Capitolo 18, versetto 23 dell’Apocalisse:
“In te non brillerà più luce di lampada,
e non si udrà più in te voce di sposo e di sposa;
perché i tuoi mercanti erano i prìncipi (=governanti) della terra
e perché tutte le nazioni sono state sedotte dalle tue
magie”.
Magie, "in che senso" ?
Il sostantivo “magia” allude alla presunta capacità (potere soprannaturale) di dominare le forze della natura mediante il ricorso ad arti occulte di natura malefica (magia nera) o benefica (magia bianca).
La parola “magia” entrò a far parte del vocabolario greco in seguito ai contatti con la Persia: nella religione zoroastriana, il mago era un sacerdote esperto in pratiche taumaturgiche e astrologiche.
Lo storico Erodoto informa che i maghi appartenevano ad una specie di setta deputata a svolgere, per conto del re, riti funebri, divinazione e profezie (Storie I, 101).
Nell’antica Grecia il rito di purificazione simile al capro espiatorio era denominato
“pharmakos” (plurale “pharmakoi”). E pharmakos (= maledetto) era detto l’individuo scelto per imporre simbolicamente su di lui i peccati della collettività e scongiurare le conseguenze nefaste nella polis.
Il reietto veniva espulso dai confini della città.
Dallo scrittore ellenico Istro (III secolo a.C.) e dal grammatico Ellàdio (IV secolo d.C.) si apprende che ad Atene e in altre località della Ionia durante le feste denominate “
Thargelia”, in onore di Apollo, il 6 e il 7 del mese Thargelion (maggio) erano soliti espellere dalla comunità una coppia di persone che avevano commesso dei reati affinché la città fosse purificata.
Il rituale comprendeva anche un sacrificio in onore della dea Demetra e una processione.
Col tempo il termine Pharmakos venne ampliato di significato e derivò il termine
pharmakeus, per indicare una pozione magica, una droga, ma anche il guaritore, il mago.
Un’altra variante semantica è "
pharmakon" che significa pianta curativa, veleno o droga. Da questa variante deriva il termine moderno "farmacologia".
Nell'Ellade venivano distinti tre diversi tipi di magia :la
pharmakéia, la
maghéia e la
goetéia.
Pharmakéia: era quella collegata alla conoscenza delle erbe e dei loro principi medicamentosi (gli attuali erboristi). I cosiddetti “maghi” (maschi e femmine) si dedicavano come attività lavorativa alla farmacopea. Per curare i malanni usavano erbe medicinali da somministrare ai pazienti e praticavano riti e rituali per invocare l’intervento di varie divinità al fine di guarire l’individuo.
Maghéia: era l’attività di derivazione ermetica, orientale, cabalistica, tramite la quale l'uomo colto poteva avvicinarsi ai misteri divini, alla ricerca della conoscenza e della perfezione.
Goetéia: era invece la cosiddetta “magia nera”, tramite la quale si commettevano anche dei crimini.
Un diffuso pregiudizio nei confronti delle donne voleva che queste fossero le più capaci nella pratica di goetéia; pregiudizio che continuò nel Medioevo tra le popolazioni, anche per “merito” dei clerici e tenuto presente nei tribunali dell'Inquisizione.
Nell'antica Roma c’era il terrore delle streghe; ne è testimonianza il racconto che fa Trimalcione ai suoi commensali durante la cena descritta da Petronio Arbitro nel Satiricon, in cui un ragazzo muore e il suo corpo viene martoriato dalle streghe. Petronio conclude dicendo: “Esistono donne che sanno cose che noi non immaginiamo nemmeno, maghe notturne capaci di capovolgere l'ordine naturale delle cose”.
Pure Apuleio nelle “Metamorfosi” descrive una donna nell'atto di compiere riti magici nel chiuso del suo antro-laboratorio dove “Fanno bella mostra membra in gran copia strappate ai cadaveri dopo il compianto funebre e persino dopo la sepoltura”.
In ambito cristiano, negli Atti degli Apostoli è citato il
mago Simone: “C'era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria, spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: "Questi è la potenza di Dio, quella che è chiamata Grande" (At 8, 9 – 10).
Il mago Simone dopo aver ascoltato le prediche del diacono Filippo si convertì al cristianesimo e decise di farsi battezzare. Successivamente, volendo aumentare i suoi “poteri”, offrì del denaro agli apostoli Pietro e Giovanni: Simone, vedendo che per l'imposizione delle mani degli apostoli veniva dato lo Spirito, offrì loro del denaro, dicendo: “Date anche a me questo potere, affinché colui al quale imporrò le mani riceva lo Spirito Santo". Ma Pietro gli disse: ‘Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai creduto di poter acquistare con denaro il dono di Dio’ ” (At 8, 18- 20).
Dal nome di questo cosiddetto “taumaturgo” e dal suo tentativo di poter commercializzare in modo peccaminoso beni sacri spirituali deriva il sostantivo “simonia”: questa parola allude alla compravendita di cariche ecclesiastiche o l’acquisizione di beni spirituali in cambio di denaro.
Dante Alighieri nella “Commedia” collocò i simoniaci fra i dannati nella terza bolgia dell’ottavo cerchio nell’Inferno (Canto XIX). Sono condannati a restare capovolti all'interno di fori nella roccia, con una fiamma rossastra che brucia sui loro piedi. Quando sopraggiunge un nuovo dannato entra in uno dei fori e fa sprofondare in basso gli altri. Tale pena segue questo contrappasso: come in vita "calpestarono" lo Spirito Santo vendendo i posti ecclesiastici, ora lo Spirito Santo (sotto forma di fiamma) brucia loro i piedi.
Gustave Doré, Dante e Virgilio nel cerchio dei simoniaci.