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Topics - dorotychecorre

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Sentimentale / Ludovica
« il: Febbraio 04, 2014, 07:29:32 »

Ludovica


Lo guardava vestirsi come un officiante meticoloso. Era seduta sul bordo del letto. Non poteva fare niente per lui così, si mise a seguire la lenta discesa di una goccia d’acqua sui vetri: l’ultimo scroscio di pioggia l’aveva lasciata lì, sola, come un’invitata di una festa finita all’improvviso.
Suo marito uscì mentre lei era ancora seduta sul bordo del letto.
“Oggi non vado a lavorare”; quella possibilità balenò all’improvviso nella sua mente.
“Non vengo oggi, ho la febbre” disse al telefono. Faceva la segretaria in un centro diagnostico. Si vestì in fretta. Uscì.
Il bar di Luigi era ancora chiuso, da tre giorni ormai,  strano, è scappato anche lui, pensò. L’assenza di Luigi le fece sentire più forte la sua inadeguatezza: anche lei non era dove avrebbe dovuto essere.
Recuperò la sua auto dal garage, si diresse verso il litorale. Non viaggiava su quella strada da molto tempo. Fu felice di ritrovarla intatta, così come l’aveva vista l’ultima volta, quella sera: 365 giorni sono molti anche per la vita di una strada, in un anno può cambiare qualunque cosa, basta anche un giorno o un  minuto a volte.
Il mare quella mattina guardava placido le sue onde ricorrersi sul bagnasciuga. Ludovica lo conosceva bene, conosceva i suoi umori e la sua forza.  Mentre lo guardava dallo specchietto retrovisore, provò la stessa gioia incredula di chi ritrova una persona amata creduta persa per sempre.
Ludovica amava il mare. Aveva trascorso tutte le vacanze della sua infanzia alla casa al mare di zia Ester e zio Valerio, con suo fratello Lorenzo. Non avevano cugini, i loro zii non avevano figli e i loro genitori erano sempre alle prese con i lavori in corso del loro matrimonio sempre da riparare. Glieli affidavano volentieri durante il periodo estivo.
Zia Ester allora era una donna di trentacinque anni, piccola di statura con un corpo sottile: piccole caviglie, piccoli polsi, piccole dita. Una miniatura armonica. Negli occhi neri, uno sguardo malinconico, come un presagio o una notte di fine estate.
Zio Valerio la sovrastava, era un uomo altissimo, poderoso.  Un ingegnere edile con la passione per le immersioni subacquee.
Le favole che raccontava ai suoi nipoti erano tutte ambientate in Malaysia, erano le storie vere delle sue immersioni in quella terra in cui era ritornato mille volte,  dove aveva scattato miriadi di fotografie e ne aveva tappezzato tutte le case in cui aveva vissuto. Voleva ricrearsi attorno quel mondo sommerso in cui si sentiva pacificato e fluido, lui, così spigoloso e inarrivabile che quando parlava dei fondali marini si commuoveva di un’emozione arresa. I bambini, grazie a lui, conoscevano il pesce mandarino che compie la sua danza proprio sotto la superficie dell’acqua, i coralli di Sipadan e gli squali dalla pinna bianca, le seppie giganti e i grossi pesci pappagallo dalla fronte gibbosa.
La casa degli zii era enorme. Ogni suo frammento  si animava all’arrivo dei bambini, la loro energia era una corrente sanguigna che scorreva dalla cantina alla soffitta polverosa.
Il pavimento sconnesso con le piastrelle di ceramica blu con ancora qualche pretesa di bellezza, le cassapanche addossate ai muri con i loro lucchetti penzolanti invitanti, un vago alito di naftalina, l’orlo di ragnatela sul bracciolo di una sedia a dondolo: questo, ai loro occhi, apparve, la prima volta che videro quella soffitta; un vecchio grammofono con il suo collo lungo di dinosauro e la bocca spalancata, e al centro della stanza, uno specchio, con le lentiggini di ruggine come orme di piccoli baci depositati dal tempo. Ludovica aveva otto anni, Lorenzo sei. Si guardarono nello specchio quel giorno e furono  come trasportati altrove, forse nel doppiofondo segreto del tempo. Era una  malia sconosciuta quella che animò le loro azioni da quel momento in poi.
Quando ritornarono a guardarsi attorno, ormai abituati alla fioca luce di una lampadina avvolta in una barba di polvere compatta, erano fuori dal loro tempo. Aprirono una vecchia cassapanca. Dentro c’era una carta a fiori sbiadita. La cassa era piena di vecchi abiti.
Ludovica trasse dal ventre di quel relitto e li indossò un cappellino nero con la veletta a pois dello stesso colore, un tubino di velluto con una rosa a mò di fibbia sulla cintola; il fratello scavando accanto a lei, trovò un paio di scarpe decolté, tacco a spillo, e in una scatola di latta adagiata sul fondo, una lunga collana di perle bianche. Sotto, piegati e avvolti in una busta trasparente, dei guanti candidi, lunghi come due braccia di panna lucida.
Eccola, davanti allo specchio, con la mano destra aperta sul cuore: Ludovica.
“Lorenzo metti un disco sul grammofono “ gli chiese di fingere.
“ Che cos’è il grammofono?”
Glielo indicò languida con un cenno della piccola mano guantata.
“Tu metti questi”  un cappello nero e una cravatta a rombi grigi e neri.
Danzavano davanti allo specchio, caracollanti e spavaldi, padroni  di quel loro tempo fuori dal tempo, perfettamente a loro agio nell’enormità di quegli abiti fuori misura.

“Zia Ester abbiamo giocato con i vestiti in soffitta”.
“Me ne sono accorta, avete lasciato tutto in disordine; le patatine scottano fate piano”.
“Ci sei andata anche tu?”
“Si vorrei fare una fotografia a quel vecchio grammofono, ci facciamo un bel quadro, vi piace l’idea? Anzi, ne facciamo due e uno lo regaliamo al vostro maestro  di musica, che ne dite?”
“E’ più bello lo specchio”.
“Come mai ti piace quel vecchio specchio?”
“Non lo so, chiedi a Ludovica”.
“Perché lo specchio parla”.
Ridevano, felici di poter dire tutto quello che gli passava per la testa. Con i genitori non sarebbe stato possibile.
“Lo specchio parla, interessante, e cosa dice?”
Soffocavano le risate riempiendosi la bocca di patatine fritte.
“Lo specchio si conserva le persone”.
“Come le fotografie vuoi dire?”
“Sì”.
“Se ci passi davanti lui poi si ricorda e se ci passi dopo tanto tempo lui poi ti fa vedere com’eri”.
“Meraviglioso, avevamo uno specchio magico in soffitta e non lo sapevamo, dovrò informare zio Valerio appena tornerà”.
“Ma non fa vedere tutti, solo quelli belli, non si ricorda mica di tutti”.
“Di te si ricorderà Lorenzo, perché secondo me sei proprio bello”.
“Ma perché tu sei zia Ester“.
E scoppiarono in una risata con uno spruzzo pirotecnico, alto, di patatine e d’infanzia.

Erano passati trent’anni da allora; quei due bambini avevano vissuto gran parte della loro vita, dei loro sogni, giochi, conquiste, compleanni, vittorie, sconfitte, a casa degli zii, al riparo dalla disfatta dei loro genitori.


Ludovica si ritrovò davanti alla porta di quella casa. Ci era arrivata senza averlo neanche deciso. I ricordi le vennero subito incontro come cani festosi. Bussò. Attese.
 La vecchia governante aprì, la guardò. Non la vedeva da un anno. La fece entrare.
“Zia Ester come sta?” chiese.
 “Quasi sempre seduta sulla sua poltrona negli ultimi tempi. Non ha niente di particolare, il dottore dice che è solo stanca.”
“Adesso sa?”
“No. Mi dispiace per suo fratello signorina, mi è dispiaciuto molto.”
Chiese di vederla.
Percorsero l’ampio corridoio, poi la scala. Oltrepassarono due finestre, aperte sul chiacchierio degli alberi e del vento appena venuto dal mare. Arrivarono davanti ad una porta socchiusa. La governante la guardò per un attimo lunghissimo. Ludovica era di nuovo lì. Dopo tanto tempo. Se ne andò.
Dormiva. Di spalle alla porta, rivolta verso la finestra. Zia Ester dormiva. Ludovica le si sedette accanto, meravigliandosi di tutto lo spazio che quel piccolo corpo lasciava vuoto. L’accarezzò a lungo, le raccontò tante cose, a bassa voce, concitatamente, come faceva quando era piccola e non vedeva l’ora di essere consolata.
Zia Ester era bravissima a consolare i bambini cantando:

C’era una volta un drago
 Che cadde dentro un lago
 Fece una capriola
 E si schiarì la gola

La cosa lo fece ridere
Ma ridere di cuore
Non pianse neanche un po’
E il dolore gli passò.

Ludovica si assopì e quel sonno fu come un punto alla fine di un lungo periodo. Uscì dal suo tempo per entrare in un tempo rallentato, denso, il tempo in cui viveva zia Ester.
Sognò, in un dormiveglia sudato. Era di nuovo piccola, correva su di una scala, era la casa di zia Ester, la riconobbe dal grande quadro con la foto del grammofono appesa nel salone subito a destra dell’ingresso.
Correva, contava le scale otto nove dieci… quindici, aprì. La porta della soffitta si spalancò, lei entrò, di nuovo concitata, non diede  il tempo ai suoi occhi di abituarsi al buio né alle sue mani di cercare l’interruttore della luce, inciampò, riuscì a non cadere, saltellando recuperò l’equilibrio, trovò l’interruttore e una luce fioca inondò volenterosamente la stanza lasciandone  comunque la metà in penombra.
Era lì davanti finalmente, davanti allo specchio.  Era quello che stava cercando. Affannata per la corsa guardava,  respirando velocemente, la sua immagine riflessa. Vedeva un vestito a fiori rossi, gialli, un corpetto stretto su di una gonna ampia a pieghe. I calzini bianchi con il merletto sull’orlo e le scarpette rosse con la cinghietta a forma di farfalla. Il cerchietto rosa nei capelli biondi a caschetto e gli occhi pieni di lacrime.
Chiamava qualcuno guardando dentro lo specchio, come se si aspettasse di vederlo comparire all’improvviso sorridendo: “Dai non piangere, volevo solo farti uno scherzo”. Aveva già sognato quella scena molte volte.

 Si svegliò. La  vide seduta sulla poltrona di fronte alla finestra ma non guardava fuori, guardava lei e sorrideva, per niente meravigliata di vederla lì.
“Ciao. Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester.  Come stai? Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?”
“Che ore sono?”
“Non lo so”.


Camminavano lentamente, sul lungomare.
“ Non sono venuta a trovarti prima perché i tuoi dottori mi hanno detto che dovevi riposare. Adesso come stai?”
“Lorenzo non è venuto?”  Rispose, come se non avesse proprio sentito.
“No, zia Ester.  Non verrà”  aggiunse, sentendosi quasi colpevole.
“Non avete concerti da studiare?“

Non suono più . Lorenzo è morto. Il suo violoncello e il mio violino sono chiusi in soffitta, a casa tua.
“No, adesso no. Cosa fai tutto il giorno, viene a trovarti qualcuno?”
La guardò con un sorriso che chiedeva la sua complicità, forse. Stiamo in silenzio, sono tanto stanca.
Camminavano così, vicine, appoggiate l’una all’altra, come due tessere spaiate di un puzzle inghiottito dal vento.
 “Ho sognato che Lorenzo era furioso con te perché avevi rotto il violino: lo hai rotto veramente?”
Non suono più. Avrebbe voluto dirglielo. Zia Ester Lorenzo è morto. Il suo violino e il mio violoncello sono chiusi adesso. Lorenzo è morto e con lui zio Valerio, tuo marito. Stesso incidente. Tu non ti ricordi. La notizia della morte di tuo marito, dicevano i medici, ti aveva smarrita. E’ facile smarrirsi senza luce. Le persone come Lorenzo e zio Valerio se ne stanno lì, con quella loro meravigliosa grandezza, con tutta quella luce che gli avanza, leggeri come grappoli di lucciole. Quando si spengono non c’è più rimedio alla notte nel loro mondo, le tenebre divorano velocemente anche l’ultimo avanzo di quello splendore. Ci siamo persi in questo buio: io, tu, i miei genitori; a proposito, si sono separati, li vedo poco. Io mi sono messa dentro una vita qualunque, come un vestito tirato su in fretta, il tempo di chiudere una lampo, un lampo, corto circuito di una vita e il dolore piegato piccolo in qualche angolo del cuore, sperando di dimenticarlo lì, sotto un cumulo di altri ricordi.
Zia Ester, sono finalmente qui, , a ricordarmi chi sono, perché ho capito che se apro gli occhi la notte si rischiara.
La sentì tremare, capì che doveva riportarla a casa.
La riaccompagnò alla sua poltrona.
“Ludovica”.
“Sì?”
“Lorenzo verrà con te la prossima volta?”
“No, zia Ester.  Non verrà”, aggiunse a bassa voce.
S’incamminò verso la porta, le sembrava di aver lasciato il filo del suo aquilone.
“Ma io tornerò, non volare troppo lontano perché io ritornerò.”
Salì in soffitta, la porta era socchiusa. Entrò. Cercò le custodie dei loro strumenti, le trovò quasi subito. Le portò accanto alla specchio, le aprì.
Accarezzò le corde , una ad una, le riconosceva dallo spessore, con una familiarità intima, straziante. Le lasciò così, le custodie aperte, di nuovo esposte all’oltraggio del tempo e della polvere. Sarebbe stata costretta a tornare per occuparsi, ogni volta, di quello che rimaneva.
Uscì. Era ora di tornare a casa. Francesco la stava aspettando.

Zia Ester guardava il mare ora. Un pianeta azzurro apparentemente sempre uguale di cui lei conosceva ogni increspatura. Da qualche tempo stava studiando di quanti colori può essere: azzurro, blu, indaco, cobalto, bianco.
C’era un azzurro, che il mare indossava pochi attimi dopo certe albe. Era poco più di un’ombra: bisognava avere occhi attenti e una certa esperienza per riuscire a scoprirlo. Lei lo aveva visto dopo tanto tempo che scrutava.
Lo vide un giorno e la dolcezza di quella visione non le lasciò dubbi sul nome da dare a quell’azzurro.













     


2
Sentimentale / Ludovica ( nuova versione)
« il: Ottobre 18, 2012, 19:49:45 »

 


Ludovica



Lo guardava vestirsi come un officiante meticoloso. Era seduta sul bordo del letto. Non poteva fare niente per lui così, si mise a seguire la lenta discesa di una goccia d’acqua sui vetri: l’ultimo scroscio di pioggia l’aveva lasciata lì, sola, come un’invitata di una festa finita all’improvviso.
Suo marito uscì mentre lei era ancora seduta sul bordo del letto.
“ Oggi non vado a lavorare”; quella possibilità balenò all’improvviso nella sua mente.
“ Non vengo oggi, ho la febbre” disse al telefono. Faceva la segretaria in un centro diagnostico. Si vestì in fretta. Uscì.
Il bar di Luigi era ancora chiuso, da tre giorni ormai,  strano, è scappato anche lui, pensò. L’assenza di Luigi le fece sentire più forte la sua inadeguatezza: anche lei non era dove avrebbe dovuto essere.
Recuperò la sua auto dal garage, si diresse verso il litorale. Non viaggiava su quella strada da molto tempo. Fu felice di ritrovarla intatta, così come l’aveva
vista l’ultima volta, quella sera : 365 giorni sono molti anche per la vita di una strada, in un anno può cambiare qualunque cosa, basta anche un giorno o un  minuto a volte.
Il mare quella mattina mostrava il suo volto più pudico, sembrava capace solo di guardare le onde ricorrersi sul bagnasciuga,. Non era così. Lei lo sapeva, lo conosceva bene cioè conosceva i suoi umori e la sua forza.  Mentre lo guardava dallo specchietto retrovisore provava la stessa tenerezza incredula di chi ritrova una persona amata creduta persa per sempre.
Ludovica amava il mare. Aveva trascorso tutte le vacanze della sua infanzia alla casa al mare di zia Ester e zio Valerio, con suo fratello Lorenzo. Non avevano cugini, i loro zii non avevano figli e i loro genitori erano sempre alle prese con i lavori in corso del loro matrimonio sempre da riparare. Glieli affidavano volentieri durante il periodo estivo.
Zia Ester allora era una donna di trentacinque anni, piccola di statura con un corpo sottile: piccole caviglie,piccoli polsi, piccole dita. Una miniatura armonica. Negli occhi neri, uno sguardo malinconico, come un presagio o una notte di fine estate.
Zio Valerio la sovrastava, era un uomo altissimo, poderoso.  Un ingegnere edile con la passione per le immersioni subacquee.
Le favole che raccontava ai suoi nipoti erano tutte ambientate in Malaysia, erano le storie vere delle sue immersioni in quella terra in cui era ritornato mille volte,  dove aveva scattato miriadi di fotografie e ne aveva tappezzato tutte le case in cui aveva vissuto. Voleva ricrearsi attorno quel mondo sommerso in cui si sentiva pacificato e fluido, lui così spigoloso e inarrivabile che quando parlava dei fondali marini si commuoveva di un’emozione infantile e arresa. I bambini conoscevano il pesce mandarino che compie la sua danza proprio sotto la superficie dell’acqua, i coralli di Sipadan e gli squali dalla pinna bianca, le seppie giganti e i grossi pesci pappagallo dalla fronte gibbosa.

La loro era una casa enorme. Ogni suo frammento  si animava all’arrivo dei bambini, la loro energia era una corrente sanguigna che cominciava a scorrere dalla cantina e via via accresceva il suo impeto in altezza fino ad arrivare, come un’onda di vetro frantumata in mille schegge liquide, nella soffitta polverosa.
Il pavimento sconnesso con le piastrelle di ceramica blu con ancora qualche pretesa di bellezza, le cassapanche addossate ai muri con i loro lucchetti penzolanti invitanti, un vago alito di naftalina l’orlo di ragnatela sul bracciolo di una sedia a dondolo, un vecchio grammofono con il suo collo lungo di dinosauro e la bocca spalancata, e al centro, di quel luogo misterioso come una terra dimenticata, uno specchio, con le lentiggini di ruggine come orme di piccoli baci depositati dal tempo: questo, ai loro occhi , apparve, il primo giorno che la videro, quella soffitta.
Ludovica aveva otto anni, Lorenzo sei. Si guardarono nello specchio e furono  come trasportati altrove, forse nel doppiofondo segreto in cui erano precipitate tutte le immagini fino ad allora fugacemente riflesse. Era una  malia sconosciuta quella che animò le loro azioni da quel momento.
Quando ritornarono a guardare  attorno, ormai abituati alla fioca luce di una lampadina avvolta in una barba di polvere compatta, erano fuori dal tempo. Aprirono una vecchia cassapanca. Dentro c’era una carta a fiori sbiadita. La cassa era piena di vecchi abiti.
Ludovica trasse dal ventre di quel  relitto un cappellino nero con la veletta a pois dello stesso colore, e poi un tubino di velluto con una rosa a mò di fibbia sulla cintola; il fratello scavando accanto a lei sotto il velo invisibile del tempo trovò un paio di scarpe decolté, tacco a spillo e in una scatola di latta adagiata sul fondo,  una lunga collana di perle bianche. Sotto, piegati e avvolti in una busta trasparente, dei guanti candidi, lunghi come due braccia di panna lucida.
Eccola, davanti allo specchio, con la mano destra aperta sul cuore: Ludovica.
-   Lorenzo metti un disco sul grammofono – gli chiese di fingere.
-   Che cos’è il grammofono?
Glielo indicò languida con un cenno della piccola mano guantata.
-   Tu metti questi- un cappello nero e una cravatta a rombi grigi e neri.
Danzavano davanti allo specchio, caracollanti e spavaldi, padroni  di quel loro tempo fuori dal  tempo, perfettamente a loro agio nell’enormità di quegli abiti fuori misura.

-   Zia Ester abbiamo giocato con i vestiti in soffitta
-   Me ne sono accorta, avete lasciato tutto in disordine; le patatine scottano fate piano
-   Ci sei andata anche tu?
-   Si vorrei fare una fotografia a quel vecchio grammofono , ci facciamo un bel quadro, vi piace l’idea? Poi la regaliamo al vostro maestro  di musica, che ne dite?
-   E’ più bello lo specchio
-   Come mai ti piace quel vecchio specchio?
-   Non lo so,chiedi a Ludovica
-   Perché lo specchio parla
Ridevano, felici di poter dire tutto quello che gli passava per la testa. Con i genitori non sarebbe stato possibile.
-   Lo specchio parla, interessante, e cosa dice?
Soffocavano le risate riempiendosi la bocca di patatine fritte.
-   Lo specchio si conserva le persone
-   Come le fotografie vuoi dire
-   Si
-   Se ci passi davanti lui poi si ricorda e se ci passi dopo tanto tempo lui poi ti fa vedere com’eri
-   Meraviglioso, avevamo uno specchio magico in soffitta e non lo sapevamo, dovrò informare zio Valerio appena tornerà
-   Ma non fa vedere tutti, solo quelli belli, non si ricorda mica di tutti
-   Di te si ricorderà Lorenzo, perché secondo me sei proprio bello
-   Ma perché tu sei zia Ester-
E scoppiarono in una risata con uno spruzzo pirotecnico, alto, di patatine e d’infanzia.

Erano passati trent’anni da allora; quei due bambini avevano vissuto gran parte della loro vita, dei loro sogni, giochi, conquiste, compleanni, vittorie, sconfitte, a casa degli zii, al riparo dalla disfatta senza resa dei loro genitori.


Ludovica quel giorno si ritrovò davanti alla porta di quella casa. Ci era arrivata senza averlo neanche deciso. I ricordi le vennero subito incontro come cani festosi. Bussò. Attese.
 La vecchia governante aprì, la guardò. Non la vedeva da un anno. La fece entrare.
“Zia Ester come sta?” chiese
“ Quasi sempre seduta sulla sua poltrona negli ultimi tempi. Non ha niente di particolare, il dottore dice che è solo stanca.”
“Adesso sa ?”
“ No. Mi dispiace, anche per suo fratello signorina, mi è dispiaciuto molto.”
Chiese di vederla.
Percorsero l’ampio corridoio, poi la scala. Oltrepassarono due finestre, aperte sul chiacchierio degli alberi e del vento appena venuto dal mare. Arrivarono davanti ad una porta socchiusa. La governante la guardò per un attimo lunghissimo. Ludovica era di nuovo lì. Dopo tanto tempo. Se ne andò.
Dormiva. Di spalle alla porta, rivolta verso la finestra. Zia Ester dormiva. Ludovica le si sedette accanto, meravigliandosi di tutto lo spazio che quel piccolo corpo lasciava vuoto. L’accarezzò a lungo, le raccontò tante cose, a bassa voce, concitatamente, come faceva quando era piccola e non vedeva l’ora di essere consolata.
Zia Ester era bravissima a consolare i bambini cantando:


C’era una volta un drago
 Che cadde dentro un lago
 Fece una capriola
 E si schiarì la gola

La cosa lo fece ridere
Ma ridere di cuore
Non pianse neanche un po’
E il dolore gli passò

Ludovica si assopì e quel sonno fu come un punto alla fine di un lungo periodo. Uscì dal suo tempo per entrare in un tempo rallentato, denso, il tempo in cui viveva zia Ester.

Sognò, o forse ricordò, in un dormiveglia sudato. Era di nuovo piccola, correva su di una scala, era la casa di zia Ester, la riconobbe dal grande quadro con la foto del grammofono appesa nel salone subito a destra dell’ingresso.
Correva, contava le scale otto nove dieci … quindici, aprì. La porta della soffitta si spalancò, lei entrò, di nuovo concitata, non diede  il tempo ai suoi occhi di abituarsi al buio né alle sue mani di cercare l’interruttore della luce, inciampò, riuscì a non cadere, saltellando recuperò l’equilibrio, trovò l’interruttore e una luce fioca inondò volenterosamente la stanza lasciandone  comunque la metà in penombra.
Era lì davanti finalmente, davanti allo specchio.  Era quello che stava cercando. Affannata per la corsa guardava  respirando velocemente la sua immagine riflessa. Vedeva un vestito a fiori rossi, gialli, bianchi, le spalline larghe, un corpetto stretto su di una gonna ampia a pieghe. I calzini bianchi trasparenti con il merletto sull’orlo e le scarpette rosse con la cinghietta attaccata ad un bottone a farfalla. Il cerchietto rosa nei capelli biondi a caschetto, a onde  morbide arruffate dalla corsa, e gli occhi pieni di lacrime.
Chiamava qualcuno guardando dentro lo specchio, come se si aspettasse di vederlo comparire all’improvviso sorridendo: - Dai non piangere, volevo solo farti uno scherzo-

 Si svegliò la vide seduta sulla poltrona di fronte alla finestra ma non guardava fuori, guardava lei e sorrideva, per niente meravigliata di vederla lì.
“ Ciao. Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester.  Come stai? Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?”
“Che ore sono?”
“Non lo so”.


Camminavano lentamente, sul lungomare.
-   Non sono venuta a trovarti perché i tuoi dottori mi hanno detto che dovevi riposare. Adesso come stai?-
“Lorenzo non è venuto?” Rispose, come se non avesse proprio sentito.
“No zia Ester.  Non verrà.”  Aggiunse, sentendosi quasi colpevole.
-   Non avete concerti da studiare?-

Non suono più . Lorenzo è morto. Il suo violoncello e il mio violino sono chiusi in soffitta, a casa tua.
-   No, adesso no. Cosa fai tutto il giorno, viene a trovarti qualcuno?-
La guardò con un sorriso che chiedeva la sua complicità, forse.
 Stiamo in silenzio, sono tanto stanca.
Camminavano così, vicine, appoggiate l’una all’altra come due tessere spaiate di un puzzle inghiottito dal vento.
 “Ho sognato che Lorenzo era furioso con te perché avevi rotto il violino: lo hai rotto veramente?”
Non suono più. Avrebbe voluto dirglielo. Zia Ester Lorenzo è morto. Il suo violino e il mio violoncello sono chiusi adesso. Lorenzo è morto e con lui zio Valerio, tuo marito. Stesso incidente. Tu non ti ricordi. La notizia della morte di tuo marito, dicevano i medici, ti aveva smarrita. E’ facile smarrirsi senza luce. Le persone come Lorenzo e zio Valerio se ne stanno lì, con quella loro meravigliosa grandezza, con tutta quella luce che gli avanza, leggeri come grappoli di lucciole. Quando si spengono non c’è più rimedio alla notte nel loro mondo, le tenebre divorano velocemente anche l’ultimo avanzo di quello splendore. Ci siamo persi in questo buio: io, tu, i miei genitori; a proposito, si sono separati, li vedo poco. Io mi sono messa dentro una vita qualunque, come un vestito tirato su in fretta, il tempo di chiudere una lampo, un lampo, corto circuito di una vita e il dolore piegato piccolo in qualche angolo del cuore, sperando di dimenticarlo lì, sotto un cumulo di altri ricordi.
Zia Ester, sono finalmente qui, , a ricordarmi chi sono, perchè ho capito che se apro gli occhi la notte si rischiara.
La sentì tremare, capì che doveva riportarla a casa.
La riaccompagnò alla sua poltrona.
“Ludovica”
“Si”
“Lorenzo verrà con te la prossima volta?”
“No zia Ester.  Non verrà”Aggiunse a bassa voce.
S’incamminò verso la porta, le sembrava di aver lasciato il filo del suo aquilone.
“Ma io tornerò, non volare troppo lontano perché io ritornerò.”
Salì in soffitta, la porta era socchiusa. Entrò. Cercò le custodie dei loro strumenti, le trovò quasi subito. Le portò accanto alla specchio, le aprì.
Accarezzò le corde , una ad una, le riconosceva dallo spessore, con una familiarità intima, straziante. Le lasciò così, le custodie aperte, di nuovo esposte all’oltraggio del tempo e della polvere. Sarebbe stata costretta a tornare per occuparsi, ogni volta, di quello che rimaneva.
Uscì. Era ora di tornare a casa. Francesco la stava aspettando.

Zia Ester guardava il mare ora. Un pianeta azzurro apparentemente sempre uguale di cui lei conosceva ogni increspatura. Da qualche tempo stava studiando di quanti colori può essere: azzurro, blu, indaco, cobalto, bianco.
C’era un azzurro, che il mare indossava pochi attimi dopo certe albe. Era poco più di un’ombra: bisognava avere occhi attenti e una certa esperienza per riuscire a scoprirlo. Lei lo aveva visto dopo tanto tempo che scrutava.
Lo vide un giorno e la dolcezza di quella visione non le lasciò dubbi sul nome da dare a quell’azzurro.








     



3
Sentimentale / Alina
« il: Settembre 25, 2012, 11:00:21 »
                   



Alina


Quella notizia in prima pagina Luigi non l’aveva ancora letta.

Era un bar accogliente il suo, fasciato dalla musica jazz di cui amava il sound vellutato, dalle chiacchiere dei numerosi avventori, dall’arcobaleno dei cocktails, dalla vista, proprio di fronte, delle barche sulla spiaggia: sembrava la siesta di enormi cetacei a riposo, fuori dal mondo come sogni mai realizzati.

La notizia era sul quotidiano lasciato aperto, su quel tavolino, l’ultimo in fondo al locale.

Di Luigi appena entravi vedevi il sorriso, poi i capelli neri lunghi sul collo. Aveva mille di tutto: parole, risate, mani; dirigeva da solo l’orchestra del suo bar, una Dixieland caciarona e goliardica.
Solo qualche volta, in certe ore del tramonto, Luigi guardava le barche capovolte sulla spiaggia, immobile, pensando a chissà cosa, a chissà chi.
Si sedette a leggere il giornale nel pomeriggio. Il bar quasi deserto era un ventre vuoto, mentre un incantesimo di silenzio lo avvolgeva.
Avevano ferito una prostituta, in un paese a 700 km. da lì; Alina Dubrovsna. La foto. L’efferatezza. L’edificio della notizia costruito piano su piano. Lui si era fermato alla fotografia, appena sotto l’urlo del titolo. Quell’immagine aveva spalancato la porta dei suoi ricordi e si era ritrovato seduto ad un altro tavolo, di un altro bar, a leggere un altro giornale: Breslavia, agosto 2000, primo mattino, ultimi giorni di ferie.


Era rimasto solo, gli amici con cui era partito, erano ritornati in Italia il giorno prima. Lui aveva deciso di restare un’altra settimana, voleva vagabondare senza orari, senza nessuno con cui dover continuamente negoziare mete  o altro.
Quella mattina, si era alzato presto, alloggiava all’ostello Meleczani adesso. Era un luogo caldo e informale, le stanze si raggiungevano salendo una scala di legno mentre la hall era in realtà un grande salone organizzato ad angoli: l’angolo del computer, l’angolo della lettura. Lui li chiamava così. Era un via vai di gente continuo, Luigi si sentiva a suo agio in quel luogo, all’Art Hotel, dove aveva alloggiato con gli amici, si era sentito a disagio, gli alberghi non gli piacevano.
Quella mattina aveva deciso di visitare il vecchio edificio della Hala Targova, all’interno del quale si teneva il mercato: alimentari, salumi, dolci, frutta e verdura, si presentarono ai suoi occhi, colorandoli di un arcobaleno fresco che sembrava chiamarlo. Le bancarelle si contendevano la sua attenzione, al pari dei venditori che lo invitavano,dicendo chissà cosa, a provare le loro mercanzie profumate. Luigi sapeva solo dire Dziekje, grazie, e continuava a ripeterlo, veramente grato perché sentiva che quella città gli si stava finalmente concedendo, con i colori del suo cibo, le voci che parlavano quell’idioma impossibile, irto di consonanti eppure dolce nell’intonazione, gli odori forti provenienti dai ristoranti e dai pub disseminati ovunque, continui attracchi accoglienti accanto all’acqua dell’Oder, che, silenziosa, scorreva a poca distanza da lì.
Percorso tutto il mercato, a destra dell’entrata, trovò il Bar Mleezny, dalla sua inseparabile guida aveva appreso che in quella tavola calda servivano degli ottimi pierogi, ravioli pieni di carne, cavolo, funghi, ricotta e a richiesta frutta fresca.  Entrò, si sedette. Si mise a guardare un giornale che qualcuno aveva dimenticato sul tavolo.
Qualche giorno prima, passando con i suoi amici, aveva visto una cosa straordinaria su quel tavolo: una grossa ciotola di mollica di pane, sembrava una pentola di terracotta smaltata: lucida, stesso colore, stessa forma, una pentola con tanto di coperchio. La guida gli aveva raccontato che dentro quella ciotola c’era lo zurek, segale fermentata e salsiccia.
Avrebbe voluto fermarsi davanti a quella meraviglia ma gli amici lo avevano portato via a vedere chiese, bellissime, austere, imperdibili, le pentole di pane potevano aspettare.

Lo guardava con aria interrogativa quella cameriera, forse gli aveva già chiesto qualcosa e lui, assorto, non aveva sentito.
 La guardò. Ordinò un cappuccino e riuscì ad ottenerlo nonostante il suo inglese stentato.
Quando si alzò per andare alla cassa a pagare si accorse che lo guardava.
Uscendo, la vide al banco da sola, lavava i bicchieri.
“What’s your name?”
“Alina”
Aveva una sguardo che ricordava qualcosa di solido, una forza verde, compatta.
“I’m Luigi “
Si accorse di ritornare sempre in quel bar solo quando un giovane cameriere, in un inglese più stentato del suo, gli disse:
“I’m sorry mister, your table it’s taken “
Non si era accorto di avere qualcosa di suo in quel posto: ”Il suo tavolo è occupato.”
“Do you like that? “
“Yes, thanks. “ Si grazie, va bene un tavolo qualunque pensò; sceglievo sempre l’altro perché è lì che l’ho vista la prima volta, è stato come rimettere una canzone sempre da capo, sempre dall’inizio.
Cominciarono a vedersi dopo il lavoro. Passeggiavano, senza dirsi molto, conoscevano troppo poco l’unica lingua nota ad entrambi per metterci dentro sensazioni troppo intime.
La prima volta che si videro fuori da quel locale si diedero appuntamento nella piazza del Mercato.
Luigi era arrivato in anticipo: agosto, domenica mattina, ore 10.30.
Il municipio gotico al centro della piazza pretese la sua attenzione, quella magnificenza solida e solenne lo portò per un attimo via da lì, da quell’emozione intima, quasi negata, che provava per quell’incontro.
Stava per consultare la sua guida quando la vide: capì che non l’avrebbe mai raggiunta veramente, era forte e distante come quel monumento bellissimo.
Cominciarono a camminare; arrivarono fino all’università, attraversarono l’Odra, in riva alla quale, videro lo gnomo lavandaio.
-   Little man – sorrise Alina
-   Goblin – corresse Luigi e le prese la mano. Lei gliela diede con naturalezza. Non avevano tante parole, cercavano dei gesti che potessero accorciare le distanze.
Arrivarono all’’isola della Cattedrale. Decisero di salire in cima alla torre della Cattedrale di san Giovanni Battista con la sua vista panoramica.
 Luigi era completamente sedotto da quella città, gli sembrava fuori dal tempo, la città delle fiabe remota e dichiarata inesistente da quelli che sanno le cose. E invece eccola lì, sotto i suoi occhi adulti da ragazzino: l’abbraccio eterno di quel fiume specchio magico di luce fresca, le casette di Hansel e Gretel, i castelli sicuramente pieni di fantasmi e fate, le chiese con le guglie dritte puntate senza paura verso il cielo, i giardini silenziosi dove forse di sera tornavano ad abitare le piccole anime di tutti gli gnomi disseminati per la città.
Gli sembrava tutto innocente e luminoso come il  bacio improvviso dato a quella donna e con lei a quella terra di una bellezza commovente.
Si abbracciarono. – Yu’re beautiful likeWroclaw, you’re moving”
“ Wher’re you from?”
“ Salerno, it is like Wroclaw, waterfront, near the sea. My home pressed to the port”
“ Very nice”
“One day  y ou’ill come to see you?”
“ Yes, someday, maybe” sorrise.

Luigi se ne innamorò con la stessa luminosa lentezza dell’olio che scivola denso nell’imbuto.
La scopriva, piano piano, come un regalo a lungo atteso di cui non si vuole rovinare l’involucro.
 Non bastava guardarla, Alina andava esplorata dentro i suoi innumerevoli sguardi, nel sorriso morbido e raro, nella curva dolce del collo, nelle mani magre, nei cambiamenti d’umore irragionevoli come la sua vita sempre altrove, sempre un po’ più in là: - Un giorno andrò...Tra un anno avrò abbastanza denaro per…-
Alina non era piccola era sottile, di una piccolezza proporzionata, resa illusoriamente più grande dal granito dello sguardo.
Si lasciava amare, indulgente verso un gioco che non la coinvolgeva molto. Lei era più simile ad un giocatore di scacchi, teso, sotto l’assedio dell’avversario. Era costantemente alla ricerca di un varco, mentre la vita le urlava contro con la povertà e il suo squallore, la volgarità di certi uomini al bar, il silenzio della sua famiglia smembrata e invisibile.
Era la primogenita di cinque figli. Il padre Michael, era un insegnante polacco che parlava bene l’inglese. A 45anni aveva lasciato la scuola e si era messo a fare il tassista e il private driver per i turisti. Dopo due anni di quel lavoro se n’era andato in Irlanda con una turista intraprendente che lo aveva convinto a seguirla. Si era fatto convincere perché a Michael piacevano i colpi di testa, gli davano più adrenalina del sesso, delle gare di bevute di vodka o di qualunque altra cosa: mollare tutto e rilanciare, partire alla conquista di qualcosa d’inesplorato, ecco cosa lo faceva sentire vivo. Se ne andò.
Scomparve un giorno dopo aver consegnato una lettera ad Alina, dodicenne, raccomandandole di darla alla madre: - E’ per tua madre, dagliela. Ciao. Tieni aperta la porta, ho le mani impegnate”. Dalle valigie. Perché papa’ ha le valigie?
“ Papà dove vai?” Era già in fondo alle scale. L’unica risposta, il portone che si chiudeva.
La madre ricamava sul lino: camicie, centrini, lenzuola, tendaggi. Aveva un negozietto nella città vecchia. La porta del negozio si raggiungeva salendo quattro scalini. Sul primo, era appoggiato un cesto di vimini con dei fiori freschi immersi in un vasetto di vetro. La mamma di Alina li comprava ogni giorno. Poi apriva il suo negozietto e d’estate si metteva sulla porta a ricamare. Si chiamava Pedra ma quel nome non le stava bene, era un nome troppo duro per lei, lei era un filo sottile, intrecciato in infiniti arabeschi di filo colorato sulla stoffa ruvida della vita.
Quando lesse la lettera di Michael non disse nulla. Pioveva quel giorno, Pedra indossò di nuovo l’impermeabile e si diresse verso la porta:- Alina apparecchia, i tuoi fratelli tornano affamati da scuola lo sai- la bambina avrebbe voluto seguirla ma lei era già sulle scale.
La ritrovarono la sera stessa, sulle rive dell’Odra, ci era arrivata volando da un ponte. Il filo si era spezzato.
I fratelli di Alina finirono in Istituto. Alina venne affidata ad una zia materna che lavorava come cameriera in un ristorante, era vedova.
Alina era una terra deserta ora, sopravvissuta ad una geografia familiare cancellata, divorata, estinta.
Si mise a lavorare con la zia: erano due donne sole, con poco denaro e tanta voglia di averne per potersi comprare qualche altro giro sulla giostra della
Erano passati dieci da allora quando Luigi se ne innamorò. Viveva nei confini del suo corpo, si nutriva di lei, la spiava mentre lavorava, la guardava respirare piano mentre di notte dormiva, la schiena nuda illuminata dalla luna.

Fu costretto a partire dopo un mese; lei lo avrebbe raggiunto, erano d’accordo.
La lasciò a malincuore mentre continuava a salutarla dal treno.

Glielo disse al telefono, dopo sei mesi: “ Do not look for more”
“ Non mi cercare più”. Aveva trovato come venire In Italia, un modo, uno dei tanti, ma era una strada che doveva percorrere da sola.
La faceva ridere quell’uomo al bar con tutte quelle balle che le raccontava sull’Italia, descritta come una terra promessa piena di lavoro,soldi, amore. Il loro amore. Alina lo sapeva benissimo cosa l’aspettava, voleva lavorare in proprio però; lo aveva deciso una notte in cui non riusciva a dormire, la zia russava nel letto accanto al suo e l’anta cadente della credenza  così vicina al suo letto le era sembrata oscena, insopportabile. Quell’uomo l’avrebbe traghettata fino all’Eden, a sue spese, poi ci avrebbe pensato lei ad organizzarsi.
Se ne andò come il padre, una sera, all’improvviso, il tempo di una telefonata:
“ Do not look more” , non mi cercare più…
Luigi aveva imparato dal suo bar a vedere le persone entrare, consumare, uscire dalla sua vita. A volte tornavano, altre no.  Se ne fece una ragione. Se ne fece una ragione ma ci pensava, forse, in quelle ore del tramonto.

La zia non provò nemmeno a cercarla o a denunciarne la scomparsa. Tirò dritta per la sua strada come un ladro inseguito dalla polizia, preoccupato di mimetizzarsi tra la folla, di non destare sospetti. Voleva evitare di irritare la vita chiedendole spiegazioni e attrarre così altre sfortune.
Niente eroismi e che ognuno badi a se stesso. Questo pensava , mentre guardava la strada vuota, dalla finestra di quel monolocale sfiancato e logoro di cui non si riusciva ad immaginare un tempo in cui era stato nuovo, imbiancato di fresco, i mobili con il talloncino della fabbrica ancora attaccato, allineati e dritti come abiti con l’etichetta appesa, chiusi nell’armadio per le grandi occasioni.
Alina era arrivata in Italia. Si era mostrata docile e collaborativa per limitare le aggressioni e le violenze, aspettava un’occasione per scappare. L’avevano accoltellata un mese dopo, un cliente squilibrato e fradicio d’alcol, convinto che lei l’avesse derubato.
L’aveva lasciata per strada. Qualcuno aveva chiamato un’ambulanza e se n’era andato.


Luigi partì la sera stessa, a mezzanotte. Risalire su di un treno fu come riprendere a raccontare una storia lasciata a metà: allora… Partì. Non pensava a niente, non temeva niente, non sperava nulla. Andava. Come se fosse l’unica cosa possibile, tollerabile, capace di allentare quella tensione profonda, quell’attesa, che lo aveva colto ogni sera prima di allora, guardando le barche capovolte sulla spiaggia orfane del mare.
Arrivò alle otto del mattino dopo. Un taxi lo condusse da lei.
C’erano dei poliziotti. Fecero un sacco di storie: documenti, domande, perquisizioni.
Quando la vide lo colpirono gli occhi, un po’ rossi ai lati delle palpebre, come quelli dei bambini che hanno appena finito di piangere.
Dormiva. Luigi pensò alla bassa marea che ti restituisce tutto quello che il mare prende, basta essere lì, come in un bar, con la porta aperta tutti i giorni sul mondo.
Si sedette. Non fece nulla. Non parlò. Non la toccò. Voleva solo essere lì al suo risveglio.
Quando si svegliò lo vide lì accanto, stropicciato di stanchezza e di dispiacere; chissà perché pensò allo gnomo lavandaio, un puntino accanto alla vita profonda del fiume, fermo, come una stella del Nord.












4
Sentimentale / Beatrice
« il: Luglio 02, 2012, 23:16:47 »

Beatrice


Beatrice sonnecchiava mentre l’oratore continuava a cantilenare la sua soporifera sapienza. “E’ un uomo attraente”  pensò, tanto per dare ai suoi occhi un valido motivo per rimanere aperti.
“ La cultura Maya, a differenza di quella Azteca…”, non era tanto quello che diceva a non essere interessante ma quella sua fissità da psicofarmaco, da lifting estremo, quell’umettarsi le labbra fuori tempo, nel bel mezzo della frase, che provocava una rovinosa caduta massi delle sue parole, un avvitamento del senso, un punto e a capo sfiancante senza nemmeno l’oasi dei tre puntini: Basta. Me ne vado.
 Beatrice se ne andò, senza riuscire a non farsi notare. Ecco una cosa che proprio non le riusciva: passare inosservata.
Era maldestra, continuamente in rotta di collisione con persone, oggetti, animali e perfino con se stessa. Forse per questo aveva scelto di diventare archeologa
“Mi trovo più a mio agio con i morti che con i vivi” continuava a ripetere, suscitando un’ilarità che non finiva mai di stupirla:
  Che ho detto di tanto divertente? si chiedeva.  Lei era così e il mondo continuava a franarle addosso senza chiederle scusa, anzi, ostinandosi a ripeterle: “E stia un po’ più attenta.”
Beatrice se ne tornò a casa. Aveva ancora  dieci giorni di ferie da dover vivere con i vivi prima di poter tornare ai suoi scavi, nei suoi mondi sotterranei, dove poteva finalmente rallentare e trovare il suo vero ritmo, quel “ maneggiare con cura”  più adatto alla sua sensibilità assorta, visionaria.
Era entrata da poco in casa, una casa enorme dove la sua goffaggine la smetteva finalmente d’inciampare, quando sentì bussare alla porta. Strano, non aspettava visite. Aprì sbadatamente, senza chiedere chi fosse, era curiosa: chi poteva essere a quell’ora?
Cloe era alta 1,20 circa, aveva i capelli rossi, lunghi fino alla cintola dei suoi jeans con le toppe ricamate, le mani a riposo nelle tasche del pullover blu con il cappuccio.
“Mia madre non risponde, posso guardare dal suo balcone se per caso è fuori a stendere i panni?”
Beatrice la guardava come se fosse il fantasma di Ramses II.
“Allora, posso?”
“Certo, certo” e finalmente si spostò per farla entrare.
Proprio in quel momento due carabinieri uscirono dall’ascensore accompagnati da Albino.
“Sei qui Cloe? Questi due signori ti devono parlare” sorrideva Albino, senza riuscire a dissimulare la sua preoccupazione: era chiaramente sconvolto.
La bambina non si mosse. Beatrice continuava ad urtare contro lo stipite della porta nel tentativo di guadagnare qualche centimetro di pianerottolo alla sua visuale. Sarebbero potuti rimanere così per sempre se non fosse intervenuto il portiere:
“Signora Beatrice permettete che entriamo un momento? Non sono cose da dirsi sul pianerottolo”. Sorrideva bonario ma ormai era chiaro a tutti che quel giorno, quel tempo, non era più un tempo qualunque.
Entrarono in casa. Si accomodarono nell’ampio salone abbracciato da una libreria che costeggiava completamente il muro sia in altezza che in lunghezza: un’opulenza letteraria avvolgente. Scorreva una cascata di parole,  silenziosamente, ininterrottamente, da quella parete a terrazze, mentre piccole grotte naturali, dove il fruscio di quell’acqua forse arrivava un pò più smorzato, accudivano antiche  creature di carta.
I carabinieri capirono improvvisamente di trovarsi a casa di un’intellettuale, una scrittrice forse. Si aggiustarono istintivamente il colletto della camicia con il pollice e l’indice a pinza, sollevandosi leggermente sulle punte, quasi all’unisono.
Beatrice e Cloe sedettero sul divano rosso e i carabinieri sulle due poltrone di fronte. Albino preferì una sedia: sudava. Eppure era ottobre, un bell’autunno ambra, bronzo, carminio, oro, stava vivendo silenzioso oltre la finestra chiusa su quell’insolita riunione.
Dal racconto dei due carabinieri gli altri tre appreso qualcosa che li riguardava.
Cloe apprese che non avrebbe rivisto la madre per almeno dieci giorni.
Albino apprese che la signora in questione era scivolata, quella mattina stessa mentre si recava al lavoro, sul suo bell’androne lucido. Zoppicando, si era trascinata  al suo lavoro di colf poco distante, ma una volta lì, era stata immediatamente accompagnata all’ospedale. Frattura multipla, tibia e perone.
Beatrice apprese che la bambina non aveva parenti o amici a cui poter essere affidata durante la degenza della madre: sembrava impossibile ma la signora stessa aveva indicato proprio lei come unica possibile baby-sitter temporanea.
 La donna, argentina, vedova di  un uomo a cui Cloe doveva il colore dei capelli, viveva in Italia da sola, niente parenti, pochi amici. Se Beatrice rifiutava bisognava avvisare i servizi sociali.
Tutti, alla fine di quel breve ordinato resoconto, in un silenzio affollato di parole, guardarono Beatrice.
Albino la supplicò in silenzio di accettare e liberarsi al più presto dei carabinieri. Quella faccenda delle due gocce di cera sull’androne scottava sulla sua coscienza come un pollo sullo spiedo.
Cloe la supplicò in silenzio di accettare. Non voleva che fossero avvisati i servizi sociali, non sapeva nemmeno cosa fossero per la verità, ma la madre le aveva insegnato a non andare con gli estranei e i servizi sociali rientravano in quella categoria.
I carabinieri la supplicarono in silenzio di accettare. Era quasi ora di pranzo dopo tutto, perché complicarsi la vita con tante inutili scartoffie.
Insomma, nel rovescio di quel silenzio si era acceso un tifo da stadio, un clamore di piazze, uno strepito da fan di rock-star: tutti pazzi per Beatrice.
Beatrice si alzò. La ruggine primaverile splendeva sulle foglie umide del platano: pioveva silenziosamente.
Voleva dire di no ma finì col dire qualcosa che sembrava si.
I giorni che seguirono furono più semplici del previsto,  la presenza di Cloe era  solo una leggera increspatura sull’acqua della vita solitaria di Beatrice.
Cloe governava la sua vita di dodicenne con autorevolezza: il tempo, l’igiene personale, i compiti, la strada per andare e tornare da scuola, apparecchiare, sparecchiare, i panni sporchi, le visite alla madre, persino stirare e lavare i piatti avrebbe potuto fare da sola ma la governante di Beatrice non lo avrebbe mai permesso. Cloe allora le faceva  compagnia,  solo lei la capiva perché parlava spagnolo.
Cloe era una presenza leggera, una foglia autunnale luminosa dopo la pioggia, salda come quel vecchio ultimo platano.
Una sera Beatrice stava leggendo, mentre la bambina faceva i compiti seduta dietro l’enorme tavolo barocco situato al centro dell’ampio salone.
Beatrice sollevò lo sguardo dal suo libro e vide che Cloe, assorta, stava cercando qualcosa su di un vecchio vocabolario senza copertina.
Si ritrovò all’improvviso lei, dietro quel tavolo, a otto anni, a fare i compiti sotto la guida del padre.
La stanza avvolta dalla nicotina e il catrame bruciato. La bocca di fuoco dell’ eterna sigaretta del padre le si parò davanti agli occhi con la solita audacia disgustosa. Mellifluo fumo, voce melliflua, apparentemente bonaria ma insolente, apparente amore nell’insolenza delle mani, audaci, oscene.
Fittizio padre, invisibile orco. Le foglie cadevano, gocce silenziose, anche quel pomeriggio d’autunno.
Beatrice piangeva con il libro aperto sulle ginocchia, ancora sospesa tra due vite.
Cloe se ne accorse per caso, così, forse sollevando un attimo la testa o forse il dolore emette qualche suono sommesso, ma insomma, la vide. Corse ad abbracciarla.
Mangiarono la pizza quella sera e bevvero anche la birra, tanto il giorno dopo era domenica. Dovevano solo andare all’ospedale a prendere Isabela, la mamma di Cloe: tornava a casa.
   








PRIMAVERA





Non la smettevano più di discutere sul colore da dare alla parete.
Gli operai avevano appena finito di smontare la libreria, erano visibilmente esausti.
Vinse Cloe, come al solito: la mura bianche e il soffitto rosa. Il divano rosso e quell’enorme tavolo barocco arrogante sembrarono di un altro mondo adesso, niente a che vedere con quel cielo rosa appena immaginato.
Era il dieci marzo, avevano dieci giorni di tempo, Cloe compiva tredici anni il venti di quel mese, stavano preparando la festa di compleanno.
Dopo la festa, Beatrice mise sulla scrivania nuova quella foto regalo di Cloe:era un fiore di loto bianchissimo che emergeva da uno stagno fangoso. 
























5
Sentimentale / Ludovica
« il: Ottobre 23, 2011, 15:52:08 »

Ludovica



Lo guardava vestirsi come un officiante meticoloso. Era seduta sul bordo del letto. Non poteva fare niente per lui così, si mise a seguire la lenta discesa di una goccia d’acqua sui vetri: l’ultimo scroscio di pioggia l’aveva lasciata lì, sola, come un’invitata di una festa finita all’improvviso.
Suo marito uscì mentre lei era ancora seduta sul bordo del letto.
“ Oggi non vado a lavorare”; quella possibilità balenò all’improvviso nella sua mente.
“ Non vengo oggi, ho la febbre” disse al telefono. Si vestì in fretta. Uscì.
Il bar di Luigi era ancora chiuso, da tre giorni ormai,  strano, è scappato anche lui, pensò. L’assenza di Luigi le fece sentire più forte la sua inadeguatezza: anche lei non era dove avrebbe dovuto essere.
Recuperò la sua auto dal garage, si diresse verso il litorale. Non viaggiava su quella strada da molto tempo. Fu felice di ritrovarla intatta, così come l’aveva archiviata nella sua memoria: sei anni sono molti anche per la vita di una strada, sei anni possono cambiare qualunque cosa, bastano anche sei giorni o sei minuti a volte.
Si ritrovò davanti a quella porta. Ci era arrivata senza averlo neanche deciso. I ricordi le vennero subito incontro come cani festosi. Bussò. Attese.
 La vecchia governante aprì, la guardò. Non la vedeva da sei anni. La fece entrare.
“Zia Ester come sta?” chiese
“ Quasi sempre seduta sulla sua poltrona negli ultimi tempi. Non ha niente di particolare, il dottore dice che è solo stanca.”
“Adesso sa di Lorenzo?”
“ No. Mi dispiace per suo fratello signorina, mi è dispiaciuto molto.”
Chiese di vederla.
Percorsero l’ampio corridoio, poi la scala. Oltrepassarono due finestre, aperte sul chiacchierio degli alberi e del vento appena venuto dal mare. Arrivarono davanti ad una porta socchiusa. La governante la guardò per un attimo lunghissimo. Perché era lì? Dopo tanto tempo. Se ne andò.
Dormiva. Di spalle alla porta, rivolta verso la finestra. Zia Ester dormiva. Ludovica le si sedette accanto, meravigliandosi di tutto lo spazio che quel piccolo corpo lasciava vuoto. L’accarezzò a lungo, le raccontò tante cose, a bassa voce, concitatamente, come faceva quando era piccola e non vedeva l’ora di essere consolata.
Zia Ester era bravissima a consolare i bambini cantando:

C’era una volta un drago
 Che cadde dentro un lago
 Fece una capriola
 E si schiarì la gola

La cosa lo fece ridere
Ma ridere di cuore
Non pianse neanche un po’
E il dolore gli passò

Ludovica si assopì e quel sonno fu come un punto alla fine di un lungo periodo. Uscì dal suo tempo per entrare in un tempo rallentato, denso, il tempo in cui viveva zia Ester. Quando si svegliò la vide seduta sulla poltrona di fronte alla finestra ma non guardava fuori, guardava lei e sorrideva, per niente meravigliata di vederla lì.
“Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester, non verrà. Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?”
“Che ore sono?”
“Mezzogiorno.”
Era bella seduta su quel grande sasso di fronte al mare. C’era stato un tempo in cui Ludovica era talmente piccola da potercisi nascondere dietro, rannicchiata. Lorenzo non la trovava mai quando si nascondeva lì.
“Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester, non verrà.”
 “Ho sognato che Lorenzo era furioso con te perché avevi rotto il violino: lo hai rotto veramente?”
Non suono più. Avrebbe voluto dirglielo. Zia Ester Lorenzo è morto. Il suo violino e il mio violoncello sono chiusi da qualche parte adesso. Lorenzo è morto e con lui zio Valerio, tuo marito. Stesso incidente. Tu non ti ricordi. La notizia della morte di tuo marito, dicevano i medici, ti aveva smarrita. E’ facile smarrirsi senza luce. Le persone come Lorenzo e zio Valerio se ne stanno lì, con quella loro meravigliosa grandezza, con tutta quella luce che gli avanza, leggeri come grappoli di lucciole. Quando si spengono non c’è più rimedio alla notte nel loro mondo, le tenebre divorano velocemente anche l’ultimo avanzo della loro luce. Ci siamo persi in questo buio: io, tu, i miei genitori; a proposito, si sono separati, li vedo poco. Io mi sono messa dentro una vita qualunque, come un vestito tirato su in fretta, il tempo di chiudere una lampo, un lampo, corto circuito di una vita e il dolore piegato piccolo in qualche angolo del cuore, sperando di dimenticarlo lì, sotto un cumulo di altri ricordi.
Zia Ester, sono finalmente qui, a srotolare il mio passato, a ricordarmi chi sono, ho capito che se apro gli occhi la notte si rischiara.
La sentì tremare, capì che doveva riportarla a casa.
La riaccompagnò alla sua poltrona.
“Ludovica”
“Si”
“Lorenzo verrà con te la prossima volta?”
“No zia Ester non verrà”
S’incamminò verso la porta, le sembrava di aver lasciato il filo del suo aquilone.
“Ma io tornerò, non volare troppo lontano perché io ritornerò.”
Zia Ester guardava il mare ora. Un pianeta azzurro apparentemente sempre uguale di cui lei conosceva ogni increspatura. Da qualche tempo stava studiando di quanti colori può essere: azzurro, blu, indaco, cobalto, bianco.
C’era un azzurro, che il mare indossava pochi attimi dopo certe albe. Era poco più di un’ombra: bisognava avere occhi attenti e una certa esperienza per riuscire a scoprirlo. Lei lo aveva visto dopo tanto tempo che scrutava.
Lo vide un giorno e la dolcezza di quella visione non le lasciò dubbi sul nome da dare a quell’azzurro.

6
Sentimentale / Isabela
« il: Ottobre 12, 2011, 14:24:03 »
Isabela

Isabela aveva una figlia di dodici anni, Cloe, e faceva la colf ma non era l’unica cosa che sapeva o avrebbe potuto fare.
 In Argentina era stata architetto. Solo laureata, con nessuna esperienza, ma se lo ricordava molto bene  adesso come si era sentita ad indossare quel nome: architetto. Indimenticabile come la carezza di un vestito di seta o il corpo di un amante avvinghiato al suo: si era sentita desiderata dalla vita, invincibile.
Quell’uomo italiano con i capelli rossi lo aveva conosciuto una sera a Buenos Aires. Stefano, commerciante di vini pregiati, si trovava in quel locale per lavoro, forniture. Quando la sentì cantare si stava avviando all’uscita.
Lei cantava in quel locale per divertirsi, senza nessuna ambizione di notorietà, forse per questo metteva dentro ogni canzone quel diluvio spensierato di energia. La musica accendeva il velluto nero dei suoi occhi, si riversava nelle anche solide e prima d’invadere tutto attorno a lei, esplodeva nel guizzo rosso di quella bocca sfrontata.
Cantava e ballava il flamenco nella terra del tango: tipico del suo carattere imprevedibile.
Stefano aveva quarant’anni, lei venticinque. Un corto circuito di desiderio, assoluto, oscurò tutto il resto e crebbe fino al delirio, all’amore consumato ovunque, ai tentativi inutili di estinguere quella fame.
Si sposarono dopo due anni, dopo tre nacque Cloe. Aveva i capelli rossi.
Stefano la guardava dormire, poi portava con sé per strada, al lavoro, quella piccolezza morbida, quell’odore di borotalco, l’immagine di quella bocca avida attaccata al seno.
Cloe era divenuta uno strato di lui, del suo carattere, del suo nuovo sguardo sul mondo.
Isabela si prendeva cura di “quei due con i capelli rossi” come le piaceva chiamarli ma trovò anche il tempo per aprire un localino; la sera accoglieva avventori a cui piaceva vederla ballare, sentirla declamare poesie e cantare “ Gracias al a vida que me ha dado tanto”.
Cloe cresceva in una grande famiglia di nonni, zii e zie, cugini, amici. Sembrava a suo agio in quel chiacchierio continuo, in quella lingua dolce come una nenia cantata.
Ma il padre per lei era altro: loro erano “quei due dai capelli rossi”, quasi superstiti di un’antica progenie estinta.
Cloe aveva tre anni quando Stefano si ammalò.
Giorno dopo giorno, medico dopo medico, cura dopo cura dopo farmaco dopo speranza dopo tutto, Stefano chiese ad Isabela:
 - Voglio tornare a casa Isabela, portami in Italia.
Si spensero le luci del locale. Si spense la musica. Si spense il chiacchierio argentino.
Lo avrebbe portato ovunque lui volesse. Isabela non aveva più quella furia dentro, quel suo turgore di vita iridescente. Aveva spento il corpo, il cuore, la pelle, qualunque cosa potesse ricordarle che lei era viva e Stefano stava morendo.
Divenne una macchina, incapace di sentire la fatica, giorno e notte si occupava del marito e della figlia. Come un volontario accorso sul luogo di un disastro, scavava nelle macerie della sua esistenza, mortificata da quell’improvviso voltafaccia della vita.
I genitori di Stefano erano morti, era rimasto solo una fratello che gli lasciò la casa dei genitori in via Porto di fronte al mare, e se ne andò a vivere altrove.
Rimasero soli.

Una sera Cloe si era appena addormentata e Isabela stava riordinando in cucina. Sentì Stefano che la chiamava. Accorse.
Era seduto sulla sua poltrona, la pancia gonfiata dalla cirrosi, come una marea che avanza da dentro e dissolve le forme umane, spalancandole come scatole aperte svuotate di vita.
- Stefano sono qui.
Lo accarezzò, gli baciò gli occhi colorati sinistramente dall’ittero, si sedette sul bracciolo della poltrona: guardavano le luci galleggianti sull’acqua del porto.
- Isabela
- Si
- Faresti una cosa per me?
- Certo
- Balleresti come quando ti ho conosciuta?
Isabela sorrise. Era talmente lontana quella ragazza spudorata, faceva quasi fatica a ritrovarla nella sua memoria.
- Isabela, balla per me ti prego.
Capì in quel momento quanto fosse stanca, disperata, con le mani screpolate, il grembiule da cucina, le forcine nei capelli.
- Balla per me, amor de mi vida
Si alzò. Aveva cento anni. Si tolse le scarpe, il grembiule, lasciò andare i capelli, mise su quel vecchio disco, spostò la poltrona verso il centro del salone: il suo proscenio.
Non era mai stata così bella. Lentamente la vita si rimpossessò dei suoi piedi nudi, delle sue gambe, cosce, sesso, natiche, ventre, seni, braccia, collo, bocca e infine, occhi.
Il velluto nero profondo dei suoi occhi si riaccese. La musica ridestava lentamente quel corpo, s’ingrossava dentro di lei, si divertiva ad inarcarla, a scuoterla con lampi di accordi rasgueados, strappati. Era solo musica adesso, solo vita, solo respiro, una cosa sola con quell’uomo che stava danzando con lei ora. S’immaginava in piedi, le cingeva la vita, intrecciava le sue mani, seguiva lo scalpitio fulmineo dei suoi piedi nudi.
La musica li schiacciava uno contro l’altro, li sollevava sul tetto dell’onda sonora e poi giù giù fin nelle viscere della vibrazione, sbalzati fuori solo all’ultimo, all’ultimo momento, nell’ultimo salto, nell’ultimo salto ansante.
Quando la musica tacque, Stefano sembrava assopito. Sorrideva.

















7
Sentimentale / La matta
« il: Ottobre 05, 2011, 16:44:59 »
Glauco


Lo aveva pregato il padrone di casa, la sera prima al telefono:
 - Albino per favore puoi dare una sistemata all’appartamento del terzo piano? Si, quello vuoto. No, l’ho solo fittato, per sei mesi, forse un anno, poi si vedrà. Arrivano fra cinque o sei  giorni, da Milano. Le chiavi ce le hai. Fammi questa gentilezza, poi passo io per ripagare  il tuo disturbo. D’accordo. Ciao.
Lo accolse l’odore di polvere. Non avrebbe saputo spiegare che odore ha la polvere, ma la riconosceva. Gli venne da pensare la polvere è l’inquilina delle case vuote.
Aveva ragione, la polvere si distende nelle assenze, è un’assenza scandita, contrappunto di aria e tempo, abbandono punteggiato dai minuscoli granelli dei pensieri, dalle attese.
Albino rimuoveva quel manto pesante come un incantesimo; liberava il pavimento, lavava i lampadari a gocce ora lucide, come foglie dopo la pioggia, rianimava qualche vecchio mobile spaiato e cadente.
Albino pulendo creava. Non aveva avuto figli,  non sono venuti diceva, come se veramente li avesse attesi sull’uscio di casa. Lustrando generava; dopo che lui aveva pulito, sembrava tutto nuovo, appena nato. Albino generava freschezza.
Quando ebbe finito si fermò un momento a guardare quella casa, ad immaginare i suoi nuovi inquilini: come potevano essere fisicamente? Di cosa avrebbero potuto avere bisogno?
Albino era un uomo gentile e a suo modo ambizioso. I suoi condomini erano persone importanti: un avvocato, un’archeologa, due dottori, un professore, insomma, gente al servizio di grandi cause. Servire loro o a loro, significava entrare a far parte di quella grandezza. Lui era un uomo che dal suo minuscolo punto di osservazione percepiva la vastità e complessità della vita: aveva uno sguardo pieno di meraviglia.
Cercava di spiegare tutto questo ad Elena, sua moglie, ma nei suoi occhi leggeva il limite, era disposta ad aiutarlo ma non ad emularlo.
Elena svolgeva i suoi compiti alacremente, allegramente, tutta la sua vita era una strada dritta come i suoi capelli lunghi raccolti nella crocchia perpetua.
Solo una volta aveva alzato la voce con la vita: per quell’aborto. Suo figlio era venuto nella sua pancia e lei si era sentita piena, da dentro, completa. Poi una notte il dolore, il sangue, tanto sangue, la corsa in ospedale, tutte quelle luci, poi più nulla. Il suo ventre al risveglio era una casa abbandonata.
Un giorno se ne andò al paese, doveva aiutare una cugina a pulire casa perché si sposava.
Arrivò presto, trovò le chiavi nella buca delle lettere come d’accordo con la parente.
Entrò. Le venne incontro una casa completamente vuota, imbiancata da poco, nemmeno un chiodo, l’orma di un quadro, un batuffolo di polvere in un angolo. Niente. Non era pulita era vuota. Elena fu sopraffatta da quel nulla. Quando si accorse che stava piangendo stava già singhiozzando, forse urlando.
Seduta a terra, con il suo bagaglio enormemente piccolo in quello spazio smisurato: la cugina la trovò così.
 Fece finta di nulla, era troppo complicato quello che vedeva in lei in quel momento.
Si salutarono e si misero a pulire.
Albino sentì una fitta alla schiena. Era stanco. Decise che poteva bastare.
Chiuse la porta e se ne tornò a casa. Il pranzo doveva già essere pronto a quell’ora.


Arrivarono il giorno dopo di buon’ora.
A quell’uomo tutti i pacchi sparsi sul pavimento fecero una strana impressione: gli sembrarono treni deragliati i cui vagoni, divelti da qualche brutale forza sconosciuta, nascondevano chissà quali inenarrabili resti. Si addentrò nel labirinto scomposto di custodie di cartone abbottonatissime, nelle loro sciarpe integrali di scotch: pudori incomprensibili di carta gommata. Sospirò, erano troppe. Venne a salvarlo l’armata Brancaleone della Ditta Traslochi. Gli sembrarono uomini primitivi con le carcasse delle loro enormi prede gettate sulle spalle. Non capiva niente di quello che a gran voce non la smettevano di urlarsi: grugniti, urla di guerra, fischi forse di segnalazione, per l’avvistamento di pericoli o di prede succulente.
Un milanese a Salerno, via Porto 106, nel giorno del suo trasloco. Era un uomo piuttosto magro, alto, che riusciva a portare con una disinvoltura ammirevole quel nome che lo sovrastava come un enorme cappello: Glauco, omaggio della mamma a Glauco Mari e alla sua delirante passione giovanile per il teatro.
Nel pomeriggio del giorno dopo aveva già appeso l’ultimo abito. L’efficienza milanese imparata e il gusto minimalista naturale del suo carattere, avevano avuto rapidamente ragione del caos primigenio del giorno prima. Le sue due stanzette più servizi erano sistemate: camera da letto, studio, accessori. Lineare e sufficiente per realizzare la sua missione in quel luogo.
Lo squillo del cellulare lo sorprese:
“Allora, ti sei sistemato?”
“Si, tu a che ora arrivi?”
“Domani mattina, 10\10.30”
“D’accordo.”
“Stai bene?”
“Credo di si. Tu?”
“Sto bene, sto bene.  A domani allora.”
“Ti aspetto.”


Riccardo era il giorno, Glauco la notte, Riccardo il proscenio, Glauco le quinte, Riccardo il fuori, Glauco il dentro di quelle loro vite simbiotiche. Il fatto che fossero fratelli e gemelli era un dettaglio che da solo non poteva spiegare tanto leale attaccamento. Era stato qualcos’altro ad instillare nelle loro anime quel sentimento da commilitoni in trincea.
Lo squillo del cellulare lo irritò, stava guardando il mare ora, non aveva mai avuto un orizzonte di acqua e scaglie di luce, aveva vissuto sempre a Milano a differenza del suo fratello vagabondo.
“Ciao nonna, come stai?”
“Sono un po’ preoccupata per voi”
“Sto bene nonna non ti preoccupare”
“Il nonno parte stasera, arriverà domattina”
“Anche Riccardo”
“Quando andrete lì?”
“Domani”
“Fammi sapere, poi.”
“Si nonna, d’accordo. Ti bacio, ciao.”
Tornò al suo nuovo orizzonte, come a riprendere un dialogo interrotto, come in attesa di qualche rivelazione. Si ricordò del motivo per cui era lì.
Sua madre era matta. Così gli gridavano a scuola quand’era piccolo:  Tu sei matto, come tua madre. Matto! Matto!
Riccardo li prendeva a calci e pugni. Lui niente, rimaneva muto, piangeva solo quando Riccardo le prendeva e lui non sapeva aiutarlo.
Il padre era morto giovanissimo, Glauco se lo ricordava appena, come una parola di un’altra lingua, poco usata, sempre un po’ estranea.
La madre matta era ricca. Ricca e matta.
Tanto matta da svegliarli nel cuore della notte e trascinarli fino all’alba per strada, per sfuggire a chissà quale spettrale creazione della sua mente. Tanto matta da lavarli di continuo, da buttare via il cibo cucinato dalla governante o le buste della spesa se per caso sfioravano il pavimento. Tanto matta. Da convincerli a non raccontare niente delle loro vite: erano vittime di un complotto, i loro nemici volevano dividerli, portargli via la loro bella casa e per fare questo non avrebbero esitato ad ucciderli. Tanto matta.
La realtà per lei era un mondo abitato da forme gelatinose, pronte alla minima pressione a cambiare forma e a rivelare le maschere grottesche dell’orrore, del disfacimento delle loro umane sembianze.
Avevano otto anni Glauco e Riccardo quando la madre fu ricoverata perchè urlava qualcosa per strada. Non la videro più.
Furono estratti dalle sue viscere un’altra volta ma vennero al mondo senza la fiducia. Erano stati addestrati a vivere in un mondo di ombre, di agguati, di nemici invisibili e potenti. Vissero con i nonni, consacratisi al compito di rimetterli al mondo.
Qualche giorno prima il nonno aveva convocato lui e il fratello e all’improvviso la madre era ritornata nelle loro vite.
Glauco guardava il mare ora e le parole del nonno gli tornavano alla mente come quelle scaglie di luce sull’acqua, una pioggerella di luci sparse:

Adesso
          Salerno
                risposata
                                lì
                                  vive

Curata
           sconsigliavano
                                 i medici
                                           d’accordo




Adesso
           vostra madre
                                 lì
                                    una casa



Prendiamo
                  pensateci
                                  lì
                                  una vacanza




Qualche mese
                     vedervi
                                chiesto
                                        vostra madre

Adesso.

Le gocce cadevano senza rumore nella sua mente, nemmeno un tonfo, nessuna resistenza, Glauco era diventato mare ora e i suoi pensieri piccoli rilievi di onde.
Dormì poco quella notte. Disteso sul suo lettino nuovo, accanto a quello vuoto del fratello, permise al passato di rientrare in scena. Si presentarono i suoi ricordi ma gli sembrò di assistere a delle prove generali: non si capiva il senso dell’opera rappresentata. La sua, le loro vite, erano precipitate nell’inesistente di una follia, non c’era una  lingua, un tempo, un’immagine, per poterlo raccontare. C’era solo un grumo che si dipanava e riattorcigliava a comando nella sua mente, senza perdere mai la sua densità oscura, completamente incapace di una rivelazione chiarificatrice.
Esausto, si riaddormentò.

Riccardo era pallido ma guidava, chiacchierava, fumava, raccontava le sue ultime mirabolanti imprese sentimentali: tutto assieme. Glauco si lasciava invadere dalla vivace presenza del fratello, completamente sedotto dai suoi gesti e dalle sue parole infilate una dietro l’altra con la disinvolta svagatezza di sempre.
Arrivarono, infine.
Nel vialetto antistante la villetta videro parcheggiata l’auto del nonno, era già lì.
Glauco e Riccardo scesero dall’auto, camminavano vicini, lentamente, le mani in tasca, in silenzio.
Erano attesi. Li accolse un uomo di media statura, bruno, con un sorriso incerto, come di chi non conosce le usanze per quell’evento. D’altra parte i due giovani uomini che si ritrovò davanti non lo incoraggiarono a continuare nella sua cordiale condotta. D’altra parte era la prima volta che quell’uomo vedeva i figli di sua moglie.
Lei era in piedi, nell’atrio subito dopo la porta, i capelli scuri raccolti a crocchia, due piccole perle bianche ai lobi, lo sguardo liquido come reso umido dal vento, il naso dritto e sottile alla fine del quale si aprivano due piccole fosse che s’intuivano morbide al tatto, e più giù, la bocca, serrata, come un uccello con le ali raccolte. In attesa.
Furono lasciati soli.

Riccardo e il nonno partirono dopo due settimane. Glauco rimase, gli piaceva quella casetta vicino al mare, vagheggiava d’acquistarla. Avrebbe pensato il nonno a sostituirlo al lavoro, era pur sempre il suo capo. Riccardo tornò ai sui progetti umanitari: destinazione Bruxelles, poi chissà.
Glauco andava spesso a trovare quella donna, sua madre, e quando tornava a casa, scriveva lettere.

“ Caro Riccardo,
è tardi ma le luci del porto prorogano all’infinito l’illusione che la notte sia remota. Sono qui, slegato da tutto quanto fino a ieri mi sembrava indispensabile: lavoro, amici, amore. Sono qui, attaccato alla vita con un unico ormeggio, una fune rimasta nascosta tra le altre in tutti questi anni, creduta smarrita per sempre e adesso unico attracco, unico sentiero capace di ricondurmi a casa. Sono sereno.
 Bonifico questo pezzo del mio cuore con nuovi ricordi, mi lascio attraversare dall’amore di questa donna ritrovata, miracolosamente, alla fine di una irreparabile tempesta.
E tu? No, non parlare se non puoi, non mi rassicurare, non mi nutrire più della tua forza. Io sono al sicuro, in pace con me stesso, grazie a te che mi hai accompagnato fin qui. Sono la tua vittoria, il tuo omaggio alla vita, come una dedica incisa sulla prima pagina di un libro bellissimo.
Abbi cura di te. Ti aspetto. Ti aspettiamo.
Con infinito affetto. Glauco”.






















8
Sentimentale / Filippo
« il: Settembre 10, 2011, 17:00:28 »
FILIPPO

Mia madre vendeva scatole di latta, libri usati e ogni sorta di chincaglierie con il suo banchetto ambulante sul lungomare del nostro paese giù al Sud.
Era una donna taciturna. Ricordo gli occhiali rettangolari enormi da presbite, ricordo la sua vita da nomade in giro per il mondo a comprare e vendere gioielli che ad un certo punto dopo la morte di mio padre, un bravo skipper, si era fermata, senza cambiare mai il suo modo randagio di esistere.
La nostra casa era un accampamento, poco più di un bivacco. Non avevamo armadi, tutti i nostri abiti erano sparsi alla rinfusa nelle camere da letto e così le pentole e i tegami in cucina, le medicine in bagno, i bagnoschiuma, gli shampoo, le creme, tutto sembrava pronto per essere messo in una valigia e andare, sparso a vista d’occhio per non essere dimenticato. La mia casa, le nostre vite, erano enormi valigie disfatte in un punto qualunque di un viaggio.
Io e mio fratello dopo la scuola ce ne stavamo per strada, non sapevamo cosa fosse l’ora di  pranzo o di  cena. Mia madre usciva la mattina presto, montava il suo banchetto e lo richiudeva qualche ora prima del tramonto. Tornata a casa, se ne aveva voglia cucinava oppure riceveva  clienti a cui leggeva ogni sorta di carte o altro attrezzo adatto alla divinazione. Non ci hai mai chiesto di aiutarla con quelle sue cianfrusaglie, lo abbiamo fatto fino a quando ci è sembrato un gioco. Io adoravo in particolare le scatole di latta. Erano bellissime, provenivano da un altro tempo, ero rapito dalla varietà dei colori, dalla ricchezza da miniature dei disegni, da quel suono di pentole quando le richiudevi.
Ne posseggo ancora qualcuna. Crescendo io e mio fratello abbiamo abbandonato completamente l’idea di aiutare nostra madre in quella specie di lavoro. A stento ci eravamo diplomati ma non concepivamo l’idea di avere degli orari di lavoro: eravamo due nomadi senza meta.
Mia madre morì all’improvviso. Una notte trovai un biglietto sotto l’uscio, lo aveva lasciato un vicino: “ Sua madre è in ospedale”. Era già morta quando arrivai.
Mi raccontarono che l’avevano  raccolta per strada, su di una panchina poco lontana dal suo banchetto: sembrava dormisse. Era morta così.
Quando tornai a prendere le sue mercanzie abbandonate, trovai ben poco: avevano rubato quasi tutto, frugato, strappato. Solo le scatole di latta erano ancora lì. Portai a casa la mia eredità materna, la ripulii e misi tutto in uno scatolo di cartone.
Mio fratello partì; s’imbarcò come aiuto cuoco su di una nave da crociera. Lasciai  la nostra casa, non sapevo nemmeno di chi fosse, i miei genitori erano stati sempre molto vaghi sulla questione e sia io che mio fratello eravamo molto poco curiosi  di faccende di amministrazione domestica.
Consegnai le chiavi al portiere, lasciai la città e  mi trasferii in questo paesino, in questo monolocale.
Mi erano avanzati un po’ di soldi dalla vendita della barca di mio padre, mio fratello mi aveva lasciato anche la sua quota per comprare la mia nuova dimora.
<<Così ogni volta che torno da queste parti ho un buco dove andare a dormire>> mi aveva detto con quell’aria stralunata, lo sguardo spiegazzato come le sue camicie, credo che non abbia mai indossato una camicia stirata mio fratello. Quando lui partì mi chiusi in casa. C’era un campanile proprio di fronte all’unica finestra. Mi piaceva che fosse piccola, me la volevo sentire stretta addosso, come un vestito, anzi, per aderirvi meglio cominciai ad ingrassare. Mangiavo.
 Era una preghiera apparecchiare, cucinare, lavare le stoviglie, scuotere la tovaglia, riporre le bottiglie nel frigo: il mio rito, la mia giaculatoria quotidiana. Mi facevano compagnia gli odori, la luce calda del cibo, i suoni degli utensili. Gustare era l’ultimo atto solenne di quel pellegrinaggio. Divenni enorme: un enorme uomo in una piccola casa. Divoravo cibo e  libri,  mi misi a studiare come un forsennato. In tre anni e una sessione riuscii a laurearmi in lettere. Uscivo raramente, mettevo comode, lente, radici.
Dopo quattro anni conobbi quell’uomo. Era un fotografo. Lo incontrai per strada mentre passeggiavo. Lui scattava fotografie per un servizio giornalistico. Mi chiese qualcosa, non ricordo cosa, aveva un accento torinese come mia madre, m’incuriosì.
Disse che mi avrebbe ricompensato se gli avessi fatto da guida per qualche giorno. Era un uomo dai gesti rapidi, di poche parole, sui quaranta, uno sguardo sferzante. Gli offrii di stare da me, si trattava di pochi giorni, ci saremmo arrangiati. Si chiamava Alessandro. Alessandro Parisi.
Cenammo in silenzio quella sera. Dopo cena lui si collegò al suo portatile, io me ne andai a letto, sul divano della cucina, gli avevo ceduto la mia camera da letto.
Il giorno seguente mi chiese di uscire di buon’ora.  Salimmo sulla sua auto e cominciò una giostra di telefonate, soste ” per qualche  scatto” come diceva lui, una miriade di caffè consumati in fretta tra uno squillo e l’altro del telefono o della corrispondenza elettronica e perfino del fax. Aveva tutta una serie di diavolerie elettroniche a portata di mano che adoperava con una disinvoltura frenetica. Io avevo molto tempo per osservarlo, non dovevo fare altro che dirgli dov’era questa o quell’altra strada. All’improvviso mi fulminò un pensiero: perché mi aveva chiesto di fargli da guida? Aveva il suo navigatore satellitare, che ci facevo lì io, veramente?
Glielo chiesi la sera a cena. Ero distrutto, avevo passato una giornata ad un ritmo infernale. Mentre cucinavo lo sentivo ancora trafficare con i suoi giocattoli elettronici, mi sfiniva solo guardarlo.
Dopo cena glielo chiesi. Aveva un caffè fumante tra le mani. Aveva ancora quella furia nei gesti, nel tovagliolo quasi gettato di lato dopo ogni rapida asciugatura, nella smorfia dolorosa con cui deglutiva. Glielo chiesi.
Mi guardò: era un deragliamento quello sguardo, mi sembrò quasi di sentire le ruote che stridevano sulle rotaie. Il suo corpo si spense, si acquietò. Rimasero accesi solo gli occhi.
<<Ti stavo cercando >> disse.
Mi faceva quasi paura adesso.
<<Chi sei?>>
<<Un amico di tuo padre>>
<<Mio padre è morto>>
<<Lo so>>
Non sapevo cosa fare, dove guardare. Le campane cominciarono a dondolare all’improvviso, imbruniva. L’uomo si alzò, mi fece cenno di seguirlo.
Si diresse al suo portatile, abbandonato sul letto. Lo accese, cercò qualcosa poi me lo porse, con una delicatezza insospettabile in un uomo così scattante. Erano immagini, fotografie.
Mio padre apparve dopo diverse immagini, dopo una serie di paesaggi straordinari. Pensai che Alessandro avesse una magia potente nello guardo, un lasciapassare speciale che gli consentiva di viaggiare nella materia stessa degli oggetti, delle persone, dei paesaggi, e viaggiando catturava significati e angolazioni assolutamente nuovi, mai visti, invisibili. Mentre guardavo smarrito quell’enorme saccheggio alla bellezza, mi ritrovai davanti il viso di mio padre. Sorrideva, chino su di una barca, intento al suo lavoro. Non me lo ricordavo così giovane, così felice.
<<Devo molto a tuo padre>>
La voce di Alessandro mi riportò in quella stanza, mentre si spegneva l’eco del suono delle campane. Allora il silenzio avvolse tutto, anche le mie ovvie domande.
Restai muto, sapevo che l’uomo prima o poi avrebbe ripreso a parlare.
Proverò a raccontarti la sua storia come l’ho sentita dalla sua voce e dalle sue parole.

“ Avevo vent’anni quando lo conobbi. Ero uno stupido ragazzo ricco in cerca d’avventure e di rogne. Ero spesso su di giri, capisci cosa intendo? La mia famiglia aveva assunto tuo padre come skipper per una regata. Per tutto il tempo non feci altro che tormentarlo e provocarlo, ero sicuro che non mi avrebbe potuto affrontare. Mi ignorò per tutto quel giorno eppure ti assicuro che ero veramente un cretino. Al ritorno fui l’ultimo a scendere dalla barca, ero un po’ ubriaco, continuai a provocare e ad insultare tuo padre, mi stizziva quella sua calma. Non sapendo cos’altro
 f are per farlo arrabbiare mi misi a pisciare sul ponte. Fu allora che me le diede di santa ragione.
Qualche giorno dopo, per scusarmi, gli portai un po’ di fotografie che avevo scattato alla sua amata barca.
<<Tu sei nato per fotografare>> mi disse
Fu una rivelazione.
Smisi di fare il deficiente e cominciai a studiare sul serio. Finalmente usavo i miei soldi per fare qualcosa di buono. Ho avuto grandi maestri, ho viaggiato molto, mi hanno insegnato a guardare. Ogni volta che realizzavo un buono scatto, pensavo a tuo padre, ogni volta che fotografare mi faceva sentire vivo, utile, provavo una grande gratitudine per quello skipper che mi aveva fatto scoprire chi ero.
Presi ad andarlo a trovare ogni volta che i nostri ritorni coincidevano. Mi offriva le sue birre analcoliche ghiacciate e ascoltava i resoconti dei miei viaggi, guardava le mie fotografie.  Quando con quella sua faccia onesta mi diceva: “ Questa è proprio bella”, mi sembrava di aver vinto l’Oscar.
Un giorno parlammo di cose di cui non avevamo mai parlato, me lo ricordo benissimo, mi pare di vederlo qui davanti a me.”

Da quel momento sembrò davvero che ci fosse anche mio padre in quella stanza, anzi, c’ erano solo loro due. I ricordi di Alessandro erano brace viva dentro di lui che come in trance, parlava con mio padre, ora.

 << Alessandro sono preoccupato >>
<<Che ti succede?>>
<< Il cuore. Il mio medico vuole che mi ricoveri, dice che l’infarto alla mia età è fatale.>>
<<Il tuo medico è un coglione, ti porto da mio zio, è un bravo cardiologo, non ti preoccupare  >>
<<Non sono preoccupato per me. I miei figli devono andare a scuola, non possono continuare a fare i randagi appresso a me e mia moglie. Se me ne dovessi andare vorrei saperli al sicuro  da qualche parte>>
<<Dove vivete?>>
<<Due stanze ammobiliate nel quartiere lì di fronte.>>
<<Metti su casa, una casa vera. Vattene a vivere nell’appartamento che mi ha lasciato mio nonno, è enorme, non ci abiterei mai. >>
<<Che significa “vattene a vivere”>>
<<Vai lì, prendi la tua famiglia, datevi una sistemata, poi mi paghi l’affitto>>
<< Quanto>>
  <<Poi vediamo, non me ne frega niente dei soldi.>>
- Vediamo adesso>>
<<Senti, io sono una testa di cazzo, ho speso in macchine, bourbon e scommesse due volte il prezzo di quella casa abbandonata che tu puoi far rivivere.  Io ne ho altre di case ma di amici come te nessuno, non farmi aspettare di morire per regalartela: te la regalo, domani vado dal mio notaio e ti porto l’atto di proprietà>>
<<Tu sei matto>>
<<Dai skipper, attracca e goditi la famiglia>>
<<D’accordo ma tu non fare cazzate, prendo la casa e ti pago l’affitto, d’accordo?>>

Riuscii a convincerlo a sistemarsi in quella casa ma non accettò mai che gliela regalassi. Dopo un mese sono partito all’improvviso, ebbi appena il tempo di salutarlo. Ho vissuto in Inghilterra per otto anni. Sentivo tuo padre ogni tanto. Ho saputo della sua morte solo dopo due mesi che era avvenuta. Ho passato altri dieci anni in giro per il mondo fino a quando, quatto anni fa, sono tornato definitivamente. Proprio quando tu hai lasciato la casa e sei venuto a vivere a Soleria. Il portiere dello stabile ha restituito le chiavi al mio notaio che era al corrente di tutta la faccenda.  Fu proprio lui ad informarmi di quello che avevano fatto tuo padre  e tua madre fino alla loro morte.”

Alessandro si passò le mani lunghe sul viso: <<Potrei avere un altro caffè?>
Andai a prenderglielo. Quando tornai era in piedi, la mani affondate nelle tasche, guardava fuori. La luce dell’unico lampione arrivava di sbieco sulle campane: sembrava che il tempo si fosse fermato, che tutto potesse accadere da un momento all’altro.
<<Il caffè>>
Si girò lentamente. Si rimise seduto sul letto e riprese a raccontare.

“Avevano continuato a versare una quota per il fitto della casa, su di un conto corrente a mio nome, per vent’anni, senza perdere nemmeno un mese. La banca alla morte di tua madre mi ha avvisato che c’era un bel gruzzolo da loro che mi apparteneva. Dannati soldi.
Ti ho cercato. Non è stato facile trovarti. Non è stato facile ma non smettevo mai di pensare a questa faccenda. Ti ho rintracciato già da un po’ ma non sapevo come fare ad avvicinarti, non sapevo come fare per… mi sono inventato la storia della guida, prenditi questi dannati soldi, non li voglio. Sono riuscito a fare qualcosa di buono nella mia vita perché tuo padre mi ha fatto sentire speciale, accidenti, quella faccenda della casa era proprio una bella cosa, non me la togliere.”
Era addolorato, sarebbe crollato se non gli avessi dato ascolto.
<<D’accordo, grazie. >>
<<Che ne dici di uscire per una birra?>>
<<Analcolica ghiacciata?>>
Mi sorrise, per la prima volta. Sembrava un ragazzo.
Da allora siamo rimasti sempre in contatto e appena possibile ci vediamo.
Non volevo che quel denaro servisse solo a me, così decisi di mettere su un locale, un posto dove mio fratello avrebbe potuto lavorare come cuoco e fermarsi, finalmente. Ci ho provato due volte prima di capire che mio fratello era un randagio, come mia madre. Ci ho messo due locali e un omicidio per capirlo.

Scusa, ho bisogno di una pausa, non per cercare le parole, le ho
cercate a lungo, messe in fila e spostate tante volte nella mia mente, quello che mi serve è  un’intonazione, un peso giusto da mettere nella mia voce per continuare a raccontare.

Aveva un naso enorme. Su quel viso stava bene, era un paesaggio armonioso quella faccia, la vegetazione fitta della barba si estendeva fino alle chiome dei due alberi delle sopracciglia.
Il promontorio del naso la solcava tutta  come l’ultima duna prima dell’oasi. Aveva sempre una birra tra le mani. Cenava spesso da noi e soprattutto beveva.  L’ho visto raramente scambiare qualche parola con altri clienti, camionisti per lo più. Era un locale situato a ridosso di un’autostrada, frequentato da gente costretta a viaggiare per lavoro. Randagi come noi: “ Stray cats”, lo avevamo chiamato.
Pierluigi una sera litigò con il tizio che ti ho descritto, per una banalità, carne troppo cotta, poco cotta, nemmeno me lo ricordo più. Vennero alle mani, una scenata pazzesca. Se mio fratello aveva piantato tutto quel casino per una cavolata voleva dire che qualcosa non andava. Gli parlai, la sera stessa, sembrava un folle, un drogato in astinenza:  se ne voleva andare. Non riusciva a fermarsi più di un certo tempo, si sentiva in trappola, lo tratteneva solo la gratitudine nei miei confronti che avevo  usato tutto il denaro a nostra disposizione per mettere su qualcosa che potesse garantirgli una casa e un lavoro.  Pierluigi era uno sradicato, un senza radici, uno che non riusciva ad appartenere a nessuno, nemmeno ad un progetto, ad un’idea. Nemmeno a me.
Io mi ero salvato da questa sindrome familiare perché dopo la morte di mia madre mi ero fermato con il corpo e avevo imparato a viaggiare con la mente; avevo viaggiato nello spazio e nel tempo studiando filosofia, psicologia, antropologia, lingue. Mi ero lasciato attraversare dalle parole e dal pensiero di altri uomini, avevo amato intensamente il mio progetto di laurearmi , di conoscere. Tutti questi sentimenti erano le mie radici, la mia storia. Pierluigi invece era fuori dal mondo. Non gli rimaneva che continuare a saltellare di qui e di là per giustificare a se stesso il senso di estraneità profonda che continuava a provare.  Capii che se fosse rimasto sarebbe impazzito.
Lo aiutai a trovare un ingaggio come aiuto cuoco su di una nave, sarebbe partito entro un mese. Era deciso.
La sera prima della partenza quell’uomo tornò al locale. Era ubriaco. Cominciò ad insultare Pierluigi che non lo sentiva perché era in cucina dall’altra parte del banco. L’uomo non la smetteva. Piano piano il locale si svuotò. Rimasero solo pochi curiosi, poi solo  io e i due buttafuori che cercavamo di fare uscire il tizio. Pierluigi uscì dalla cucina attratto dal baccano. Guardava quell’uomo come se fosse un insetto fastidioso. Cominciò a picchiarlo. Dopo poco l’uomo sanguinava, dal naso, dalla bocca. Ho afferrato Pierluigi per le spalle e l’ho scaraventato al lato opposto della sala. Volevo solo che smettesse di picchiare quell’uomo. Perse l’equilibrio. Cadde. Deve aver sbattuto la testa. Non mi ricordo. Morì due giorni dopo in ospedale. L’uomo si salvò.
La polizia indagò brevemente e poi archiviò la morte di mio fratello come accidentale.
Una fatalità. Ma il fato si era servito di me per portare a compimento i suoi disegni: questo nessuno sembrava ricordarselo, nemmeno io.
Nelle testimonianze non comparve mai il fatto che io lo avessi spinto. Un piccolo fotogramma tagliato ed ecco un altro film, una storia completamente diversa: Pierluigi aveva perso l’equilibrio da solo nel corso della colluttazione.
Quel particolare, la spinta, era scivolato via dalla memoria di tutti i presenti, soprattutto dei due buttafuori che erano proprio lì vicino, come mai?
Perché io me ne sono ricordato dopo mesi, all’improvviso?
 Ero allo Chez Marie, il locale dove ci siamo conosciuti. Mi ero messo in affari con i due buttafuori, quelli che erano con me quando mio fratello è morto.
C’era complicità tra noi, una strana intesa. Erano venuti a chiedermi di aiutarli finanziariamente a mettere su un nuovo locale. Li aiutai poi divenni socio. Quando mi ricordai di quella spinta mi furono chiari tanti dettagli fino a quel momento oscuri.
Accadde una sera. Un uomo strava ballando con la sua donna, la faceva volteggiare con una certa energia; la spingeva e la riacchiappava dopo ogni giravolta. Ad un certo punto gli sfuggì, la spinse  e non riuscì a riacchiapparla. La donna perse l’equilibrio e cadde all’indietro. Mi sembrò di vedere quella scena al rallentatore: il corpo sbilanciato, la gamba sollevata, le braccia che nuotavano nell’aria, la caduta inesorabile nella sua traiettoria perfetta d’atterraggio, il tonfo. Era avvenuto in un istante fuori di me. Dentro, invece, si era srotolato lentamente il frammento che avevo nascosto nell’ultimo anfratto della mia memoria. Mio fratello era morto perché io l’avevo spinto e allora lui aveva perso l’equilibrio e poi e poi. Il frammento, dolcemente, si era ricollegato alla sua sequenza. Me ne tornai a casa. Avevo ospiti quella notte.
Cominciarono ben presto a sfilare nella luce spettrale del lampione,
 sulle campane di fronte alla finestra, da cui guardavo, insonne.
Sfilarono il rimorso, la disperazione, la banalità del male, la nostalgia. Ero annichilito dai loro assalti, da questo loro improvviso pretendere udienza. Non avevo nemmeno una risposta, niente con cui sedare il tumulto.
 Me ne stetti lì, su quella poltrona di fronte alla finestra, per un tempo, un brandello di tempo, una quantità, giorni forse.
All’improvviso i colpi alla porta e le scampanellate erano talmente violente che mi precipitai istintivamente ad aprire: erano i  miei soci, non mi vedevano da giorni dissero, non avevo risposto al telefono, stavano per buttare giù la porta, credevano fossi morto.
Ci sedemmo. Uno di loro cominciò a preparare un caffè.
<<Che ti succede?>>
<<La spinta>> riuscii a dire. Mi sentivo sporco, non mi lavavo da chissà quanto tempo, avevo i pensieri intorpiditi dalla mancanza di sonno.
<<Quale spinta?>>
<<Mio fratello>>
Abbassarono la testa. Incrociarono le braccia. Quasi simultaneamente deglutirono.
<<Non serve adesso Filippo, come non sarebbe servito allora andare in galera >>
<<E’ stato un incidente, fattene una ragione>>
<<Vi devo qualcos’altro per il vostro silenzio, oltre i soldi per il locale?>>
<<Non la mettere così Filippo, non siamo due pezzi di merda>>
<<E poi io ero sicuro che tu te lo ricordavi di averlo spinto>>
Li guardai. Chi erano? Di cosa stavamo parlando? Mi alzai. Me ne andai in bagno a lavarmi.
Ho continuato a vivere, a lavorare, come un sonnambulo, fino alla sera dell’esplosione. Il resto lo conosci.
Filippo.












9
Sentimentale / La signorina Lisetta
« il: Settembre 01, 2011, 20:18:41 »

La signorina Lisetta

Albino aveva promesso alla signorina Lisetta che avrebbe contattato lui un idraulico: la signorina aveva un problema con dei tubi in cucina. Ogni volta che poteva l’aiutava. Tranne l’altro giorno, quando gli aveva sottoposto quella richiesta a suo parere assurda:”Albino, conoscete un maestro di chitarra?” Gli aveva chiesto serafica parlandogli da sotto a quel cappellino fuori moda, blu con un piccolo fiocco sul retro. Non le stava male, i suoi capelli bianchi sembravano la schiuma dell’onda, un orlo punto a giorno sull’arsi del respiro marino.
Albino annoverava tra le sue, molteplici attitudini e competenze; poteva trasformarsi all’occorrenza in maniscalco, imbianchino, elettricista, uomo delle piccole e grandi pulizie, conosceva inoltre carrozzieri, meccanici, idraulici, onesti e di modeste pretese economiche. Insomma: una miniera, un prontuario, un Merlino metropolitano a cui tutti si rivolgevano per tutto, ponendogli quesiti sempre più ordinariamente complessi, attratti forse dal piacere languido, come il primo scrocchio in bocca di un cioccolatino, di essere esauditi. Era sicuramente esaltante, porre il quesito e immancabilmente sentire quella risposta: “Ci penso io, non vi preoccupate.”
Ma quel giorno Albino Merlino non conosceva la risposta, non aveva l’amo giusto per quel pesce, non c’era quel tipo di coniglio nel suo cappello. Era egli stesso sbalordito.
La signorina invece no. “Non importa, grazie, mi rivolgerò ad una scuola di musica.”
Forse l’età le conferiva una particolare prospettiva da cui decidere di applicare parametri come Urgente, Importante, Possibile, Impossibile. Forse, la morte sullo sfondo getta riverberi di luce ed ombre affatto diversi sulla vita di una settantenne.
Albino soffrì un poco per quella sua piccola dèfaillance ma poi se ne fece una ragione.
La signorina è una stramba. Ecco. Non era lui in difetto, il difetto, semmai era nella richiesta. Cioè, gli era stata chiesta una cosa impossibile, inesistente come certi numeri telefonici “ il numero selezionato…”
Dove poteva andarlo a pescare un maestro di chitarra disposto a dare lezioni ad una settantenne. Siamo seri. Va bene chiedere, ma bisogna pur darsi un limite. Forse era il caso di appendere un cartello in portineria
“ Non faccio miracoli”. Lo divertì molto questa trovata. Era una piccola vendetta silenziosa ( mai avrebbe osato farlo) per lenire quel dolorino d’impotenza che pure aveva provato.
La signorina è una stramba, partiamo da qui. Ha settant’anni, vive sola, è zitella.
 Cosa c’entra questa chitarra adesso. Certo, da giovane suonava il pianoforte ma insomma, gli anni passano per tutti. A una certa età bisognerebbe morire.
 Questo pensiero lo fulminò. Accorgersi di avere una cosa del genere dentro la testa lo atterrì, come se avesse appena scoperto di essere gravemente ammalato.
A una certa età bisognerebbe morire. Dio mio.
Vivere senza quella incredibile vecchietta: che ingrato. E tutte le torte, i maglioni di lana a Natale confezionati con le sue mani
 ( era una maga con i ferri e la lana), e quella sua casa museo piena di mille inutili meraviglie.
Lisetta non era solo una persona, era proprio un pezzo di mondo inghiottito dal tempo, era un avanzo di quel pasto, miracolosamente intatto, fresco come quell’allora perso per sempre. Come aveva potuto pensare di disfarsene in quattro e quattr’otto: le persone ad una certa età dovrebbero morire.
Quella sera la moglie lo vide trafficare con un elenco telefonico, aveva inforcato addirittura gli occhiali.  Elena dissimulò la sua curiosità. Era certa che se quell’impresa eccezionale, che al momento assorbiva tutte le energie del marito, fosse andata a buon fine, lei ne avrebbe ricevuto un dettagliato resoconto: Albino non avrebbe smesso più di vantarsene.
 In caso di fallimento, era meglio non esserne testimone. Elena era convinta che a nessuno piace veramente avere spettatori alle proprie disfatte.  Aveva ragione:  la compassione è un unguento sofisticato, richiede particolare attenzione alle dosi, ai tempi di applicazione, alle mani di chi lo stende.
Andò a dormire tardi Albino quella sera. Sua moglie lo lasciò fare, finse addirittura di aver sonno prima del solito.
Sentiva il marito trafficare con quel benedetto elenco telefonico, si addormentò congetturando.
Alle cinque in punto Elena si alzò e si diresse in cucina a preparare il caffè. Avrebbe svegliato Albino appena fosse stato pronto. Non ce la fece a non dare una sbirciatina: quel foglietto di carta appoggiato sull’elenco e tenuto fermo dagli occhiali, era frutto di prodezza e temerarietà, Albino aveva studiato l’elenco telefonico per ore prima di appuntare il probabile frutto delle sue ricerche. Ignorarlo, sarebbe stato crudele, anzi, volgare.
Elena lo guardò, senza toccarlo,  lanciò uno sguardo di sbieco mentre con le mani unite si chiudeva la vestaglia. C’era scritto:
 Scuola di musica Setticlavio 073\235476.


Una settimana dopo al primo piano interno dodici la pendola batteva le sei. La signorina Lisetta era già sveglia da un po’. Si alzò piano piano. Fece toletta. Si pettinò. La nuvola di capelli bianchi era docile al pettine, ammansita dalla retina notturna e da un velo di lacca.
La signorina Lisetta aveva un appuntamento alle nove e mezzo.
Una settimana prima si era recata al Setticlavio, un’Accademia musicale prestigiosa. Aveva telefonato e preso un appuntamento con il direttore che l’aveva accolta con quel misto di deferenza e compassione che la sua età quasi sempre ispirava.
“Vorrei un insegnante di chitarra a domicilio: è possibile?”
Il Direttore l’aveva guardata con uno sguardo vuoto, come se le sue orecchie non fossero state raggiunte da niente di comprensibile.
La signorina si affrettò a spiegare: “Io suono il pianoforte ma siccome mi hanno regalato una chitarra, avrei piacere di imparare a suonare qualche canzone, niente di troppo impegnativo, per carità. Crede di potermi aiutare?”
Il direttore, a dispetto del suo sguardo vacuo, aveva afferrato già prima di quella precisazione quale fosse la richiesta dell’anziana donna seduta compostamente di fronte a lui. Aveva già un piano. C’era un’insegnante di chitarra molto carina che snobbava sempre le sue timide avances, per niente impressionata dal suo ruolo, anzi, sembrava quasi pronunciare la parola maestro con una particolare intonazione farsesca. Una sovversiva a dirla tutta. Proprio qualche giorno prima gli aveva comunicato:- Scusi Maestro, la volevo informare che sono disponibile per lezioni di chitarra a domicilio nel caso le chiedessero. -Che sfrontata. Trattare quella prestigiosa Accademia come un ufficio di collocamento e lui come segretario. Inaudito. Ma con chi si credeva di avere a che fare.
Adesso, ecco nei panni di questa simpatica vecchina tutta boccoli e perle, la possibilità di vendicarsi. Eccoti l’allieva privata mia cara: tutta artrosi e cervello lento.
“Ci sarebbe una signorina che credo faccia proprio al caso suo. Gliene parlerò al più presto e poi le farò sapere. Di nulla s’immagini. Grazie a lei.”
Il giorno prima, la signorina Lisetta aveva ricevuto una telefonata da quella importante istituzione: “Qui è il Setticlavio, ha chiesto lei un’insegnante a domicilio? Bene, si è resa disponibile un’insegnante, si, domani mattina alle nove e mezzo, va bene per lei? D’accordo. Di nulla. Buongiorno. “

L’insegnante di chitarra

Ogni volta che ritorno qui, davanti a questo platano, mi ricordo di lei.
La prima volta che la vidi era settembre. Mi ricordo l’aria, quell’aria fresca che ti arruffa i peli sulle braccia come fossero chiome di alberi. Mi aveva spedito lì il Direttore del Setticlavio, la scuola di musica approdo e primo lavoro dopo il diploma.
“E’ venuta una signorina di settant’anni, suona il pianoforte ma le hanno regalato una chitarra e vuole imparare a suonarla. Vai a casa sua, questo è l’indirizzo, via porto 106, mi avevi detto che eri disponibile per lezioni a domicilio: no?”
La sfida nei suoi occhi. La sfida nei miei: ”Certo Maestro, ci andrò sicuramente. “
Hai capito il Generalissimo! Un’allieva di settant’anni, magari con l’artrosi deformante alle mani. Bello scherzo: clap, clap,. Lei è veramente generoso M-A-E-S-T-R-O.

Un filo di perle, le sopracciglia disegnate, una nuvola di capelli chiusa da piccoli boccoli sul collo: eccola, sull’uscio di casa.
La deferenza nel porgere il caffè, il pianoforte maestoso nel salone, i centrini ricamati a mano, i biscotti fatti in casa. Ero stordita: dove mi trovavo? In pieno ‘800.
L’ho amata subito. Ho amato il suo sguardo arguto, così diverso dal suo corpo composto, le mani raccolte in grembo, l’abitudine all’obbedienza in ogni gesto. Ma in quegli occhi la sovversione, brillanti come quelli dei bambini quando hanno in mente qualcosa: pericolosi e lucenti. Lei aveva in mente qualcosa.
Voleva imparare a suonare le canzoni napoletane, mi disse.
Ci vedevamo il mercoledì pomeriggio alle 18.00. Vestita di tutto punto, il tè sul fuoco: “Buonasera signorina.”  Non mi sarei meravigliata se mi avesse fatto anche un inchino.
Puntigliosa e solenne, eseguiva i suoi esercizi come se stesse pronunciando un’arringa in sua difesa: “Signori della corte e signori giurati, ho lavorato sodo e voglio che voi lo sappiate.”
Mi faceva sorridere. Se ne accorgeva e allora mi sorrideva con quel lampo negli occhi. Non ci capivo più niente: colomba o falco? Stratega o soldato?
Cominciai a fare domande. “Mio padre era un generale dell’esercito, trattava anche me come un soldatino, alle sei in punto dovevo alzarmi e rifarmi il letto” sorrideva, senza rancore: “Non mi sono mai sposata, ho assistito i miei nonni prima e i miei genitori poi, fino alla fine “.  Era sola. Niente parenti, solo amici condominiali.
Ma perché aveva quella sovversione felice nello sguardo? Cominciai a congetturare.
Forse era a capo di un’organizzazione clandestina, forse di una bisca: giochi di carte, slot machine. Me la immaginavo con un grosso sigaro tra le labbra mentre dava ordini a due sgherri xxxl con un rigonfiamento sospetto sotto la giacca, altezza ascelle.
Poi lei tornava con il suo vassoio lucente, le tazze a motivi floreali, i biscotti al profumo di arancia. Ed io ritornavo lì, di nuovo sedotta da tanto candore e soavità. Ma bastava una battuta, una risata, qualunque cosa riuscisse ad illuminarle gli occhi da dentro ed ecco, di nuovo quel guizzo, quella scintilla: la pagliuzza d’oro nella pelle dell’orso che in realtà era un principe. Forse era una maga. Si, in realtà quella casa era l’anticamera di un castello, come avevo potuto non notare il fasto dei tendaggi per esempio. Erano abiti da sposa più che tende: sottane lisce ricoperte da drappi ricamati, splendide architetture di balze, perfette armonie di arpeggi simmetrici. E la profusione di ninnoli?  Ogni genere di statuine, acquasantiere, animaletti di ceramica, gesso, vetro. Erano sicuramente doni di famiglie nobiliari in visita, simboli del prestigio di antiche casate.
Era diventata una mania congetturare su quella donna, sulla sua vita che come un vascello fantasma sarebbe colata a picco con tutti i suoi tesori, per sempre.



Fine novembre, mercoledì ore 18.00. Per me, un mercoledì qualunque.
“Non c’è, ha lasciato questo per lei” m’informò brevemente il portiere. Una lettera.

“ Cara signorina,
quando riceverà questa lettera, io sarò seduta dietro ai finestrini di un treno in viaggio verso Madrid. L’aereo ci avrebbe messo meno tempo, lo so, ma è per persone moderne, io vivo ancora in un mondo che va piano piano. Mi sento come un ergastolano in libera uscita: - Vai pure Jo che qui dobbiamo dare la cera, e non farti vedere prima di domani. Libera? Mi capisce?
Vado da mio cugino Carlos.  L’ho conosciuto per una faccenda di eredità, non sapevo neanche che esistesse prima di due anni or sono. Dopo tante lettere e telefonate, mi ha invitata. Ci ho messo un anno per decidere di andare. Il tempo di pensare e preparare un regalo per lui. Lui, dice che ci sposeremo. Chissà.
 Se accadrà, ho pronto il mio regalo di nozze, tutte le canzoni che lei mi ha insegnato. In un matrimonio immagino ci voglia anche un po’ di allegria.
Non le ho detto nulla per non rovinarle la sorpresa e poi, non mi avrebbe mai creduta.
Abbia cura di sé, e mi saluti il Direttore della scuola, che cara persona.
Le farò avere mie notizie, intanto le auguro ogni bene.
                                                  Lisetta


















10
Sentimentale / La crostata
« il: Agosto 23, 2011, 14:52:47 »
Francesco

Avrebbe voluto dirglielo al suo capo: lasciami in pace.
Lo usavano come caprio espiatorio di tutte le rogne dello studio: era l’avvocato delle cause già perse, quelle rognose, impossibili, ma lui era dannatamente bravo. Conosceva il diritto, eccelleva nella sua  interpretazione, era un vero fuoriclasse. Lo sguardo azzurro e saldo da dominatore, la bellezza tagliente dei lineamenti, gli attiravano in egual misura invidiosi ed apostoli con il loro corollario di sgambetti e suppliche.
Francesco era tornato a casa quella mattina perché aveva dimenticato dei documenti.
Il caos che lo accolse era innaturale. Ludovica nutriva un gusto maniacale per gli assetti geometrici e minimalisti del suo ambiente: non usciva mai prima di aver sistemato ogni cosa.
 Il letto disfatto, i panni spiegazzati sulla poltrona, la macchinetta del caffè smontata nell’acquaio, le ciabatte abbandonate nel corridoio, la scarpiera aperta, erano un grido lacerante, l’immagine scomposta di un vetro, un nanosecondo prima di disintegrarsi in mille pezzi.
Francesco lavò la caffettiera, la riempì, la mise sul fuoco, si allentò la cravatta.
C’era una lava di ansia pronta a scivolargli addosso da un foro imprecisato del soffitto, riusciva tenerla lì sospesa semplicemente ignorandola.
Alla seconda tazzina di caffè il suo capo lo chiamò per avvisarlo che l’udienza di quella mattina era stata rinviata. Stai a casa e mettiti a lavorare alla memoria difensiva del Rinaldi; Francesco capì solo: stai a casa. Era quello che avrebbe fatto in ogni caso, una volta tanto era d’accordo con il suo capo.
Fece un po’ di ordine poi si decise a cercare sua moglie, così, tanto per comunicarle  penso io al pranzo, pochi secondi, che ci voleva? Ludovica era al lavoro come sempre, era lui fuori luogo, fuori tempo. Certo, c’era quella faccenda del disordine, quel tassello che non entrava nel puzzle, il brutto anatroccolo figlio di un’altra storia ma insomma.
Cercò sua moglie in ufficio ( la signora ha avvisato che sarebbe rimasta a casa perché aveva la febbre); al cellulare ( il cliente desiderato… ); chiese di lei in garage ( l’auto è stata prelevata come sempre alle 8.30).
L’azzurro cupo dello sguardo era una striscia di terra irrigata dall’angoscia ora.
Telefonò ancora: amici, parenti, conoscenti. Nessuno l’aveva vista.
Erano le 12.20. Alle 13.30 Ludovica torna a casa. Sempre. Un’ora, solo un’ora poi chiamo la polizia.
Quanto può durare un’ora così? Infinitamente. Cosa si può fare in un’ora del genere? Qualcosa di memorabile, da poter poi raccontare cominciando così: “ E mentre aspettavo che trascorresse quell’ora interminabile mi misi a…”
Sembra facile, anche la grazia leggera del funambolo fa sembrare illusoriamente naturale il suo camminare su di un filo sospeso a molti metri dal suolo.
Si mise a fare una torta. Era difficile per lui, questo lo avrebbe costretto a concentrarsi. Era una cosa frivola, quindi lo avrebbe obbligato a vivere quell’ora all’interno di un destino di normalità e leggerezza senza virare un’ora prima verso la tragedia.
 Era una scelta adeguata.
Si liberò rapidamente del suo giacca-cravatta di ordinanza e si consegnò docile alla sua morbida tuta blu di pile.
Indossò il grembiule di Ludovica. Prese il libro con le ricette delle torte dalla mensola; lo riconobbe dal dorso azzurro perfettamente allineato a quello rosso delle ricette macrobiotiche e a quello giallo della cucina vegetariana. Sfogliò e si fermò a pag.10:
                                           

PASTAFROLLA

 Fare la fontana con la farina, riunire al centro il burro a pezzetti, morbido, aggiungere lo zucchero e cominciare a lavorare…

La farina scorreva dalla fontana della busta, scivolava,
come uno scroscio d’acqua scendeva senza scemare da quel cielo di carta.
Pioveva a dirotto quel giorno. Ludovica correva. Francesco leggeva il giornale seduto nell’autobus n.4  Ferrovia – Tribunale.
Ludovica entrò in un autobus a caso fermo alla stazione per sfuggire a quello schiaffo d’acqua inesorabile. Era furiosa.
Francesco le sorrise. Lei, grondante, gli sorrise. Parlarono fino alla fine della pioggia.

 …aggiungere sale, marsala, tuorli, scorza di limone

Piovve molto quell’inverno e Ludovica continuava a dimenticare l’ombrello. Continuavano ad incontrarsi nell’autobus. Dopo poco tempo conoscevano tanti dettagli l’uno dell’altro che sommati, aggregati, diventarono piccoli cristalli di sale, una fitta grandine di ricordi.
Il disco giallo del sole era un tuorlo d’uovo perfetto dopo la pioggia quando loro, al bar di fronte alla stazione, consumavano l’ormai solita cioccolata calda con scorza di limone, alla maniera amalfitana.

 … lavorare velocemente l’impasto, farne una palla e metterla a riposare al fresco una mezz’ora, avvolta in un panno bianco…

Di quel primo appuntamento fuori dall’autobus, Francesco ricordava le lenzuola candide di bucato della casetta al mare, tirata a lucido da Ludovica.
Si abbracciarono talmente tanto da sembrare una palla di farina impastata, morbida carne umana dopo la breve lotta di un desiderio urgente, lievitato molto tempo prima nell’immaginazione.

Ore 13.00
Decise di preparare la marmellata di cachi da mettere sulla pasta frolla.

 Lavare i cachi e togliere i noccioli…

Senza quel cuore duro i cachi si aprivano nelle sue mani, da un solo frutto saldo si staccavano facilmente quattro pezzi separati.
Fu così anche dopo l’incidente, dopo la morte di Lorenzo e zio Valerio: zia Ester, Ludovica, sua madre, suo padre, divennero un frutto smembrato.

 Frullare la frutta e aggiungere zucchero e succo di limone

Ludovica era cambiata dopo la morte del fratello e dello zio.
Più dolce in certi momenti, come un cieco che si affida alla mano che lo sorregge, ma anche scontrosa, aspra, nei giorni in cui certe assenze diventavano insopportabili. In quei momenti continuava a girare nel labirinto delle sue domande, come in un frullatore che amalgama tutto, fino a rendere irriconoscibili la realtà e la fantasia, il passato e il presente, la morte e la vita.



Ore 13.20
La cucina era in ordine, con gli odori ancora nitidi, rinfrescati dallo scroscio dell’acqua appena spento: aveva lavato tutto.
La paura lo aggredì all’improvviso, sembrava emersa dallo strofinaccio con cui si stava asciugando le mani. Da dove altrimenti? Da quale foro dell’anima sbuca quel turbamento che rende tutti piccoli allo stesso modo? E’ un livellatore di potenza la paura, sinistramente tendente allo zero.

Ore 13.25
Spalmava la marmellata sulla pasta frolla. Crostata di cachi, una buona unione, pensò, con tutti gli ingredienti giusti:
una lava incandescente di marmellata appassionata su di una terra compatta di pasta frolla per un solido progetto di vita in comune;
l’argine rispettoso della crosta per evitare derive appiccicose;
l’accogliente porosità disponibile alle contaminazioni ma non alle fusioni.
Ecco: era pronta.

Ore 13.28
Se adesso entri da quella porta,
ti dico le cose più dolci, più banali, perché siccome non te le dico mai sono diventate solo mie come il tesoro di un avaro, la refurtiva di qualcosa che ti appartiene;
Se adesso entri da quella porta,
ti chiedo scusa per aver fatto diventare normale e ordinaria la tua presenza nella mia vita, per aver banalizzato la gioia, il privilegio di te;
Se adesso entri da quella porta,
pronuncio la mia arringa più commovente, la mia difesa più alta, per convincere il tuo dolore a lasciarti andare alla tua vita, alla tua vita con me;
Se adesso entri da quella porta…

Lo scatto della serratura lo colpì in pieno petto.
I passi nel corridoio.
Le chiavi poggiate sul mobile di fronte all’attaccapanni, sotto lo specchio.
Il cappotto sfilato.
I passi.
Più vicini.
Sempre più nitidi.
Ad un passo.
“Francesco”
“Ludovica”


“                “
“               “
“ Ho fatto la crostata.”


















11
Sentimentale / Il professore Rega
« il: Agosto 16, 2011, 14:44:48 »
Il professore Rega



La sveglia suonò al primo piano interno 11, alle sei, come sempre, ma il professore Rega non rispose al suo invito ad alzarsi. Aveva sessantacinque anni e quell’anno sarebbe andato in pensione. Insegnava lettere al liceo classico Giacomo Leopardi.
Se i suoi allievi lo avessero visto a letto, con  i capelli brizzolati  arruffati, la giacca aperta per mancanza di bottoni, le lenzuola lise, le ciabatte esauste e scolorite, non lo avrebbero riconosciuto. Per loro il professore Rega non era un uomo trasandato.
 Alto, lo sguardo grigio verde attento, Rega aveva un aspetto fresco e un buon profumo corteccia e muschio. Quella mattina non si alzò.
C’era il pranzo con gli allievi del quinto anno quel giorno. Se ne andavano, era già successo con tanti altri. Anche la moglie di Rega se n’era andata, da tre anni ormai. Era morta silenziosamente. L’anno dopo Diego, suo figlio, si era trasferito in Canada.
Rega quel giorno non si alzò perché era stufo di addii.
In quella casa era tutto liso, spento. Solo i vestiti erano in bell’ordine nell’armadio e le camicie perfettamente allineate nei cassetti, solo loro sembravano appartenere al presente, merito della lavanderia al civico 100 di quella stessa strada. Tutto il resto sembrava sospeso, proveniente da un tempo indefinitamente lontano.
Erano le undici quando finalmente il professore si alzò e andò in cucina a prepararsi il caffè. La tazzina sbreccata in mano, si accomodò al computer ma prima oscurò completamente la stanza abbassando la persiana. Si vide per un attimo riflesso nei vetri: <<Come sono invecchiato>> pensò.
Si collegò ad una chat incontri. Aveva scritto il suo profilo mentendo su tutto. In quel mondo lui era tale Socrate 60, quarantasettenne celibe, bella presenza, sensibile, amante della musica e della buona cucina. Gli scrivevano un sacco di donne. Era avido di quelle presenze e del disprezzo che provava per loro. Si era abituato a quella sensazione agro-dolce, non riusciva più a farne a meno.
Un rumore all’uscio lo distolse dalla sua conversazione con Regina di Cuori.
Era il portiere che, come sempre, gli lasciava la busta della spesa attaccata al pomello della porta. Poche cose: pane, latte, affettati. Rega gli lasciava la lista sotto l’uscio. Albino si preoccupava di fargli avere quanto richiesto entro mezzogiorno e se non trovava la lista comprava comunque pane e latte.
Quel rumore avvertì Rega che era mezzogiorno. Aspettò che il portiere se ne fosse andato per prendere la busta. Non aveva fame.
Alle quattordici uscì. Albino era chiuso nella sua casetta di portineria, si godeva la pausa pranzo.
Il portone era vuoto, non lo vide nessuno.
I pontili deserti erano lustri di acqua e sole. Sembrava un ragazzo Rega con la tuta da ginnastica e lo sguardo disteso dall’aria frizzante di quel settembre ora benevolo ora nuvoloso.

Quando suo figlio Diego era piccolo lo portava a pescare sul molo. Poi era cresciuto ed era successa quella cosa che li aveva allontanati. Quella faccenda dell’omosessualità.
Rega un figlio omosessuale non se lo aspettava. Niente contro nessuno per carità. Lui era un uomo di cultura, aperto, emancipato. Non come la moglie che quella sera, quando Diego li invitò a cena fuori per comunicargli la notizia, si mise a piangere.
Lui a tavola non battè ciglio, anzi, era anche un po’ seccato per tutta quella messinscena: “Vi porto a cena fuori, devo parlarvi di una cosa terribilmente importante”.
 La cena fuori, il ristorante particolare, la reticenza iniziale.
Che bisogno c’era di tanti misteri, avrebbe potuto dirlo così, dirlo e basta, in un momento qualunque, non so, ma insomma: era gay. Così si diceva. E allora?
E allora perché si sentiva così contrariato Rega , quella sera, andando a letto?  Non certo per quella faccenda del ristorante e tutto il resto. Diego era così, un po’ cinematografico diciamo, ma in questo non c’era niente per cui contrariarsi, anzi. A lui era sempre piaciuto quel gusto della cornice che il figlio aveva da sempre molto spiccato. Diego ritualizzava e impacchettava con grandi fiocchi tutte le banalità che possono venire in mente. Era così. Così come? Com’era Diego, adesso che ci pensava?
Fino a quella sera aveva creduto di conoscerlo benissimo:
Diego, mio figlio.
 E adesso se lo ritrovava gay. Cioè? Baciava gli uomini, si faceva toccare da loro, ci andava a letto, si, in quel senso.
Ebbe gli incubi quella notte. Aveva delle parole in testa che lo braccavano, volevano esplodergli dentro e lui le ricacciava come mosche fastidiose, come serpenti viscidi, odiosi, che schifo! Ecco. Il primo boato, la prima deflagrazione seguita da tante altre piccole onde d’urto, che schifo che schifo che schifo…
Si alzò come sempre alle sei. Corse fuori da quella casa subito dopo la doccia, aveva compito in classe, si giustificò, doveva fermarsi a fare delle fotocopie.
S’incamminò a piedi, si sentiva osservato come se tutti i passanti potessero accorgersi solo guardandolo del suo segreto. Già, il segreto. Ma Diego a chi lo aveva detto? Prima che a loro, prima che a lui? Dio mio, forse era da tempo lo zimbello di tutta la sua famiglia e non lo sapeva. Ecco perché suo fratello Carlo, al matrimonio del figlio, aveva fatto quella battuta su Diego, sui nipoti che non gli avrebbe mai dato. Ma no, che pensava, che c’entrava adesso suo fratello Carlo. Dio mio, Dio mio, sentiva i pensieri guizzargli nel cervello, era tutto accelerato dentro di lui, non riusciva a rallentare, a riprendere il controllo.
Passavano i giorni e la catastrofe si confermava ai suoi occhi, s’ingrandiva, mostrava risvolti inattesi, pretendeva di riscrivere la storia del suo rapporto con il figlio: quando era successo? Quale episodio? Aveva commesso qualche errore? Quando? Perché?
Passarono gli anni. Non ci pensò più. Fece una semplice operazione di restringimento: delimitò il perimetro della sua vita, la quantità degli incontri, delle  parole pronunciate, dei pensieri persino.
Teneva lontano quella cosa tagliandole i ponti di accesso fino a lui. Si lasciò risucchiare dai suoi studi e continuò a vivere come poteva.
La moglie morì dopo sei anni. Diego un anno dopo si trasferì in Canada. Non lo vedeva da due anni. Non lo sentiva al telefono ormai da mesi.



Quel temporale lo sorprese mentre guardava le barche ormeggiate. Si avviò con il bavero rialzato, non si trovava molto lontano da casa. La pioggia aumentava d’intensità ad ogni istante, magri rivoli prima, una grandine maligna poi, sferzante, sul suo corpo curvo in corsa. L’acqua veniva giù dal cielo compatta ora: era un enorme cono di luce liquida.
Rega correva, i pochi passanti correvano, inquieti per quell’inaspettato travaso di acqua dal cielo. Rega correva ma ad un certo punto smise, rallentò, si fermò. L’acqua gli cadeva addosso con la violenza di una diga spezzata, di un argine violato. Piangeva il professore, ora, ma era acqua mescolata ad acqua, non si notava la differenza.
 Arrivò sotto casa bagnato fin dentro l’ultimo anfratto, l’ultima cellula del suo corpo. Tremava.
Albino stava lottando contro il vento per chiudere il portone quando lo vide: “ Professore, professore Rega, ma come, ve ne andate in giro con questo tempo”
 Rega non rispondeva, non sapeva cosa dire.
La moglie di Albino, la signora Elena, arrivò con un asciugamano  bianco, morbido: “Entrate professore, entrate un momento, ho acceso la stufa “
Rega si lasciò portare in casa. S’infilò dei panni di Albino mentre fuori la tempesta continuava ad urlare. La luce andava e veniva. Rimase fino ad ora di cena. Cenò con loro. Albino ed Elena erano increduli di avere in casa un ospite così importante, non la smettevano più di affannarsi attorno a lui, che se ne stava lì, tranquillo.
Tornò a casa tardi. Ebbe voglia di tagliarsi le unghie, da Albino aveva notato che erano troppo lunghe. Ammucchiò le unghie recise sul pavimento, gli sembrarono tanti piccoli cadaveri.
Si chinò a raccoglierle e notò, abbandonate in un angolo, le sue ciabatte sfondate, gli sembrarono vecchie serve fedeli in attesa di accompagnarlo verso la notte. Le ignorò. La lucina del computer occhieggiava, poco più in là. Immaginò Regina Di Cuori dall’altra parte dello schermo: sorrise.
Finalmente vide quello che stava cercando. Il telefono.
Cercò un numero nelle rubrica telefonica. Ci volle un po’ di tempo per ottenere la conversazione con l’abbonato, il Canada è pur sempre dall’altra parte del mondo.
Parlò a lungo con il figlio, gli raccontò del suo naufragio, di Albino ed Elena, del suo ricordo lì sul molo.

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Presentazioni / mi chiamo dorotychecorre
« il: Agosto 15, 2011, 20:32:07 »
Ciao, mi chiamodorotychecorre perchè mi ricorda l'amore tra una giornalista, Doroty, e un uomo medicina cheyenne, Nube che corre. E' un nome che racchiude molte cose che amo: gli indiani d'America, la natura, la scrittura, la passione per la verità e il rispetto per la vita. E altre ancora... Grazie per avermi accolta nel vostro forum. Grazie davvero. A presto. Dorotychecorre

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Sentimentale / viviana
« il: Agosto 14, 2011, 20:56:51 »
Giulio


Albino lo vide rientrare come al solito alle ventuno.
“Buonasera dottore.”
“Albino! Buonasera.”
Albino aveva notato che da un po’ di tempo il dottor Giulio aveva cominciato a salutarlo così: “Albino! Buonasera. “
Prima il suo nome, lo chiamava come se si meravigliasse di vederlo lì, come se non lo vedesse da tempo, o forse era semplicemente assorto e si stupiva anche delle cose più semplici ed ordinarie come la sua presenza. Poi quel buonasera, a mezza voce, quasi sfinito dopo quel guizzo di meraviglia: “Albino! Buonasera.”
Giulio rientrò nel suo appartamento. Aveva freddo, la donna delle pulizie aveva dimenticato il balcone aperto. Il frigorifero era quasi vuoto. Ordinò svogliatamente una pizza che arrivò fredda, di venerdì succedeva, e poi fuori dovevano esserci poco più di tre gradi, un dicembre insolitamente rigido, lì, vicino al mare. Mangiò la sua pizza fredda guardando un film che non gli piaceva. Si assopì sul divano, vagamente consolato dal tepore volenteroso dei termosifoni, dal graffio bonario della birra e dalla dolce mollezza che lasciava nel corpo al suo passaggio.
Si svegliò a mezzanotte circa: lo accolse il gracidio insistente di un stagno televisivo pieno di ospiti che discutevano di qualcosa. Era sovrastato da quello schermo incontinente.
 Si alzò. La semplice ipotesi di andare a letto gli sembrò piena d’insidie. Meglio rimandare.
Decise di aggiornare il diario dei suoi casi clinici. Lo stava scrivendo da qualche anno ormai, da quando la sua boria di giovane pediatra meccanico riparatore si era consumata, prosciugata dalle sconfitte, dalla morte che pure arriva. Scriveva d’altro, di occhi, di sguardi per esempio. Quel giorno appuntò:
 “Stamattina alle undici ho visto Giorgio, quindici anni, carcinoma alle ghiandole surrenali. Avevo voglia di vederlo, l’ultima chemio è stata un bel match anche per un campione come lui. Alla fine del turno sono passato a salutarlo. Era da solo, stranamente, girato di spalle alla porta. Così raggomitolato aveva qualcosa d’inerme, la testa lievemente incassata nel collo, con le spalle tirate su.
Dava quella sensazione di una certa vergogna colpevole che provano alcuni pazienti: si sentono colpevoli come se la loro malattia fosse una punizione divina, un marchio ignominioso.
Ho esitato un attimo sulla porta, deve aver sentito la mia presenza perché si è girato e mi ha piantato quei suoi occhi in faccia. Si è girato piano, roteando sul busto senza stendere le gambe. E’ stato come vedere apparire un astro da dietro le montagne. Il suo sguardo acceso è sorto di fronte a me e ha sfondato la sottana trasparente della penombra con il suo orlo d’oro, echi di luce dal viale, lampioni accesi fuori da quella stanza, da quell’ospedale, in un altro mondo ad un passo lontanissimo da lì.
“Ciao”
“Ciao dottore, che vuoi?”
“Niente, passavo”
“Perché sei vestito normale?”
“Normale… ah, senza il camice. Ho finito il turno me ne sto andando a casa “
“Com’è la tua casa?”
“Una casa, niente di particolare. Posso sedermi?”
“Si. E tua moglie? Sta a casa?”
“No, se n’è andata. E tu Giorgio, come ti senti?”
“Mi fa male la testa”
“E’  un effetto della chemio, domani ti passa, poi se ti senti bene te ne vai anche tu a casa, d’accordo?”
“D’accordo”
“Ci vediamo domani, riposati”
“Dottore”
“Si”
“L’hai fatta arrabbiare, per questo se n’è andata?”
“No, è difficile da spiegare. Te lo racconto quando non hai il mal di testa se vuoi.”
“Va bene. Ma fai qualcosa per farla tornare”
“Cosa?”
“Scrivi una lettera”
“Va bene Giorgio, seguirò il tuo consiglio”
“Non mi fido, domani la voglio leggere”
“Sei un duro, eh? Ci vediamo domani”
“Ciao.”

Si ricordò in quel momento della promessa fatta a Giorgio.
Preparò una lettera  e se ne andò a dormire.

“Con questa non torna”
“Perché, non ti piace?”
“Non è di cuore, e poi è troppo corta”
Era talmente pallido.
 “La devo riscrivere?”
“Si, ti devi impegnare se no non torna.”
La mamma di Giorgio guardava Giulio imbarazzata. Anche Giulio era imbarazzato ma per altri motivi.
La sera riprovò a scrivere. Sembrava proprio che Giorgio ci tenesse a quella lettera, non lo aveva mai visto così interessato a qualcosa.
“ Cara…” voleva inventare un nome ma chissà perché pensò che Giorgio se ne sarebbe accorto.
“ Cara Viviana”. Non pronunciava quel nome da un anno. Lo vide scritto sullo schermo e risentì i suoi passi sulle scale, le pentole riordinate in cucina dopo cena, le mani fresche di crema sul suo viso.
Si allontanò dal computer, si mise a guardare un film già cominciato. Sullo schermo, quel nome, chiacchierava sommessamente con il silenzio.
Era molto tardi quando riuscì a finire la seconda stesura della lettera.

“Si chiama Viviana?”
“Si. Torna se le mando questa?”
“No”
“Perché?”
“Perché non hai scritto cosa ti manca”
“Cioè?”
“Quando sto a casa, la mattina, mi sveglio e sento l’odore del caffè. Poi sento mia mamma che mette in funzione la lavatrice, mio padre che prende le chiavi prima di uscire. Quando sto in ospedale mi manca questo, i rumori, gli odori, che mi fanno riconoscere le persone.”
Era pallidissimo. Aveva gli occhi umidi di febbre e nello sguardo quella supplica: voleva che lui facesse quella cosa, Giulio non capiva perché lo desiderasse tanto.
Gli sfiorò la fronte: scottava. Lo coprì. Sembrava assopito, aveva gli occhi chiusi adesso.


“Albino! Buonasera”  Pizza fredda. Divano. Si addormentò vestito, con il solito sottofondo berciante del televisore.
Erano le due forse le tre. Si svegliò aggredito dal freddo. Era ad un passo dal letto, dalla promessa di calore del piumone, quando si ricordò della lettera. Tentò di liquidare la questione ripromettendosi di farlo la mattina dopo prima di uscire.
Pensò a Giorgio, era stufo di deluderlo. Si buttò una coperta addosso, accese il computer.

“ Cara Viviana, è talmente tardi che non ho più scuse per essere sveglio: sono nel regno della notte e dei suoi sudditi, viandanti inquieti, matti o soli come me. Scrivo, a te che sei lontana.”

Sentiva un dolore liquido invadergli il petto, le gambe. Continuò.
Scriveva. La testa leggermente incassata nel collo, con le spalle tirate su. Aveva qualcosa d’inerme, la stessa vergogna colpevole di Giorgio per aver meritato il suo dolore. Ma stasera non era più solo, faceva parte di qualcosa, così gli sembrava, apparteneva alla stessa trance di vita sospesa in cui vivevano i suoi pazienti. Sospesi.
Scriveva.
“ (…) sono sordo della tua presenza ( …) ti scriverò fino alla fine della notte”.

“Ci manca solo una cosa”
“Che cosa?”
“I baci e le carezze”
“E tu che ne sai di queste cose eh Giorgio?”
“Glielo devi dire che ti mancano i suoi baci e le sue carezze. “
“Secondo te se le mando questa lettera torna?”
“Non lo so”
 “E allora perché me l’hai fatta scrivere?”
“Volevo vedere se eri coraggioso”
“Come te?”
“Io non sono coraggioso, ho paura”
“Di cosa hai paura precisamente?”
“Del dolore. Di morire.”
“Al dolore non ci pensare, ci penso io a fartene sentire il meno possibile. Per quanto riguarda la morte c’è tempo; domani ti mando a casa: contento?”
“Molto”
“Grazie Giorgio”
“Grazie a te dottore. Se torna me lo dici?”
“Certo. Te la faccio conoscere.”
“Non ti preoccupare, torna, perché sei bravo”
“Ciao Giorgio”
La sera, aggiunse l’ultimo pezzo alla sua lettera e la inviò.



Viviana

Era un monolocale abbastanza luminoso. A Viviana piaceva perché era un ambiente unico ma con tanti piccoli angoli che lei si ostinava a chiamare Lo studio, Il salotto, L’angolo della lettura.
Quella sua minuscola casa sembrava un fondale marino: anfratti, grotte, piccoli squarci d’infinita bellezza come quella vecchia macchina per scrivere. Era adagiata su di un tavolino basso di ebano. La luce dell’abbaino, entrando, scivolava addosso al suo corpo nero con quelle piccole chiazze marroni di vita erosa, s’insinuava nel rullo, avvolgeva il carrello,  s’inerpicava sulla leva altera, scendeva sui tasti impudichi, grondanti le storie africane, i reportage scritti dal padre su quella terra che lo aveva innamorato e in cui aveva vissuto con la sua famiglia per dieci anni.
Viviana chiuse la valigia: era pronta.
Si mise a cercare due foto, voleva portarsele. Le trovò.
Kenya, Nairobi, 15 novembre 1973 ( Viviana e Mapengo)
Il bambino che mi ha insegnato a dire in swahili  una frase magica per guarire dalla nostalgia:
 “ Mama, kama wewe taitua mimi, mimi tarudi tu;
 ogni volta che mi chiamerai sarò lì con te”
Italia, Roma, 1988  Io e papà nel giorno della mia laurea in medicina.
“ Va bene, porto queste” decise.
Raggiunse la valigia davanti alla porta e consegnò alla barriera dentata di una cerniera il suo piccolo album.
Controllò il biglietto: Roma \ Nairobi. Chiamò per gli ultimi dettagli il suo referente di Medici senza frontiere. Risentì con piacere quella voce smerigliata dalle troppe sigarette, forse, con delle curve più acute a tratti, quando voleva tagliare gli angoli delle difficoltà alle incertezze dei volontari.
Prima di spegnere il computer portatile controllò la posta. C’era una lettera. Cliccò.
La valigia era lì, davanti alla porta, con le guance paffute, serafica. La casa era illuminata da un striscia sbieca di sole, sfuggita all’abbaino e impallidita dal velo bianco della tenda.
Viviana leggeva:




" Ciao. E' talmente tardi che non ho più scuse per essere sveglio: sono nel regno della notte e dei suoi sudditi, viandanti inquieti, matti o soli come me. Scrivo. A te che sei lontana. Volevo dirti che ho fatto un inventario di tutto quello che nella tua fuga precipitosa hai portato via da qui. Controlla se hai preso tutto o se ti manca qualcosa che dovresti assolutamente tornare a prendere. Vediamo.
Hai portato via con te:
- il rumore della caffettiera tirata via dallo scolapiatti alle 6.00 del mattino
- il fruscio indolente della vestaglia
- lo sbadiglio della veneziana che trillava dietro i vetri
- le luci livide del porto sulla tua tazzina del caffè
hai portato con te
- lo sciame caldo della doccia
- i sussulti della radio mal sintonizzata
- lo scorrere sgraziato del pettine sulle piccole ribellioni stridule, dei nodi, nei tuoi capelli terra e fili di luce
- hai portato via il barrito del tram contro il cielo grigio, mentre t'inghiottiva".
" Hai portato via l'intima sonorità:
- dei tuoi passi che tornavano la sera
- delle pentole riordinate
- delle finestre chiuse in faccia alla notte
- della crema caprifoglio e malva e l'orma delle tue mani fresche sul mio viso".
" Anche quel silenzio
- il silenzio dopo l'amore
- l'abbraccio sfinito
- il sonno nudo del tuo seno, hai portato via,
- i baci
- i baci e le carezze di questa voglia di te che hai dimenticato nel mio corpo inerme".
" Sono sordo della tua presenza e stanotte ti scrivo per chiederti se hai lasciato qui, qualcosa di te che posso tenere, assieme all'ombra di questo amore e alla mappa sonora di te. Ti scriverò fino alla fine della notte."  Giulio

Era pallida. Ripensò all’ultima volta che aveva parlato con Giulio:  “Non voglio passare la vita ad aspettare che ritorni o riparti per l’Africa. Non voglio vivere con la tua assenza. Non ce la faccio Viviana.”
Era passato un anno. Se ne stava lì, immobile, aspettando che l’eco di quelle parole appena lette si spegnesse, per poter riprendere a respirare.
All’improvviso si alzò.

Si mise a correre giù per le scale a precipizio ma erano senza fine saltava i gradini a due a tre in un’ansia di luce dolorosa e il portone le sembrò un ventre materno dal quale evadere dopo aver attraversato un inferno di acqua e sangue e correva correva lungo strade dritte e viali e semafori pigri nel loro eterno respiro ternario stop via attenzione stop via attenzione correva e tutto attorno urlava ignaro  che lei aveva poco tempo
un cronometro invisibile puntato alla schiena come una pistola come l’ultimo istante come la parola fine come un amore che si sta rassegnando correva perché aveva capito una cosa una cosa che conteneva tutte le cose tutte le ragioni una cosa che si allungava nella sua mente come il ponte su di un baratro una di quelle cose belle che arrivano all’improvviso come l’ultima parola del cruciverba il cacciavite giusto la colla che in incolla gli auguri dei nemici a Natale correva senza fiato senza gambe senza corpo correva su quella strada luminosa che le si era accesa davanti agli occhi ci poteva anche morire su quella strada sarebbe stata una morte perfetta dopo una vita perfetta grazie a quella piccola luce perfetta correva sorgeva e tramontava su marciapiedi percorsi e dimenticati come cibo divorato e digerito correva correva e i cartelloni pubblicitari le auto bercianti i bambini tirati di mala voglia dal tepore notturno tappezzato di favole e sogni la guardavano correre e per un istante partecipavano anche loro a quel guizzo a quel balzare di vita urgente imperioso correva ancora quando vide il platano e capì che tra poco avrebbe potuto respirare a pieni polmoni come l’affogato che sfugge all’onda per sempre avrebbe sentito tremare tutte le cellule dentro in un chiacchierio concitato cosa accade cosa accade tutte lì a pizzicare la pelle un alveare luminoso di vita vita vita scale di corsa e vita scale scale e vita. Gli cadde addosso. Appena aprì la porta.
Giulio l’abbracciò fino alle ossa. Glielo disse ansante. Sfinita. Come se temesse di dimenticarlo.
-  Mama… kama wewe… taitua mimi… mimi… tarudi…tu.










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