni di gioco, sempre più attutite, sempre più lontane, pur essendo le distanze inalterate.

Non c’era vento, eppure le nuvole bianche nel cielo si muovevano grandi, lentamente, ma si muovevano. Pensai che lassù l’aria, più rarefatta, doveva avere più consistenza per spostare quelle masse, disseminate qua e la in quel cielo azzurro, facendo loro cambiare forma in continuazione.

Mi soffermai su una di loro; con un po’ d’immaginazione poteva essere un cavallo. Sorrisi, poi diventai subito serio perché non avevo più bisogno dell’immaginario. Quasi il mio pensiero avesse dato forza per plasmare quel soggetto, la nuvola prese proprio la forma di un cavallo, distintamente.

La sagoma slanciata, snella, potente ed elegante al tempo stesso, mi affascinò, mi rapì e mi porto lontano, indietro nel tempo, a quell’attimo di terrore che, se anche dell’infanzia ci si porta sicuramente fino al crepuscolo.

Forse non avevo compiuto cinque anni e non so perché fossimo tornati in quel paese della Bassa Mantovana, dov’ero nato e portato poi a vivere in città, a Mantova, quando ne avevo tre.

Contadini, gente povera e rozza erano il contesto del paesino, Bonizzo, che mi ha dato i natali, ma altrettanto schietta, gente semplice, lavoratori con i tratti profondamente segnati dalla fatica e l’espressione di stupore al sentir raccontare delle cose di città.

La famiglia, la mia famiglia, risiedeva in una corte recintata da solide mura che raccoglieva tutto ciò che si può stimare in una casa rurale. L’aia ampia, la stalla, il portico per gli attrezzi, gli animali, la legnaia, le cantine e quant’altro, ma ciò che più contava era la considerazione dei compaesani. Dal nonno di mio nonno, più in la non so, i capi famiglia li ho sempre sentiti descrivere con i termini del rispetto, in virtù della morale e della giustizia.

Poco prima che nascessi, mio nonno e i suoi fratelli, che rappresentavano la famiglia con un gruppo di trentadue persone, si divisero ed in quella grande corte abitarono solo i miei nonni con i loro quattro figli.

Dal sentito dire, all’aver toccato con mano, francamente, mi ha sempre fatto pensare che la considerazione dei paesani non sia venuta a meno, ma che tutto sommato di normale rispetto si trattasse.

E’ un ricordo chiaro ma, onestamente, sono un po’ confuso nell’attribuire al ricordo stesso l’immagine, l’emozione provata, i suoni sentiti, mischiati ai dettagli del racconto tante volte sentito di quegli attimi miracolati.

Saranno state le sei di sera. Una sera d’estate come tante altre, in cui alcuni contadini attraversavano l’aia per portare, in pesanti barili di metallo, il latte appena munto al caseificio attiguo alla corte.

Potevo stare sull’aia, non c’era pericolo. Chi portava il latte, lo faceva con biciclette arrugginite che trainavano dei ridicoli carriolini sui quali erano caricati i bidoni..  Di automobili neanche l’ombra e se, raramente, fosse arrivata una motocicletta, avrebbe anzitempo turbato solo quanto si dicevano gli uccelli, le galline, i grilli e di tanto in tanto una mucca o un cane.

Dall’Afghanistan, per le tristi vicende di guerra, arrivano oggi dei servizi televisivi che mostrano atroci sequenze di soldati e di povera gente e vedendo quei bambini, vestiti da non supporre ricambi per la domenica, mi fa pensare che dovevo essere conciato pressappoco così.

Per l’età che avevo, non lo posso ricordare, ma alcune rare, sbiadite fotografie, me lo confermano. Ancora di più, il racconto più volte sentito nel descrivere le miserie di allora, della merenda fatta con la Ida, quando ero ancora più piccolo.

Seduto per terra, con la schiena appoggiata al cavallo di un paio di braghe sdrucite e bisunte, che erano diventate indignitose anche per la stalla o la concimazione, imbottite di paglia.

Ero al sicuro. Pur perdendo l’equilibrio, la paglia mi salvaguardava da traumi facciali.

La Ida accanto, seduta su uno scannetto, faceva merenda a sua volta, intingendo del pane con la mano tremante, molto tremante, in una scodella quasi colma di vino annacquato e molto zuccherato.

Ne inghiottiva un po’, con la bocca completamente sdentata e un po’ ne dava a me;
in bocca con una buona percentuale, il resto, per la mano malferma, sulle guance, nelle narici con gocce sparse a scendere lungo il collo.

Si era sull’uscio della cucina ed era una gran festa…..per le mosche. Appiccicate al viso, non le mangiavo solo grazie ai loro riflessi pronti nel muoversi prima di essere inghiottite. Grazie a Dio, non ho mai avuto malattie serie, forse dovuto alla gran quantità di anticorpi sviluppati in questi frangenti.

Tutto andava bene. Ognuno poteva occuparsi delle proprie faccende, senza preoccuparsi del bambino. C’era la Ida, mia grande protettrice.

Me la ricordo bene la Ida, come non potrei. All’epoca, si diceva, poteva avere circa ottant’anni, ma dall’aspetto, potevano essere ben più di cento.

Vagava da sola per la campagna, molti anni prima, quando la trovarono. Sordomuta, esile e dimessa, impaurita e incapace di spiegare alcunché.

Venne adottata dai Superbi, gente orgogliosa, puntigliosa al limite dello scontro, ma con un cuore. Tra tanti, una bocca in più da sfamare non avrebbe compromesso l’esistenza di nessuno.

Così fu. Presenza silenziosa e buona, non si chiese mai la sua opinione, su nulla, ma per qualsiasi cambiamento ipotizzabile, la Ida era un punto fermo, rispettabile.

Se ne andò quando avevo circa vent’anni. Non ci furono pianti, ma un comune senso di dispiacere per chi aveva convissuto per tanti anni tra le righe del tacito affetto, senza l’intrigo dei legami di parentela.


Mia madre, seduta su una sedia impagliata sull’uscio della “sala”, (il soggiorno, che dava sull’aia, lo chiamavano così) forse cuciva in quel momento o forse sbucciava “la ruvia”, necessaria al minestrone frequente.

Io, la sua vita, ero lì, al centro dell’aia a non più di dieci metri da lei, senza rischi, se non quello di calpestare escrementi di gallina o di pungermi con qualche pezzo di filo di ferro arrugginito.

In lontananza, sempre più distintamente si sentiva il rumore delle ruote di legno del carro colmo di fieno trainato dalla Gina, cavalla di casa della quale si decantavano le virtù di lavoratrice e di obbedienza.

Ciro, il mio nonno paterno, il Capo, seduto su una parte minuscola del bordo del carro, teneva le redini col piglio del generale, con l’aria sicuramente stanca ma, con la luce delle pupille accese che foravano l’ombra della falda del cappello. Sì, era un Capo nato.

Nessuno dei figli ad aiutarlo. Clio, mio padre, da tempo aveva abbandonato la campagna, trascinando me e mia madre altrove, senza odori di stalla, di arsure padane e senza mani callose a stringersi tra di loro.

Lidio e Angelo che poi vi rimase, erano ancora nella campagna. Sarebbero arrivati da lì a poco.

Pia, la femmina dei quattro figli,  sposato Osvaldo, allora brigadiere dei Carabinieri, se n’era andata già da un po’.

Con quotidiano rituale Ciro, si apprestava a togliere con calma i bardamenti alla Gina. Nonna Zelinda, il vero perno della famiglia, uscendo dalla porta della cucina, attraversò la corte, avvicinandosi a mio nonno, forse per chiedergli di fare qualche altra piccola cosa di poco conto, ma utile per la casa. Così si faceva.

Tutto in un attimo. Un frastuono di terreno frustato da un grande peso, l’urlo all’unisono, strozzato dei miei nonni. Ero di spalle, mi giro e in una nuvola di polvere vedo Ciro e Zelinda scostarsi di scatto dal nitrito impazzito di Gina.

Folle, incontrollabile, Gina scalcia, trancia di netto l’ultima cinghia che la teneva legata al carro e con un sinistro sferragliare di catene, nitrisce in modo agghiacciante e impazzita salta per qualche secondo sulle quattro zampe.

Poi parte, prima disordinatamente, a zig zag, quindi verso una direzione precisa: la mia.

La mia bocca è spalancata, così come i miei occhi e, impietrito, osservo immobile questa montagna di muscoli che mi si avvicina veloce e percorrerà i trenta metri che ci separano in qualche istante.

Dapprima scuote la testa come la volesse staccare dal resto del corpo, poi fatto qualche balzo durante il quale urta e distrugge una struttura di legno con le foglie di tabacco ad essiccare, non è più scoordinata. Mi fissa e vola verso di me, mentre i nostri sguardi si incrociano.

Da quel momento, il ricordo cambia velocità. Tutto è più lento, quasi pacato.

La sequenza delle immagini fatte scorrere così piano, ha un sottofondo sonoro:l’urlo lacerante di mia madre. “Albeeeertoooooooo, noooooooooooooo”.

Non ho chiuso gli occhi, volevo vedere, volevo capire.

Non mi scansò, mi saltò.

Quell’animale così grosso, così grande, avvezzo al traino e non certo ad esibizioni equestri, a due metri da me spiccò un salto, con la leggerezza di un destriero.

Sopra la mia testa, sfiorandomi, passò una cosa enorme, rendendo tutto inverosimile, come inverosimile fu il gesto di pazzia della Gina. Chissà……

Terminato lo spostamento d’aria determinato dal cavallo, che nel frattempo si era fermato in un angolo dell’aia, due braccia forti mi presero e mi sollevarono.

Mia madre. Piangeva e rideva. Rideva e piangeva. Io non piansi per lo spavento. Certo non mi rendevo conto ma, più verosimilmente quando si è in due a dover piangere per lo stesso motivo, uno solo lo fa, l’altro se pur distrutto, assume la parte protettrice.

Siccome ero in piedi, siccome non era possibile che un cavallo di quella stazza mi potesse saltare, siccome era successo che in una simile circostanza, anni prima, in successione, due bimbi furono uccisi, si parlò di miracolo.

Se ne parlò nel giro di poche ore, tanto che alcune comari vennero in visita; chi per avere spiegazioni, chi per avere maggiori dettagli, chi per bere un caffè.

Successo di giovedì, per la domenica si organizzò una grande festa sull’aia che battezzarono “la festa dal putìn”.

Riuscì tanto bene, che si decise di farla tutti gli anni, se non alla stessa data, nello stesso periodo e di domenica; come la Pasqua.

Col passare degli anni, parte della gente dimenticò, o non conobbe il vero perché della festa, conoscendone però il titolo, gli venne facile pensare che per “la festa dal putìn”, si intendesse festeggiare il Bambin Gesù.

Lì, entrava in scena a tutto campo mio nonno Ciro, organizzatore senza pari, specializzato in processioni, funerali e feste dei Combattenti. A Bonizzo non succedeva nient’altro.

I lampioncini di carta colorata con la candela dentro, (mi son sempre chiesto come mai non prendessero fuoco) erano disseminati su tutto il perimetro della corte, sui muri di cinta qua e là, in due file parallele a disegnare l’ingresso dal portone principale e un po’ per terra, in modo disordinato. L’effetto era incantevole.

Sull’aia, sorretti da pali precari, i fili della corrente, sopra le teste, con lampadine bianche ad illuminare il centro della festa. Sui tavolacci, su cavalletti, le bianche tovaglie ad esaltare l’ogni ben di Dio preparato dalle donne, che nei tre giorni precedenti avevano dormito meno del solito, affinché la soddisfazione passasse attraverso una maratona culinaria.

La tagliatella, la margherita e lo “sfrigolà, (la sbrisolona) erano i dolci proposti, poi, il formaggio grana e salame, tanto salame, con cestini di cornetti di pane ferrarese e qualche mazzolin di fiori ad ingentilire il tutto.

L’acqua del pozzo ed il vino fresco di cantina. Non freddo di frigorifero, ma nessuno se ne lamentava. Non era ancora stato inventato.

Angelo e Lidio, avevano preparato, con malcelate diatribe, la pedana per l’orchestra. Alta una trentina di centimetri, le assi scricchiolavano un po’, ma anche questo era in tema.

Durante i preparativi, l’ospite d’onore veniva un po’ bistrattato: gli si diceva in continuazione di stare più in là e di stare fermo e di non toccare e che si sarebbe fatto male. Infatti ero sempre tra i piedi, tutto a toccare e spostare ciò che era già preparato.

Già, l’orchestra. Clio, l’orchestra.

Mio padre, per quel frangente dell’evento, serviva e credo sia stato uno dei rari casi in cui lo si tenesse in considerazione, non per la scarsa personalità, ma per il suo modo di vedere il mondo, che con le solide cose contadine aveva ben poco da spartire.

La batteria, l’orchestra, il successo, la notorietà, gli abiti eleganti, si scontrano come il diavolo e l’acqua santa con le sveglie delle cinque del mattino, il togliere il cappello per asciugare il sudore della fronte con l’avambraccio, il tendere l’orecchio al campanile per posare l’attrezzo ai dodici tocchi ed avere le unghie incorniciare di nero, quasi come un marchio.

Lui aveva scelto e sposato la cocciutaggine con la disperazione degli “stesso sangue”.

Il colpo d’occhio era straordinario. Il sole si era assopito e le persone arrivavano, di tutte le età, di un solo ceto.

Quelli dei casolari vicini si portavano le sedie, che a partire dai due lati del palco, sistemavano in semicerchio. Chi abitava un po’ più in là, appoggiava le biciclette tutt’intorno al vecchio fico, mentre i due con la motocicletta, oltrepassato il portone d’ingresso arrivavano sino ai bordi dell’aia, abbozzando una smorfia soddisfatta, per poi tornare indietro ed appoggiare il mezzo un poco più lontano, ma che si potesse vedere.

Non c’era un tema da seguire nella festa, se non il complice , silenzioso, reciproco messaggio di star bene assieme, di pausa nelle fatiche, di abbandono, nei limiti.

I bambini arrivavano accompagnati dalle raccomandazioni delle madri e da un’aria un po’ diffidente, che svaniva non appena si formavano chiassosi piccoli gruppi scorazzanti, ad esplorare gli angoli più reconditi della corte.

Le ragazze da marito, in gruppetti, lanciavano sguardi furtivi agli orchestrali, per poi girarsi di scatto e scambiarsi commenti sottovoce accompagnati da argentine risate, quindi parlare coi ragazzotti del paese, ma con la punta del naso un po’ più verso la luna.

I vecchi, con ingialliti denti di tartaro trascurato come le loro vite, per lo più cercavano mio nonno Ciro, per sapere quale fosse la sua opinione, verosimilmente sul prossimo raccolto o su quanto sarebbe nevicato nell’inverno a venire.

Alcuni, più giovani, in gruppo, bestemmiavano per il prezzo del latte, per poi interrompersi di scatto non appena vedevano con la coda dell’occhio e andavano a prendere “quella” femmina, trascinandola sull’aia per un tango che esaltava la loro virilità.

Le spose, tra uno sguardo ai bambini che correvano e una fetta di torta biascicata, si lamentavano di come non ricordassero un luglio così caldo.

Anche le zanzare erano più buone.


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15 minuti per creare / Una notte d'estate.
« il: Maggio 01, 2011, 09:47:21 »
UNA NOTTE D’ ESTATE



Per te, Chiara, vorrei tuffarmi nel mondo antico dell’infanzia e con te ripercorrere la via dei silenzi e la strada delle lunghe attese.

Rivedrei in una notte d’estate, una bambina accovacciata su un carro.
Le gambe magre, graffiate, rannicchiate sotto la gonna a fiori troppo vivaci.
Il volto è magro e pallido. Guarda il cielo e conta le stelle: una, due, tre, tante, tantissime, vicine e indipendenti.
La frangia, tagliata di netto, le si apre sul collo esile formando una cortina davanti al viso e lascia scoperti solo gli occhi.
Alza adagio la testa e fissa l’uomo che all’altra estremità del carro tiene strette le redini dei buoi.
Al buio le appare soltanto una sagoma scura, due spalle pesanti curve in avanti.
Il cappello, messo di traverso, lascia scoperti una parte di capelli che alla luce della luna sembrano ancora più bianchi.
Prova un’istintiva tenerezza per quella figura di uomo antico, dalle mani callose e dal volto annerito dal sole.
Vorrebbe avvicinarglisi e stringerlo da dietro, ma il pudore dei suoi sentimenti di bambina è più forte dell’istinto. Resta immobile e l’uomo non si volta.
Sono tanti gli anni che li separano e forse dovrà vederlo morire come ha visto morire la vecchia dei Salvi.
Un dolore nuovo le sale dallo stomaco fino alla gola.
Il buio è troppo fitto, si sente sola e comincia ad avere paura.
Si solleva adagio dal carro e a passi incerti si avvicina all’uomo che le è davanti.
E’ sicura che lui saprà consolarla anche senza parlare.
Gli cinge il collo con le mani, appoggia la testa sulla sua spalla e resta così per alcuni istanti.
Sente un odore conosciuto, di erba secca e di polvere: l’odore di una persona che ama.
“Tra poco saremo arrivati”, le dice l’uomo girando appena la testa e la sua voce è calda, sicura.
“Nonno ti voglio bene”.
E la bambina sente che saranno ancora tante le notti d’estate che passeranno insieme.

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15 minuti per creare / Nel mio Paese...
« il: Aprile 29, 2011, 19:11:57 »
Nel mio Paese il tempo e' cambiato.

A lungo , molto a lungo , c'e' stato il sole. Un bel sole.

Oddio , certo talvolta e' piovuto , ma brevi precipitazioni , niente rispetto a quanto si sa di Paesi vicini , o lontani , di cui si sa che il freddo , il vento , la neve , sono una consuetudine con la quale si convive con serena rassegnazione , perche' cosi' Lui ha disposto e nulla si pretende perche' cosi' e' .  Addirittura nemmeno si sa che altri possono godere del tepore che la natura naturalmente fornisce , ma in ordine sparso e con una assegnazione di cui si sapra' il perche' solo più in la.

Oddio , a ben pensarci ,  ma proprio bene, perche' c'e' una naturale predisposizione a dimenticare il maltempo e specialmente i fulmini , qualche perturbazione da ricordare c'e' stata ; lunga e sottile come un obbligo scolastico non gradito , o pioggia calda e avvolgente come lo struggimento del sentirsi innamorati dell'amore.
  
Tempeste , alcune tempeste , hanno lasciato il segno dei chicchi di grandine , come il rimorso di una carezza non data a chi ti ha dato la vita o una parola non detta a chi la vita l'hai data.  

Il giorno dopo , al risveglio , guardi l'alba e desideri che i raggi del nuovo sole ti asciughino l'umidita' che ti e' entrata nelle ossa. Dubiti che accada.   Ma accade.
E quanti raggi. Tanti.  Tanti ancora.  E ancora.

Che meraviglia questo Paese.  
Tanto calore.  Buono.
 
Come la passione.  
Che magari brucia , come l'amore di quella donna e per quella donna che , col tempo , ha cancellato ogni paragone.

Tepore lungo e piacevole , come la stima che senti addosso , una buona musica che ti fa sentir fortunato di poterla ascoltare.

Come dicevo , il tempo e' pero' cambiato.
 
Quel cielo terso ,  quell'azzurro che rapisce ; per trovarlo si deve rovistare in quel cassetto etichettato "ricordi, curiosita', belle speranze".  

In questo Paese da quel giorno, quello della paura della fine di ogni cosa, l'orizzonte ha ospitato nuvole perenni e minacciose, che non se ne vanno e , si sa , non se ne andranno mai più.  

Sono la' , lontane quanto solo la mente puo' misurare , forse vicine perche' non so quanto sia grande il mio Paese.

Un Paese in cui non si era pronti al cambiamento , ma si e' subito capito che nulla sarebbe stato più come prima , che le giornate di sole radioso appartenevano al passato.
 
Loro sono là , silenziose e indecifrabili.

Di tanto in tanto , mandano inquietanti messaggi , sotto forma di un soffio di vento gelido improvviso o di un tuono soffocato , giusto per ricordare che Lui c'e' e che anche di questo Paese la storia l'ha scritta da un pezzo.  

Come prima , qualche pioggerella , un po' di caldo e un po' di freddo e come prima giornate di sole.
 
Ecco.  Giornate di sole.  Un sole diverso da un di , meno caldo , meno magnanimo nel dare energia , ma , meraviglioso gustarlo e goderne la luce , una luce nuova , diversa.   Da imprimere nelle pupille , quasi a volerne portare un po' in un altro Paese , se c'e' ne fosse bisogno.

Che fortuna quelle nuvole all'orizzonte.    

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Sentimentale / Quando i ricordi...
« il: Aprile 29, 2011, 19:05:14 »
                                QUANDO I  RICORDI…   
                                         
Quando lo incontrai lo stavo aspettando. Non gli avevo ancora dato la sua faccia ,le sue mani, le sue gambe, ma lo riconobbi subito e da subito lasciai che la mia pelle lo toccasse. Con lui mi persi e mi ritrovai: ero sempre io ma una parte di me si era arricchita della vita di un altro.
Fui felice e imbarazzata ma non fui mai un “per me voglio”.
La prima volta che mi baciò mi sembrò tutto naturale, scontato,  quasi avessi già saputo.
Sentii lo stomaco contrarsi improvvisamente poi, rilassarsi piano. Non suonarono campane, ma il mio paradiso e il mio inferno, anche se ancora non lo sapevo, erano già cominciati.
Guardai per un attimo le colline che si vedevano oltre la strada; ne segnai distrattamente il contorno con le dita, lasciando visibili striature sul vetro dell’auto Dietro di loro la montagna si stava colorando di scuro. Una macchia nera saliva serpeggiando tra i rami di quercia, partendo dalla valle per arrivare piano fino in cima, quasi a nasconderla, a darle un po’ di tregua a quell’essere esposta allo sguardo di tutti. Io avrei superato le colline, mi sarei arrampicata sulla montagna, sarei caduta, avrei pianto, avrei avuto paura della macchia scura, ma mi sarei rialzata e, anche zoppicando, sarei arrivata lassù dove la macchia nera scompariva.


La prima volta eravamo nella stanza di un albergo alla periferia di Venezia. Fu dolce e imbarazzante, un misto di sensazione strane. Lui non mi conosceva, non mi stava aspettando ma questo non mi interessava perché non volevo sapere. Era come io lo vedevo e lo sentivo che mi bastava. Le sue mani si muovevano esperte e io cercavo di imprimermi bene nella mente il calore e il ritmo di ognuna di quelle carezze.
Mi svegliai prestissimo. Fuori erano caduti alcuni centimetri di neve e i campi attorno all’albergo sembravano essersi macchiati disordinatamente di chiazze bianche.
Fu allora che mi disse di essere sposato e di avere due bambini. In piedi ,di fronte all’armadio, continuai a sistemare le mie cose. Non cambiai espressione, mi muovevo con gesti rapidi, precisi e risposi con uno scontato “ Lo immaginavo “. Ma non mi voltai mai verso di lui. Concentrai lo sguardo e l’attenzione sul listino prezzi attaccato alla porta. Distinsi caratteri scuri e chiari, i primi stampati, gli altri in corsivo, ma non riuscii a leggere perché le righe continuavano a sbiadirsi.
Eppure non stavo piangendo!
Nella strada del ritorno nessuno dei due disse niente. Lui guidava apparentemente calmo, oppure lo era davvero. Io restai quasi immobile con la faccia rivolta fuori. La neve si stava già sciogliendo, scaldata da un sole invisibile che a malapena riusciva a far filtrare un po’ della sua luce attraverso la nebbia che cominciava ad ovattare. Se avessi potuto mi sarei nascosta anch’io tra quella massa grigiastra. Lì avrei raccolto il mio corpo e come un feto mi sarei lasciata cullare. Non ci sarebbe stato nient’altro. La nebbia sarebbe diventata la mia placente, sacca dolcissima, impenetrabile e io avrei anche potuto lasciarmi andare nel liquido caldo che conteneva. Nessun altro movimento che galleggiare nel nulla, nessun contatto con l’esterno, tranne, di tanto in tanto, qualche rumore attutito per assicurarmi che fuori esisteva qualcun altro.
Non pensare, non vedere, non parlare. Non parlavo, ma non potevo non vedere e non pensare. Lui era lì e io a pochi centimetri di distanza. Che diritto aveva di essere l’uomo che avrei voluto amare.
Mi voltai di scatto e lo guardai. Mi sorprese perché sembrava triste. Mi appoggiai allo schienale del sedile e restai così per alcuni istanti. Solitudine, tristezza, lacrime. Eccole finalmente. Le sentii salire su dalla gola, attraversare il naso, uscire dagli occhi e scendere piano lungo le guance. Ne assaporai il gusto salato e cercai altri motivi per piangere ancora.
Vuotai la mia delusione poi, restammo sole io e la mia voglia di lui. Mi si attaccava con prepotenza quando la respingevo, mi si abbandonava addosso quando la cullavo, la rassicuravo, poi restavamo così, abbracciate, fiduciose, spaventate.
Volevo solo amarlo e avrei anche fatto a meno del suo amore. Sarei stata la donna di una notte e, finché i morsi della gelosia non si fossero fatti sentire, avrei potuto continuare.
Diventai la donna di tante notti, di notti fatte di tenerezza, di incontri decisi da lui all’ultimo minuto. Feci uscire da me quanto di più bello potevo contenere e godetti ogni attimo di quanto mi veniva offerto. Potevo ispezionare il suo corpo, guardarlo mentre dormiva, sentirlo parlare, essere con lui in mezzo a tanti altri che non si sarebbero neanche accorti della mia presenza. Ad ogni sua telefonata mi tuffavo in preparativi frenetici: dovevo essere il meglio di me, sia dentro che fuori. E riuscii ad esserlo perché lui se ne accorse. Cominciò a conoscermi e a farsi conoscere e più mi addentravo in lui, più scoprivo che era lui che volevo incontrare, era lui che volevo far penetrare nei vicoli più nascosti del mio io, quelli piastrellati di insicurezza, di voglia di essere, di bisogno di amore… amore con tutte le A, maiuscole, minuscole, scritte con inchiostro multicolore.
Iniziò a telefonarmi più spesso e più spesso io temevo che la macchia scura mi avrebbe impedito di andare avanti.
Teneva molto a mantenere intatte le sue posizioni socialmente rispettabili ma, in quelle strade, io stavo già camminando. Niente di particolarmente preoccupante: c’era ancora tanto spazio per andare avanti indisturbati. Ma lui non si preoccupò, mi lasciava fare e i miei spazi continuavano ad allargarsi. Arrivai ad occupare la strada per intero e allora lo vidi diventare insofferente, lo sentii fare discorsi confusi che a volte interrompeva prima di concludere. Parole che costruivano frasi scontate dove io dovevo leggere solo i suoi sensi di colpa, le sue preoccupazioni, le sue paure, che mi obbligavano a sentirmi in colpa, a preoccuparmi, ad avere paura. Ma in quelle frasi io leggevo anche che era di me che aveva bisogno per raggiungere la cima.
E allora avrei voluto gridargli: - Non preoccuparti, lasciati andare con me in questo piccolo cerchio, non muovere l’acqua se non vuoi allargarlo. Lascialo essere per un anno, un mese, o anche solo per un giorno, ma non cercare di distruggerlo. In quel minuscolo spazio ci siamo noi e non riusciremo più a costruirne un altro così perfetto!-
Invece restavo zitta: non potevo chiedergli qualcosa che avrebbe avuto valore solo se fosse stato lui ad offrirmela. E lui cominciò un po’alla volta a darmi la possibilità di restare nel cerchio e parlandomi delle sue paure mi chiedeva indirettamente di poterci restare con me.
Mi disse di amarmi mentre eravamo al ristorante.
Feci finta di non aver sentito. Mi alzai solo quasi di scatto ed uscii.
Ero felice, toccavo il mio paradiso, ma le gambe mi tremavano. La mia parabola stava per essere raggiunta dalla sua e, una volta allineate, avrebbero potuto scontrarsi. Allora forse sarebbero ritornate a scorrere piatte, in direzioni diverse.

La strada si srotolava su per la montagna come un nastro, quasi a voler scappare da chi gli camminava sopra. Nella furia della corsa, si addentrava tra i pini, costeggiava burroni altissimi poi tornava a riprendere fiato e allora scivolava calma tra i prati. Seguivo con gli occhi il suo percorso man mano che ci avvicinavamo al paese dove, finalmente esausta, essa si fermava sciogliendosi in una serie di vie e viuzze. Era la nostra prima vacanza!
Tutto di lui mi sarebbe appartenuto, dal mattino quando aprivo gli occhi fino alla sera prima di chiuderli. E tutto di lui mi appartenne. E io bevevo assetata ogni più piccolo istante e, come un cammello, ne facevo scorta per i periodi di deserto che sarebbero venuti subito dopo. Insieme formavamo uno spazio unico, il resto era sfondo, comparsa.
Guardavamo la gente passare ma non ci riconoscevamo in nessuno di loro. Eravamo gli unici, i migliori, la perfezione della coppia.
Non c’erano progetti, non esistevano domani programmati ma esistevamo noi con la nostra voglia di raccontarci, di scivolare l’uno nell’altro per carpirci anche i segreti più nascosti. Gli raccontavo la mia vita, gli indicavo le strade che avevo percorso per raggiungerlo. Strade così lontane e qualche volta sbagliate. Guardavo la sua faccia: non mi capiva, soffriva dei miei errori ma sentivo la stretta della sua mano sulla mia spalla farsi più forte, possessiva.

- Ora ci sono io. – E questo significava ti amo, sono qui per accompagnarti e ti ho scelto come compagna di viaggio. Viaggeremo insieme e insieme grideremo, salteremo. La nostra strada attraverserà paesaggi così belli che alla loro vista non potrai fare a meno di commuoverti. Insieme sbaglieremo, ma forse uno dei due farà in tempo ad avvertire l’altro, lo spingerà dalla parte opposta pur di non perderlo, a costo di fargli male, di violentare i suoi desideri.

Per lui stavo diventando unica, splendida, meravigliosa. Come poteva non uscire da me qualcosa di meraviglioso, di splendido, di unico?
La sera, con la testa appoggiata nell’incavo del suo braccio, gli raccontavo la nostra vita. Non tralasciavo nessun particolare di come volevo che fosse. Smantellavo le parti della sua esistenza in cui non entravo poi, le ricostruivo minuziosamente a modo mio. Ogni volta diverse, ogni volta più belle. Sogni guidati, fiabe dolcissime senza maghi né streghe. Un uomo e una donna che entravano in una miriade di personaggi. Eravamo principi, principesse, servi, naufraghi, gente comune che in comune aveva un’unica cosa preziosa, incomprabile, invendibile: il bisogno di esistere per l’altro. Lui mi lasciava fare, non suggeriva modifiche e la mia ninna nanna andava avanti con un ritmo sempre più lento finché si spegneva del tutto.

Conobbi lui e attraverso lui prese forma nella mia mente  la figura di lei.
Io diventai l’altra, l’altra da cui si corre appena possibile, l’altra con cui si ride, si ama.
Ma ero anche l’altra che stava cominciando a soffrire, che avvertiva i primi sintomi di quella gelosia che sarebbe durata fino al prossimo incontro. E allora mi sentivo persa, ingannata. Cominciarono le prime cadute. Sentivo il dubbio arrivare da lontano e impossessarsi a poco a poco del mio cervello. Era inutile concentrarsi su altro . Lui era con lei e con lei mangiava, parlava, dormiva. Non entravo in quella parte domestica di giornali sportivi letti durante il pranzo, di resoconti giornalieri detti a bassa voce prima di dormire. Non ero la donna che presentava agli amici di famiglia e che il sabato sera portava fuori e la domenica a pranzo.
Della sua presenza a me restavano brevi frasi segnate di sbieco sul calendario o su un biglietto attaccato alla testata del letto. Frasi brevissime, di saluto, di tristezza, di scoraggiamento, di speranza: frasi che puntualmente trovavo rientrando dopo che se era andato. Qualche volta cercava di addolcire la sua partenza con delle rose: erano sette oppure tredici e in ogni rosa io cercavo di nascondere sette o tredici momenti belli passati insieme. Li sistemavo, gli davo dei valori dal buono al migliore e lasciavo il migliore per ultimo. Erano la spinta ad arrivare in cima alla macchia scura quando sentivo che stavo per cadere, per tornare indietro, quando leggevo la mia sconfitta nella vittoria delle altre che incontravo la domenica sottobraccio ad un uomo.
E allora raccoglievo tutte le mie forze e cercavo di difendermi. Mi allenavo a non amarlo. Scivolavo con la mia solitudine in un tunnel senza uscite, eppure così  poco protetto, sempre pronto a far uscire da ogni piccola crepa momenti di dolcezza.
Moltiplicavo le mie mani per coprire quei buchi per impedire che ne entrassero altri.
Proiettavo nella mia mente le sequenze della mia vita senza di lui. Erano momenti ben scanditi, di settimane, al massimo di un mese: andare da un’amica, fermarsi giusto il tempo di non lasciarsi scoprire, ripartire, ritornare, interessarsi di cose che non mi erano mai interessate prima, vivere per me, perché era su di me che avrei dovuto contare.
In fondo sembrava semplice. Sentivo la serenità toccarmi come una pioggia leggera, scivolare in piccoli rigagnoli sulla mia faccia, sul collo, sulle braccia, sulle gambe. Ma bastava un’incognita banale per ripulire tutto e riportarmi al punto di partenza. E allora mi sembrava di soffocare e ogni alternativa diventava un rimedio inefficace. C’era solo da soffrire e allora sarei rimasta inerte e avrei sofferto. Bastava riconoscerne i segni e lasciarli fare, senza cercare di combatterli, di allontanarli, sapere che sarebbero andati avanti per mesi, poi il tempo li avrebbe mitigati, resi sopportabili. Sarebbero stati i miei nemici fedeli, decisi a non lasciarmisi sfuggire. Al mattino mi sarei svegliata con la tristezza immotivata ma, subito, il mio cervello l’avrebbe identificata, dandole una consistenza reale. Di giorno avrei camminato, riso, pianto, scherzato. La sera sarei stata troppo stanca per combattere ancora e allora mi sarei addormentata con la voglia di toccarlo.

Ho ritrovato questi fogli in un vecchio cassetto. Quando le ho scritte avevo vent’anni, ora ne ho cinquantasei. Di quest’ uomo sono stata amante, compagna, moglie, moglie tradita e separata, donna che a fatica ha perdonato, donna che ancora ama.
Per lui ho superato le colline, mi sono arrampicata sulla montagna, sono caduta, ho pianto, ma mi sono rialzata e anche zoppicando, ho cercato di arrivare lassù dove la macchia nera scompariva.
Non riesco ancora a vedere l’altro versante della montagna ma… la storia continua!
 

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Altro / I miei alunni extra
« il: Aprile 27, 2011, 14:02:04 »
I MIEI ALUNNI EXTRA
  


Vent’anni e tanto entusiasmo!
Neanche la nebbia, che quella mattina di ottobre cercava di nascondere Venezia in una tristezza silenziosa riusciva a smorzarlo .Era il mio primo giorno di insegnamento, sede: elementari Marconi.
Che storia!
Una storia durata venticinque anni poi, trasferimento nel mio paese di origine    
L’entusiasmo è diminuito, mi pesa rapportarmi con le richieste sempre più esigenti dei bambini. Vorrei una classe di alunni buoni bravi e con una famiglia che li segua.
Mi viene assegnata una prima a tempo pieno: so che sono quindici ma non ho l’elenco dei loro nomi.
Oggi , ore 17, incontro con i genitori: arrrivano puntuali, un po’ timorosi.  
Cercando di sfoderare un sorriso dei più rassicuranti mi presento. Si presentano.
La maggior parte di loro parla un italiano un po’ stentato e si limita a dire solo poche parole: solamente quattro avanzano le più svariate, ma giustificate richieste.
14 settembre: primo giorno di scuola. Mi fa un certo effetto ritornare in questo vecchio edificio dove per cinque anni sono entrata come scolara. E’ ancora come lo ricordavo:pareti esterne un pò scrostate e cortile asfaltato. Vedo già la ricreazione: proibito correre, proibito giocare a nascondino,proibito tutto ciò che può fare di un momento di pausa un’occasione di gioco.
Mentre una marea di grembiuli blu sotto zaini pesanti entra, avvolto in un vocio caotico, i nuovi arrivati aspettano in un angolo. Con  l’elenco in mano  inizio a chiamarli : i nomi sono per lo più stranieri e qualcuno lo pronuncio in modo sbagliato. Sono diventati undici: i quattro genitori “delle richieste” hanno preferito iscrivere i loro figli al tempo breve.
Troppi stranieri, troppi immigrati nella prima B a tempo pieno!
Riunisco in una fila molto poco ordinata quelli che saranno i miei alunni: alcuni sono senza grembiule, uno non ha nemmeno lo zaino; dai pantaloni di una taglia troppo piccola spunta una specie di pizzetto: qualcuno , sotto i vestiti, indossa ancora il pigiama.
Non so se ridere o mettermi le mani tra i capelli!
La realtà in cui ho lavorato finora era “normale”. Non mi sento preparata ad affrontarne una così diversa. Vedo già compiti non svolti, quaderni mancanti, astucci semivuoti, sento la mia voce che si spezza nei toni più alti per chiedere silenzio.
Insieme entriamo in classe. Si siedono e se ne stanno lì zitti zitti, fissandomi timorosi:sembrano cuccioli impauriti e questa è una sensazione che per ora ci accomuna!
Ce la farò?
Ce la faremo?
Li guardo:alcuni hanno la carnagione scura e occhi penetranti,altri sono biondi, una frangia di capelli corvini quasi copre quelli a mandorla di una bambina seduta compostissima all’ultimo banco. Sono così diversi tra loro e forse per questo mi sembrano ancora più belli!
Cerchiamo di conoscerci ma, a parte i loro nomi non riescono a dirmi altro.
Capisco che non hanno ancora voglia di raccontarsi: aspetterò. Per oggi parlo di me e così inizia il nostro viaggio insieme.
Gli anni passano velocemente: fine prima, fine seconda, terza ,quarta………
Tra alti e bassi, quaderni persi non si sa dove, penne mancanti, compiti non s volti, sgridate sonore , risate pianti ,litigi, siamo arrivati in quinta.
Seduta dietro la cattedra mentre in silenzio scrivono il loro testo”Mi presento ai professori di prima media”, li guardo. Adesso ci conosciamo: so chi sono stati, chi sono ora e cosa vogliono diventare.
E loro conoscono me.
Concentrato sul suo compito , con il solito impegno di sempre Franc non alza mai la testa dal foglio. E’ arrivato in Italia dall’Albania con i soliti barconi che spesso guardiamo distrattamente in tv: realtà troppo lontane per coinvolgerci emotivamente. Ricorda che  era  buio  e faceva freddo. Durante tutto il viaggio sua madre lo aveva tenuto stretto a sé , avvolto in una coperta e continuava, con una voce sempre più debole a cantargli ninne nanne, mentre tutto intorno era solo una massa di disperati, con lo sguardo perso in immagini lontane, accalcati come bestie .
Ora Franc abita in una casa popolare,ha la sua cameretta, i genitori lavorano e lui continuerà ad impegnarsi tanto nello studio:vuole diventare ingegnere edile e ritornare nel suo paese a costruire case.
 
Seduto di traverso, o in ginocchio sulla sedia, Elson cerca di scrivere qualcosa……
L’impegno non dura molto e, come sempre, quando ha voglia di farsi un giro, mi chiede se può andarmi a prendere il solito caffè d’orzo senza zucchero. Mentre si allontana lo seguo con lo sguardo:  il “furetto”, così lo chiamiamo per i suoi occhi furbi, pieni di sfida e per la sua abilità di trovarsi dappertutto, è cresciuto. Non aveva neanche la più pallida idea di cosa volesse dire “andare a scuola”. Il suo unico interesse era giocare e divertirsi a far dispetti ai compagni. Un giorno, quasi a fine prima, si è presentato alla cattedra con il quadernone di italiano aperto su una pagina completamente scritta .Aveva ripetuto per quindici volte, copiandolo non so dove, ”FANCULO MAETRA”.  Si aspettava una sonora sgridata ma non raccolsi la sua sfida , anzi, gli scrissi un “bravissimo” enorme. Da quel giorno un po’ alla volta ha iniziato a voler imparare.

Capelli sempre tagliati a caschetto, neri , lucidissimi, colletto bianco immacolato, fiocco ben annodato, Viviana Chen consegna il suo compito: scrittura minuta, ordinatissima, voto “ottimo” .
Le restituisco il foglio sorridendole compiaciuta. Lei abbassa subito lo sguardo, come sempre ogni volta che le rivolgo la parola o la interrogo. Ora so, che il non guardare in faccia agli adulti, è una forma di rispetto, che appartiene alla sua cultura orientale. E pensare che per questo suo atteggiamento, l’avevo anche ripresa!
Tra qualche mese lascerà l’Italia per tornare in Cina. Le piacerebbe continuare a studiare l’ italiano: lo faremo via mail. Tra me e il computer non c’è un buon rapporto,  ma questa sarà una buona ragione  per migliorare.

Enj , l’uragano ambulante che riesce a riempire ogni spazio con il suo vocione e la sua presenza ingombrante, mi chiede di uscire ancora una volta. Il percorso dall’aula ai bagni può ormai farlo ad occhi chiusi.
Quando è arrivato eravamo in seconda. Aveva solo un quaderno, di quelli piccoli con la copertina nera e i fogli profilati di rosso e una matita . Parte del quaderno era già scritta, ma a matita, così  poteva cancellare e scriverci di nuovo. I suoi genitori non avevano ancora la possibilità di permettersi spese “superflue”. Non ho potuto non provvedere e il giorno dopo mentre lo aiutavo a sistemare quaderni e astuccio nello zaino, mi ha mostrato orgoglioso, un piccolo album di fotografie.
Lo ritraevano in quella che era stata la sua casa in Albania. Si vedevano varie stanze e ci tenne a dirmi che in ognuna di esse c’era un lampadario brillante  e che in sala, attorno ad un grande tavolo, si festeggiavano sempre i compleanni. Tra una settimana sarebbe stato il suo, ma lo aspettavano solo due misere stanzette dove a malapena lui e sua madre riuscivano a girarsi. La solitudine e la nostalgia che lessi nei suoi occhi mi restò addosso tutto il giorno.
Festeggiammo il compleanno a scuola con tanto di torta e candeline.
C’è silenzio in aula, chiudo il registro e continuo ad osservare i miei “cuccioli spaventati” , diventati ormai grandi e più sereni. Il mio sguardo si ferma sulla massa nera di capelli riccioluti di Felisia, su Vincenzo che appende fiero il suo disegno, sulle lunghe trecce fuori moda di Jerina……..
Sul cancello, do  uno sguardo che nessuno si faccia male in quell’orda gioiosa che si manifesta ogni giorno, quando la campanella dice “per oggi basta……”
Elson mi sfiora un braccio, mi giro e ricambio il suo occhiolino con un sorriso. Un sorriso dolce, come quello che mi sta mandando Chen.
Anna, una collega, si avvicina e con sguardo amico e un po’ compassionevole mi chiede: “Come va con i tuoi extra ?”.
"Bene Anna, molto bene".
Mi saluta e rimango un attimo a riflettere : io di extra ne ho sempre avuti.
Italiani, extra bravi, extra obbedienti, extra vivaci o… extra in qualcos’altro!
Questi, quando sono arrivati erano solo “extra sfortunati”! Le priorità sono andate oltre la storia dei Fenici o l’analisi del periodo. C’erano realtà lontane da conoscere e sogni di bambini da realizzare!
 
Settembre: una nuova prima, molti stranieri, nuovi sorrisi incerti, sguardi assorti e intimoriti.
Ancora una volta l’entusiasmo non è quello dei vent’anni, ma non mi chiedo più se saranno alunni facili o difficili da gestire:sono solo bambini, che contano anche su di me per realizzare i loro sogni.
E io ci sarò!

12
Laboratorio di scrittura creativa / Lei... donna
« il: Aprile 24, 2011, 12:23:31 »
8 marzo: festa della donna. Festa ieri, festa oggi. Donna ieri, donna oggi.
Soprattutto oggi. Soprattutto donna!
E lei……..
Lei,  donna, combatte. Combatte contro una società malata, contro l’insana legge del tutto e subito e il caldo afoso degli uffici assolati. Lotta per il posto in autobus, per il posto al cinema e per il posto di lavoro. Per l’ideale di un’ istruzione sicura, per il progresso della scienza e la certezza del futuro. Lotta per i figli, per la loro gioia, per il loro coraggio su cui possa sorridere, per la loro tenacia in cui si possa rifugiare. Lotta, dannatamente, spudoratamente e sempre. Lotta per tingere di rosa questo mondo troppo azzurro.
Lei, donna, copre invano i segni lividi di un amore marcito, di un odio che si maschera ancora in false parole. E si accarezza le labbra gonfie sperando di cancellare l’evidenza.
Lei, donna, si alza sollevandosi su tacchi instabili. Si aggrappa a certezze frivole e momentanee. Oscilla tra un bicchiere di champagne ed un paio di lenzuola sgualcite, e si lascia cullare dalla dolcezza di promesse effimere.
Lei, donna, si nasconde dietro una panchina arrugginita del parco: il volto tumefatto, la gonna sollevata, la dignità persa. Immobile di fronte ad un destino malvagio, getta sull’asfalto i semi di un’utopica felicità, e si chiude in un pensiero che non parla già più di sé.
Lei, donna, in una terra straniera, si perde nei racconti di un’anziana signora, le accarezza i capelli,rimbocca coltri di coperte e piange sulla sua giovinezza che lentamente scivola. Piange perché è sola in un mondo cinico, vera tra gente ipocrita, acerba nella senilità che la circonda.
Lei, donna, si vende. Vende le sue forme come merce comune, in stanze gelide dove amarsi non è amore. Vende ad ore il suo corpo e la sua dignità,e sdraiandosi, si allontana dalla sua vita sporca.
Lei, donna……… ora dice basta.
Basta ad un mondo maschilista e subdolo, agli insulti gratuiti, alle inutili fatiche, ad un domani incerto.
Dice basta, e lo fa nelle parole di Angela Merkel, che ha fatto del suo essere primo cancelliere donna, il passaporto di una professione esclusiva.
Dice basta specchiandosi in una stella e incontrando il viso rassicurante di Margherita Hack, una tra le poche ad aver sposato il cielo ed essersi tuffata nei suoi incolmabili misteri.
Dice basta nei libri di Dacia Maraini, nelle parole che scivolano fluide e nelle pause dei sentimenti, nelle verità di una vita vissuta e di tante altre da raccontare.
Lei, donna, stringe il polso di chi ha saputo combattere, di chi non si piega davanti agli ostacoli e continua a correre. Afferra la tenacia di Ingrid Betancourt, a cui non è bastato il freddo delle notti colombiane per cancellare un sogno.
Tende le braccia a chi è scienza e passione. Guarda sul volto di Rita Levi Montalcini i segni della storia e legge nei suoi occhi il desiderio ardito di sapere e di scoprire.
E insieme a loro, lei, donna, grida.
Grida nei lamenti di Alda Merini, nel suono alacre e travolgente dei versi aspri, nella dolcezza di poche strofe, nella vitalità di chi non c’è più e continua ancora a colorare il grigio di questa terra.
Grida nello spirito di Condoleezza Rise e di Michelle Obama, nelle loro impregnanti presenze politiche e nel colore di una pelle calda, che è soltanto ricchezza da assorbire.
Grida per chi c’è stata, per chi ha lasciato un segno, per chi ha fatto tanto e in punta di piedi se ne è andata, lasciando il mondo un po’ più vuoto.
E grida per lei che è donna, per la sua vita, per il suo domani, per la voglia di cambiare, per l’istinto di lottare ancora.
Grida perché è donna. Grida perché vale!!!!!!!!!!!
We believe in pink!!!!!!!


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15 minuti per creare / Ti accompagno alla porta
« il: Aprile 24, 2011, 12:18:41 »
TI ACCOMPAGNO ALLA PORTA

Era così grande e, ricordo, forte e sicura, la tua mano.

Alla bisogna calda e rassicurante a lenire le mie pene, ma ferma e decisa, per trasferire coraggio e sicurezza.

Perfino lealtà.

Perfino quell’onestà che fa tenere il capo retto anche di fronte alle ingiustizie, alle angherie, alla povertà, agli ostacoli che scritti nel Libro, potrebbero far abbassare il mento in segno di resa.

Il Burattinaio ti ha dato un filo robusto per tener alta la fronte. Ti ha dato l‘orgoglio, quello della fierezza portata da chi sa che muove i passi nel sentiero dei giusti.

Quante cose ho imparato.

Nel silenzio dei tuoi gesti, nel cogliere uno sguardo che a fatica lottava per contenere una lacrima che urlava per uscire, messa a riposo con un sorriso.

Le tue mani, rapide, operose. Osservarle nella realizzazione di un progetto, per poi vederle fermarsi di colpo, e sentire le tue dita affondare tra i miei capelli.

Era così grande la tua mano e mi ha portato, giorno dopo giorno, senza che me ne accorgessi, ad attraversare fiumi impetuosi e a scalare montagne severe con serenità, dandomi la fiducia e la consapevolezza che ce la potevo fare.

Che dono.

Com’è piccola ora la tua mano. Fragile.

La stringo piano nel timore di recarti anche il minimo dolore. Che meraviglia.

Le tue palpebre sono socchiuse, ma so che la senti la mia stretta.

Le tue labbra non mi sorridono, ma sento che il tuo cuore lo sta facendo.

Che fortuna. Ho la possibilità di ridarti una parte, anche se infinitesimale, di quanto hai dato a me.

Ora riposati. Fermati. Non aver paura. Sono qui.

Non aver paura, la tengo stretta la tua mano e piano piano, ti accompagno alla Porta.

Lo vedi ? E’ socchiusa e arrivano fasci di luce bellissimi.

Lo senti ? Sono note di una musica dolcissima quelle che diventano più nitide ad ogni passo che facciamo.

Ti accompagno alla porta e Lui ti accoglierà con lo stesso abbraccio che ora ti do io.

Un abbraccio di grande amore.

Non aver paura. Tutto andrà bene.

Non aver paura, mamma.


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