Autore Topic: Ma se ci fosse una letteratura sana il sistema la farebbe passare?  (Letto 921 volte)

andrea7

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Qui di seguito un interessante articolo di Enzo Gioanola
La critica analitica di Elio Gioanola applicata ai grandi del ‘ 900: nei conflitti irrisolti dell’ inconscio la chiave del successo artistico
Da Pascoli a Pavese, le nevrosi dei geni
Fantasie, paure, deviazioni e desideri inibiti dei letterati celebri in una descrizione spietata D’ ANNUNZIO Nell’ esibizionismo il Vate nascondeva una vocazione oscura
 

Si dice creatività, si pronuncia nevrosi. O addirittura psicosi. La tesi di Elio Gioanola è presto detta: «Dietro e dentro l’ opera c’ è sempre la presenza di un conflitto pulsionale, di un desiderio inibito e deviato, di una sofferenza». Gioanola infatti è un critico psicanalitico della letteratura. Uno dei pochi. Perché in Italia, come dimostra il saggio introduttivo del suo nuovo libro (Psicanalisi e interpretazione letteraria, Jaca Book, pagg. 446, 24 euro ), quello tra psicanalisi e letteratura è sempre stato un rapporto difficile. I nomi, dopo quello di Giacomo Debenedetti, sono noti: Stefano Agosti, Francesco Orlando, Mario Lavagetto e pochissimi altri. I numerosi saggi contenuti nel volume di Gioanola sono sondaggi che vanno «al di là della compiutezza formale» dell’ opera letteraria per indagare le «zone oscure del fantasmatico profondo». Detto in parole povere, analizzano i testi in relazione al vissuto dei loro autori, alle loro fantasie, paure, ossessioni, e viceversa. Rifiutando un biografismo di superficie ma anche quella sacralità del testo come un tutto chiuso e spiegabile in sé. Opponendosi dunque alle letture strutturaliste o sociologico-marxiste che hanno segnato molta parte della nostra critica. «La tradizione idealistica italiana – dice Gioanola – ha influito sulla critica italiana per oltre mezzo secolo: c’ è stata una specie di storicismo radicale che ha impedito una vera attenzione alla psicanalisi». Dunque, da Leopardi a Pascoli, da Saba a Montale, da Caproni a Sanguineti, tutta la letteratura italiana moderna si trova qui raccolta sotto i fari dell’ analisi dell’ inconscio. Da questo e dagli studi precedenti di Gioanola, viene fuori, volendo, una mappa dei nostri scrittori come «casi clinici». A cominciare da quelli che il critico considera i più gravi: Luigi Pirandello, Federigo Tozzi e Carlo Emilio Gadda. Vediamo. «La personalità di Pirandello – dice Gioanola – ha a che vedere con una vera e propria psicosi, con una compromissione della consistenza dell’ io. Nel Fu Mattia Pascal, l’ identità del protagonista è impossibile, una personalità che tende a scindersi e un io che esplode». Passando dal personaggio al suo creatore, le cose stanno diversamente, ma non troppo. «La condizione psicologica dello scrittore è quella di uno schizoide sano di mente, per così dire, uno schizoide che non diventa schizofrenico ma che è tendenzialmente scisso. Nelle lettere alla sorella, Pirandello rivela un’ ossessione della follia che poi si incrementa quando si sposa con Antonietta, con esplicite manifestazioni di sessuofobia». Altra storia quella di Italo Svevo, suo contemporaneo. «L’ io di Svevo è un io integro, che però stenta a rapportarsi al reale. Svevo soffre di una nevrosi isterica che ritroviamo in Zeno: tutti i personaggi sveviani comprano l’ amore. Si pensi alla tabaccaia di Zeno, che per integrare le entrate si dà alla prostituzione». Il problema di Tozzi è un altro: il padre. «Basta leggere Con gli occhi chiusi, dove c’ è un padre violento che fa pensare al padre di Kafka. Anche la violenza espressionistica di Tozzi è una ribellione verso il padre. La madre, viceversa, era una povera vittima che però, come quella di Kafka, alla fine sta al gioco di suo marito contro il figlio». Tolto il caso di Dino Campana, la cui «écriture en folie» è piena di tautologie e di balbettamenti tipici del delirio psicotico, per trovare un caso di malcelata follia, si arriva subito all’ ingegner Gadda. «Un nevrotico ossessivo», secondo Gioanola, «che spesso si spinge fino alla paranoia: non dimentichiamo che Gadda negli ultimi anni vedeva minacce d’ ogni genere e persino assassini dappertutto». ovviamente anche qui il rapporto con i genitori è cruciale. «Un vero e proprio lapsus è contenuto in una sintesi biografica di Gadda, dove invece che “famiglia paterna” parla della sua “famiglia padreterno”. Più lapsus di questo…». Gioanola ricorda un episodio ormai leggendario: quando il critico Vigorelli si presentò sotto casa Gadda e chiese al citofono se ci fosse lo scrittore, la madre di Carlo Emilio rispose: «Quale scrittore, qui c’ è l’ ingegner Gadda», e lo cacciò. Altro caso clinico complesso per le relazioni familiari è quello di Giovanni Pascoli, cui Gioanola ha anche dedicato una monografia intitolata Sentimenti filiali di un parricida: «Pascoli non è capace di parlare da uomo, – dice – in lui c’ è una netta dominanza del materno e la figura del padre è un ingombro sulla strada dell’ identificazione con la madre: c’ è un infantilismo anche espressivo che è adesione all’ originario, regressione verso l’ arcaico e rifiuto di ogni idea di progresso. Per questo, quando suo padre muore si sviluppa in lui un senso di colpa che lo porta a una devozione smodata verso la famiglia d’ origine. Dall’ Ottocento in poi il poeta si sente oppresso dalla modernità e rivendica un’ adesione alla natura: è impressionante come in poesia si moltiplichino le figure dell’ oppressione: donne, ebrei, omosessuali…». Sul versante opposto rispetto al Pascoli, c’ è l’ estroverso D’ Annunzio, per il quale «nulla è segreto e tutto va esibito»; non per nulla, se il Vate ammirava il poeta-fanciullino, non si può dire che sia valido l’ inverso. «L’ esibizionismo sfrenato di D’ Annunzio – dice Gioanola – nasconde una vocazione oscura: il poeta della vitalità per eccellenza è in realtà attratto dalla morte e ossessionato dal suicidio. C’ è in lui un delirio di onnipotenza tale che non può trovare un corrispettivo se non nella morte». La stessa vocazione di Pavese? Non proprio, con Pavese siamo altrove. Siamo nell’ ambito di una malinconia leopardiana che «non è semplice malattia dell’ animo, ma senso di in appartenenza e di deiezione, incapacità di identificarsi con la ragione: la vigna della sua campagna per Pavese è al di là, come un infinito leopardiano. E’ una nostalgia radicale per ciò che è andato perduto senza mai essere stato posseduto, una speranza disperata perché rivolta all’ indietro». Questo malessere è aggravato dalle circostanze storico-biografiche: «Nel decadente Pavese la malinconia o l’ inadeguatezza del vivere è rafforzata dal fatto che si viene a trovare in un ambiente laico-illuministico, la Torino degli anni Venti, che sente estraneo. Il nevrotico Pavese è incapace di risolvere la propria malinconia nella cultura data, positivistica e razionalista». Il poeta è un Narciso? Se passiamo a Umberto Saba, la risposta è: sì. «Saba è un narcisista radicale. Lavagetto riconduce Saba alla presenza di Edipo come instauratore del mito “donna che non si può avere”. Ma io gli oppongo Oreste, cioè il mito del matricida e dell’ omosessuale che ama Pilade: la sessualità non è ancora un oggetto dato, dunque siamo in zone preedipiche, molto arcaiche». Non per nulla Saba, alla nascita, fu abbandonato da sua madre che disse: «se volete coprirlo, copritelo». Il padre era fuggito subito dopo le nozze e il piccolo Umberto fu dato subito a balia. Nasce da lì il risentimento per la madre, che diventa «faccia marmorea», e insieme «un’ identificazione dell’ io con il ruolo materno»: il poeta diventa la madre che non ha avuto. Il matrimonio con Lina, spiega Gioanola, farà precipitare il poeta in una crisi depressiva: «malinconia da scelta mancata dell’ autentico oggetto d’ amore». Quale? Il «bel fanciullo appassionato», ovviamente. Una scelta erotica che verrà raccontata nel romanzo Ernesto. Opposta e speculare a quella di Saba è la condizione psicologica di Eugenio Montale: «Ha voluto essere il padre, – dice Gioanola, – meglio, non si è arreso alla tentazione materna ma senza riuscire a identificarsi con il padre.

La versione completa di questo articolo è facilmente rintracciabile su qualsiasi motore di ricerca. Torniamo al titolo : Nei conflitti irrisolti la chiave del successo.  Io direi, un sistema condizionante per mantenere sé stesso, deve convincere non tanto la massa quanto alcune menti brillanti, alcuni geni naturali che non ci sarà via di uscita, che siamo condannati nel momento stesso della nascita e che è inutile ogni sforzo . Bisognerà al massimo sperare in qualche Dio pietoso, tanto siamo niente . Utilizzando una gran quantità di artisti, letterati, poeti  falliti esistenzialmente, nevrotici, depressi, schizofrenici che rimpallano la solita cultura sistemica, la storia sistemica e che non danno in alcun modo soluzione. Anche le altissime problematiche, domande che stimolano saranno parte di una follia al servizio di un meccanismo sistemico il cui scopo è l’appiattimento dell’Umano. Ma leggete bene la vita di questi poeti, criticamente però, nessuno di loro è stato neanche capace di distaccarsi efficientemente dalla propria famiglia di origine, tantissimi non sono riusciti a costruire un rapporto d’amore valido, spesso paranoici , sempre narcisi, piccoli bambini che vogliono l’attenzione della mammina, che può essere la vera mammina o la mammina società o pubblico o critici.

Piccolissimi uomini pieni di problemi sono alla base della nostra cultura, non i riusciti, gli eterni irrisolti. Quando ragioniamo, quando crediamo nei nostri miti, quando ci formiamo le nostre ideologie, quando diamo la colpa ad altri e quando ricerchiamo noi la nostra mammina dovremmo perlomeno farci sorgere il dubbio che siamo in qualche modo condizionati per essere dei falliti esistenziali, io dico che viviamo in un utero monitoriale. C’è modo di uscirne? cominciamo a liberarci delle nostre credenze, cominciamo a credere in noi stessi. La massa è guidata, è carne da macello ma se qualcuno sente dentro di sé che qualcosa non va, se a qualcuno non tornano i conti, se qualcuno non è convinto, forse può uscire da questo perenne “the Truman show”, da questo mondo di cartapesta dove ci sentiamo obbligati a comportarci tutti nello stesso modo, dove ci sono cose “giuste”, giustissime, tanto che non possono essere messe in discussione, dove la vittima non ha mai colpe e il carnefice ha avuto grossi problemi da piccolo, dove una persona superiore deve sempre lasciare il passo al problematico, dove chi produce, lavora e si gode la vita è considerato quasi un ladro e dove chi più vive nel vizio, nell’infantilismo e nella pigrizia , tanto più deve essere assistito a spese di tutti, dove l’eroe è un soldato che va a morire in Afganistan o un volontario che si sente così importante e gratificato e sta in realtà mantenendo la miseria, dove si applaude a un funerale, plaudendo così  chi ha raggiunto la morte precoce e un papa che ha avuto e usato a dismisura un grande potere  manovrando folle di giovani deve essere fatto santo subito e tante altre amenità del genere.

 conoscere per cambiare, per capire, senza i soliti clichè, senza i soliti stereotipi, modelli fissi.

A presto Andrea


presenza

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Re: Ma se ci fosse una letteratura sana il sistema la farebbe passare?
« Risposta #1 il: Luglio 08, 2011, 15:51:51 »
Qualsiasi cosa si apprende dagli altri non diventa una conoscenza propria, ma solo un modo e un mezzo per nascondere la propria ignoranza. E chi nasconde la propria ignoranza non potrà mai raggiungere la conoscenza, poiché tale conoscenza è di altri e non propria. Solo ciò che è veramente nostro può essere considerato conoscenza, proprio perché è dentro di noi e non occorre ricorrere all'esterno.


nihil

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Re: Ma se ci fosse una letteratura sana il sistema la farebbe passare?
« Risposta #2 il: Luglio 09, 2011, 17:57:31 »
mi limiterò a commentare il titolo del post: certo che la farebbe passare, come ha sempre fatto. Sono gli ignoranti che non la capiscono, o si illudono di capirla, ma è solo un problema loro.

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Re: Ma se ci fosse una letteratura sana il sistema la farebbe passare?
« Risposta #3 il: Luglio 10, 2011, 10:55:20 »
ma perchè questo post è nel cassonetto? eeek e a proposito di che?

Clementina

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Re: Ma se ci fosse una letteratura sana il sistema la farebbe passare?
« Risposta #4 il: Luglio 10, 2011, 22:13:52 »
Già, perchè? Tra l'altro non ci avevo fatto caso. Pensavo che il cassonetto fosse indifferenziato, che accogliesse tutto  abow
Ho letto il post giorni fa, provo a rispondere seguendo solo il ricordo.
La discussione su un articolo del genere sarebbe lunga e articolata. Offre spunti interessanti. Si parla di cultura "sana" e cultura "malata" ma in realtà si vanno a scandagliare le malattie personali degli autori. Me lo sono chiesto spesso. Una persona malata nel pensiero puó donare al mondo capolavori? Evidentemente sì. Van Gogh lo ha fatto. E un pensiero suicida lo ritengo malatissimo. Pascoli per dirla come si usa qui non era mica un bischero. Ha fatto una ricerca sulle parole, sul suono... Sarebbero Pavese, Pascoli e Gadda i malati? Io penso che in certi casi la malattia porti a una sofferenza che ripiega l'artissta su se stesso, questo sì. Ma per definire una letteratura malata devo pensare a un'opera che esalta cose malsane, negative: l'annullamento dell'altro, la rabbia, la distruzione. Altrimenti non è letteratura malata ma espressione del male di vivere. Che provano pure le persone più sane!