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Topics - victor

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Introspezione.

Ho scoperto questo sito circa dieci anni fa. Quello è stato un periodo molto travagliato della mia vita. Uscivo da una situazione affettiva che avevo superato razionalmente, ma, che psicologicamente, continuava a tormentarmi.
Ah! Questa nostra mente tanto complessa!

Razionalità ed emotività anche se convivono nella stessa persona non sempre riescono ad andare d’accordo.
Mi sforzavo di capire il motivo di questo mio duplice comportamento (era per me di nessuna importanza il fatto che appartengo al segno dei gemelli e il fatto che molti accennavano che la mia personalità multiforme era conseguenza di ciò). Cercavo una spiegazione seria al motivo per cui mi tormentavo tanto per una cosa che aveva avuto un suo decorso e che era assolutamente impossibile modificare.

Smanettavo su internet alla ricerca di una spiegazione e così capitai su questo Sito.
In verità debbo dire che questo Sito mi piacque subito e servì molto a distrarmi. Pubblicai diverse cose che avevo scritto nel corso della mia vita. E questo sviò, in certo qual modo, il turbinio delle mie rotelle cerebrali verso altri interessi.

Tornando a rivangare quel periodo tormentato (per me) e tormentoso (nei confronti degli altri) penso, anzi credo, che la nostra mente e il nostro corpo si influenzino e si condizionino a vicenda senza che noi ce ne rendiamo conto, anzi, senza che noi riusciamo a comprendere come ciò avvenga e, quel che è peggio, se per caso riusciamo ad avere coscienza di questo nostro dualismo interiore non sempre riusciamo a controllarlo.

Cerco di essere più esplicito: il tumore (nel mio soma) si è sviluppato proprio in quel periodo per me molto travagliato dal punto di vista psicologico (ma non fisico anche se lavoravo dieci ore al giorno, ma questa era una media per me normale, nella mia vita c’erano stati periodi, anche molto lunghi di 14-16 ore al giorno tra lavoro, studio e altre attività collaterali).
Come poteva essere accaduto? Perché mi ero beccato questo tumore al polmone io che non avevo mai fumato?

Nella mia vita, tutti i miei progetti importanti hanno avuto un iter standard attentamente studiato e accuratamente pianificato (molte volte non solo mentalmente, ma anche per iscritto). La procedura come ho detto era standard: studiare il passato, per capire il presente e progettare il futuro. Ed anche in questa occasione cercherò di seguire questo schema.

Pertanto faccio un salto all’indietro per provare ad analizzare meglio i fatti della mia vita e cercare, se possibile, di capire come si è sviluppata dentro me questo bipolarismo psichico e come abbia potuto influenzare il mio soma. Perché io (da medico) penso che siano proprio i problemi psichici, dei quali ci rendiamo conto, ma che non sappiamo risolvere, la causa primitiva della depressione e di tante malattie di cui non sappiamo darci spiegazione.

A questo proposito ritengo che noi occidentali dobbiamo approfondire lo studio del pensiero orientale (della cui conoscenza io mi dichiaro estremamente ignorante, anche se in quest’ultima fase della mia vita ho letto qualcosa) in quanto penso che con il suo aiuto possiamo trovare spiegazione a tanti nostri perché.
Fin da quanto ero ragazzo, almeno da quanto partono i miei ricordi, ho avuto una vita molto intensa, ma contemporaneamente molto responsabile (e, anche se può apparire una strana contraddizione, non eccessivamente stressata).

Fin da ragazzo mio padre mi affidava delle responsabilità non indifferenti: mi mandava dal direttore della sua banca per depositare o prelevare somme molto importanti (ovviamente prima parlava con lui per telefono) e, quando andavo via, il direttore mi regalava spesso una matita rossa e blu come quella che utilizzano gli insegnanti per correggere i compiti. Un regalo del genere poteva essere fatto soltanto ad un ragazzo di 13-14 anni! (e di conseguenza quella era la mia età).

Altro esempio (l’ho già postato su questo Sito con il titolo “Una stretta di mano”): a 16 anni mi ha mandato a vendere la produzione di un anno del vino prodotto nella campagna di mia madre.
Ancora: a 10 anni (1946) la sera andavo in piazza Duomo con due o tre compagni di classe ad ascoltare i comizi per il referendum costituzionale (Repubblica o Monarchia?) e le prime elezioni democratiche.
Aggiungo: ero ancora un ragazzino quando ebbe inizio la mia scoperta di quella cosina rosa …

E nel frattempo leggevo … Leggevo di tutto, senza limiti e senza censure, dalle riviste scientifiche di mio padre, a quelle culturali di mia madre, ai libri della biblioteca di casa. “Guerra e Pace” e “Anna Karenina” di Tolstoj, “Noi vivi” di Ayn Rand, hanno fatto parte delle mie letture durante la scuola media. Ayn Rand! pochi conoscono questa scrittrice russa, i suoi libri sono molto scomodi, ma la lettura di questo suo libro ha marchiato a fuoco la mia personalità; forse qualche volta ne parlerò. A casa mia non mancavano libri e riviste e mio padre e mia madre non hanno mai imposto censure.

Quindi fin da ragazzo la mia vita è stata intensissima, multiforme e contemporaneamente fantastica, ma principalmente altamente gratificante.
A 16 anni avvenne l’episodio cruciale che segnò il punto di svolta della mia vita. In un giorno passai da ragazzo a uomo.

16 anni! … La stessa età che aveva Alessandro Magno quando combatté nell’esercito di suo padre sotto le mura della città di Tebe! (Si parva licet componere magnis …).

Victor

(01. Continua).

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Pensieri, riflessioni, saggi / L'arte del Comando
« il: Settembre 04, 2020, 23:26:13 »
È strano come 2500 anni fa ci sia stato sia in Occidente come pure in Oriente un fiorire di Grandi Menti.
Cito solo quelli che ritengo i maggiori: Socrate, Platone (il mio preferito), Aristotele, Confucio (anche lui da me molto amato), Siddharta Gautama (Budda), Lao Tse (o Laozu), Sun Tsu.
È di quest’ultimo che ho in mente di parlare.

Sun Tsu è stato un grande generale cinese del Periodo delle Primavere e degli Autunni. Ha scritto un libro (L’arte della Guerra) che ancora oggi è un testo di studio delle Accademie militari occidentali, e immagino anche di quelle orientali.

Tempo fa (molto tempo fa) ho preso questo testo e l’ho modificato e adattato per creare un file Power Point da utilizzare per tenere corsi e conferenze con il titolo “L’arte del Comando”.
Ho dato così a mia moglie una delle tante occasioni per ripetermi una delle sue frasi preferite cioè che io manipolo e trasformo tutto quello che tocco.

Ringrazio Piccolofi che con il suo aforisma “Il vero Leader” mi ha fatto tornare alla mente che nel mio computer ci stava questo file.

E, poiché non posso mettere sul sito le Slide del mio file, riporto solo il testo di esse.
Buona lettura.

Victor

*****.*****

L’ARTE DEL COMANDO.

Come agire sempre nella maniera giusta.
È più bravo chi sbaglia di meno.


Premessa.

Sun Tzu, generale cinese vissuto nel V secolo avanti Cristo ha dettato le regole per la progettazione e la conduzione di una guerra.

Queste regole sono state raccolte dai suoi allievi e trascritte in un volumetto che porta il seguente titolo:

L’arte della guerra.

Preciso subito che non è della guerra che voglio parlarvi.
E, a scanso di equivoci voglio subito spiegare sia il motivo che mi ha spinto a fare questo mio lavoro, come pure i fini che mi sono proposto.

Sun Tzu, in questo manuale, espone le strategie e le tattiche per vincere la “guerra”, e intende quella combattuta con le armi.

Ma, leggendo questo volumetto, mi sono reso conto che buona parte delle regole che Sun Tzu espone possono essere applicate per affrontare eventi che ogni giorno si presentano nella vita delle persone comuni.
Così mi è venuto in mente di adattare il contenuto di questo libretto a questo tipo di eventi.

A tutti noi capita di voler realizzare un progetto, o di partecipare ad un concorso, o di gareggiare per una competizione, oppure semplicemente di affrontare il lavoro o la vita professionale.
Essere in possesso di norme, di una guida da seguire, di istruzioni da applicare è una cosa fondamentale per portare a compimento nella maniera migliore possibile il nostro obiettivo.

Così ho adattato questo Manuale di Sun Tsu, che aveva altro scopo, alla vita di tutti i giorni, ma ho cercato di non snaturare la sostanza dei suoi insegnamenti.

Inoltre, data la mia età, mi son permesso di aggiungere anche qualche osservazione personale.

In queste mie note ho preferito utilizzare il termine “competizione” al posto di “guerra” o di “battaglia”
Infatti la vita, sotto certi aspetti, può essere considerata una competizione continua: la scuola, lo sport, i concorsi, il lavoro, il rapporto con le altre persone …

È mia impressione che in questi ultimi tempi la competizione ha assunto una valenza maggiore che nei tempi passati.

Il lavoro o la professione sono una competizione molto più seria e più importante con cui tutti dobbiamo cimentarci.
E, se vogliamo considerare, anche la vita in famiglia talvolta ha bisogno di applicare principi e metodologie che sono esposti in questo manuale, che, come ho già accennato, è un concentrato di “regole pratiche”

Il lavoro che ho fatto è stato quello di stralciare le frasi e le regole che si riferiscono alla vita nel suo duplice aspetto sia di vita lavorativa che di vita familiare e trascriverle qui di seguito.
È ovvio che tali suggerimenti possono essere adattati in maniera estensiva sia allo sport come pure alla vita professionale e ad altri obiettivi che ci si prefigge di raggiungere.

Vi invito pertanto a leggerlo con attenzione e a meditarci sopra.

Se poi gli argomenti vi sembrano giusti e ritenete di adottarli come regole di vita ne sarò molto felice perché così il mio lavoro non è stato inutile.

Victor

*****.*****

INTRODUZIONE.

Comincio con l’elencare i 13 capitoli di cui si compone il manuale di Sun Tzu:

1.   Valutazione e pianificazione;
2.   Preparazione;
3.   Strategia dell’attacco;
4.   Schieramento e disposizione;
5.   Forze;
6.   Punti di forza e di debolezza;
7.   Scontro o manovre;
8.   Variazioni ed adattabilità;
9.   Spostamenti;
10.   Terreno;
11.   Territorio;
12.   Attacco;
13.   Utilizzo delle informazioni.

Sun Tzu elenca i tredici punti fondamentali che un buon generale deve conoscere alla perfezione per prepararsi ad una competizione.

E al primo paragrafo del primo capitolo ci precisa, a premessa del suo discorso, che:

La guerra è di somma importanza per lo Stato: è sul campo di battaglia che si decide la vita o la morte delle nazioni, ed è lì che se ne traccia la via della sopravvivenza o della distruzione. Dunque è indispensabile studiarla a fondo.

Ed io aggiungo che anche nella vita la competizione, leale ed onesta, è di somma importanza, se si vuole raggiungere il successo professionale ed il benessere economico, si conseguenza lo stesso discorso vale per raggiungere qualsiasi obiettivo.

Ciascuno di noi, nella propria vita, costantemente, direi quasi ogni giorno, si pone degli obiettivi da raggiungere, più o meno importanti, a meno che non voglia galleggiare come un pezzo di legno in mezzo al mare in balia dei venti e delle correnti marine.

Primo capitolo - Valutazione.

Pertanto Sun Tzu ci dice che prima di iniziare qualsiasi azione è necessario:

Considerarne gli aspetti fondamentali, e analizzali mediante i cinque criteri di valutazione. Così, potrai definire la tua strategia.

Quindi, prima di intraprendere qualsiasi azione, noi dobbiamo analizzare e valutare attentamente la situazione.
Solo successivamente definire la strategia che riteniamo più appropriata per risolvere quel determinato problema, per raggiungere quel determinato obiettivo.

Espone le regole (cinque criteri) per effettuare questa valutazione:

Il primo degli elementi fondamentali è il Tao; il secondo è il clima; il terzo è il terreno; il quarto è il comando; il quinto è la dottrina.

Sun Tsu ci dice che il primo elemento è il Tao, e così lo definisce:

Col termine Tao, intendo tutto ciò che induce il popolo ad essere in armonia coi suoi capi, per la vita e per la morte, sfidando anche il pericolo estremo.

In termini pratici da noi possiamo tradurre la parola Tao con “carisma” cioè quelle qualità che determinano la forza morale e il prestigio di una persona.
In pratica ci dice che per avere in partenza ottime possibilità di avere successo, se vogliamo entrare in competizione, è necessario avere carisma.
E mette questa qualità proprio al primo posto in quanto la ritiene la più importante.

Nel campo religioso il carisma è un dono, una grazia elargita da Dio.
Nelle scienze sociali indica il complesso delle facoltà e dei poteri straordinarî che una persona possiede e che le vengono riconosciuti dalla società, consentendole l’assunzione di un ruolo direttivo.

Dunque non è qualcosa che si compra al momento del bisogno, ma è qualcosa che dobbiamo costruire noi stessi giorno dopo giorno con la nostra intelligenza, con la nostra cultura, con il nostro buon senso.
Il carisma dovrà divenire man mano parte integrante della nostra personalità.

Al secondo posto mette il “clima”

Col termine clima, intendo l’azione complessiva delle forze naturali: il freddo in inverno, la calura in estate e la necessità di condurre le operazioni in armonia con le stagioni.

In pratica ci spiega che per agire è di estrema importanza scegliere il momento opportuno.
Non possiamo intraprendere un’azione di qualsiasi tipo perché ci passa in quel momento per la testa.

Questa scelta, questa decisione, da Sun Tzu è messa al secondo posto nella pianificazione strategica dell’azione da intraprendere. Quindi ritiene che la scelta del momento in cui agire sia una decisione strategica di non secondaria importanza.

Il terzo punto è il “terreno”.

Col termine terreno, intendo la distanza, e se il territorio da percorrere è agevolo o arduo, se è ampio o ristretto, e le eventualità di sopravvivenza o di morte che offre.

Trasferito nel nostro campo il “terreno” deve essere interpretato come lo studio e la valutazione attenta di tutto il contesto (ambiente, uomini e cose) in cui dovrà essere svolta la nostra azione.
In pratica lo studio attento del “campo” sia esso lavorativo o professionale o familiare o di altro genere.

Il quarto elemento da prendere in considerazione è il “comando”:

Col termine comando, intendo le qualità di saggezza, rettitudine, di umanità, di coraggio e di severità del generale.

Per raggiungere il nostro obiettivo noi agiamo sempre in prima persona pertanto queste qualità noi le dobbiamo possedere in prima persona.
E voglio ribadirle. Esse sono: saggezza, rettitudine, umanità, coraggio, e severità. Quest’ultima deve essere messa in atto prima con noi stessi e poi con gli altri.

Il quinto elemento è la “dottrina”:

Col termine dottrina militare, intendo l’organizzazione e il controllo, la nomina di ufficiali adeguati al grado, ossia la gerarchia, e la gestione dei mezzi di sussistenza necessari all’esercito, ossia la logistica.

Certo è improbabile che a noi interessi la dottrina militare, ma per raggiungere un obiettivo è necessario mettere in atto determinate azioni quali l’organizzazione, la scelta di eventuali collaboratori, e di eventuali strumenti.
Tutto ciò deve essere da noi studiato e valutato, oltre che gestiti, con estrema attenzione e con grande competenza.

E così aggiunge che:

Chi li padroneggia, vince; chi non se ne cura, è annientato.
Perciò, prima di attuare qualsiasi piano, prendi in esame i suddetti elementi, soppesandoli molto attentamente.


Non credo sia necessario alcun commento aggiuntivo da parte mia.

Inoltre precisa che:

Sapendo ciò, potrai prevedere quale parte sarà vittoriosa e quale sconfitta.

L’interpretazione di questa affermazione è molto importante in quanto sottintende che questa valutazione deve essere fatta non solo su se stesso, ma anche sull’avversario.
E questo viene precisato meglio in seguito quando afferma che se conosci il tuo avversario hai già il 50% di probabilità di vittoria.

In questo capitolo sulla Valutazione Sun Tzu dà anche dei consigli per impostare la strategia dell’azione:

Quindi, se sei capace, fingi incapacità; se sei attivo, fingi inattività
Se vuoi attaccare in un punto vicino, simula di dover partire per una lunga marcia; se vuoi attaccare un punto lontano, simula di essere arrivato presso il tuo obbiettivo.
Attacca il nemico dove non è preparato, fai sortite con le truppe quando non se l’aspetta.


In pratica ci dice che chi vuol raggiungere un obiettivo non deve mai scoprire le proprie carte e non rivelare gli obiettivi che intende raggiungere.
Anzi consiglia di mascherare tali obiettivi con azioni diversive che confondano la controparte e principalmente di tenere riservata la propria strategia e non rivelarla neppure alle persone più vicine.

E chiude questo primo capitolo con la seguente affermazione:

Solo valutando tutto esattamente si può vincere, con cattive valutazioni si perde.

Questa affermazione non necessita di alcun commento.

Secondo capitolo. Preparazione (Pianificazione)

In questo capitolo Sun Tzu entra nel dettaglio di come deve essere pianificata la preparazione militare e logistica di un esercito. Quello che a noi interessa è la sua applicazione pratica nel nostro campo.

Qualunque obiettivo da raggiungere necessita di un tempo lungo per la sua pianificazione e di un tempo molto breve per la sua realizzazione.
Quanto più la pianificazione della nostra azione sarà accurata e minuziosa tanto più la sua realizzazione sarà rapida e soddisfacente.

Anche eventuali spese devono essere adeguate all’obiettivo che si vuole raggiungere, non bisogna sperperare ricchezza per obiettivi inutili o per una cattiva organizzazione.

E al momento opportuno:

Lanciati sull’avversario con ardore.

Ci raccomanda di essere coraggiosi e determinati nella nostra azione, non essere mai titubanti.
E principalmente:

Tratta bene i prigionieri, e fornisci loro il necessario.

Dopo la vittoria è necessario trattare bene l’avversario. Bisogna vincere, non stravincere. Non si devi mai umiliare chi resta sconfitto.

Terzo capitolo. Strategia dell’attacco.

In questo capitolo Sun Tsu dà un consiglio di estrema saggezza:

Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo.
Chi è veramente esperto nell’arte della guerra sa vincere l’esercito nemico senza dare battaglia.


Proprio così, l’abilità più grande è raggiungere il proprio obiettivo senza dover combattere. Che adattato al nostro discorso significa ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.

Quando si comincia una azione o una competizione, è necessario essere sicuri di vincere. Se non si è sicuri è preferibile non iniziare.
La sicurezza si acquisisce con una scrupolosa ed adeguata valutazione e pianificazione.

Quarto capitolo. Invincibilità e vulnerabilità

In questo capitolo Sun Tzu approfondisce i concetti di invincibilità e di vulnerabilità. Tali principi e tali regole valgono anche nella vita pratica.
Essere invincibile nel nostro caso significa possedere tutti gli strumenti e tutte le qualità adatte per il raggiungimento del nostro obiettivo.

Ma per essere invincibili, cioè ben preparati, è assolutamente necessario non essere vulnerabili.
Cioè dobbiamo esser certi che la nostra persona e la nostra onorabilità non prestino il fianco a irregolarità o critiche che possano compromettere il risultato che noi intendiamo raggiungere.

Sun Tsu ha già parlato di carisma, qui parla di vulnerabilità. Ritengo che la parola più appropriata che si adatti al nostro discorso sia il termine “onorabilità”
È un argomento molto delicato e molto complesso, è necessario essere molto attenti e molto accorti nel preservare intatta la propria onorabilità

Sun Tsu dice:

Gli esperti nell’arte della difesa si nascondono come se fossero sotto i nove strati della terra; gli esperti nell’arte dell’attacco si muovono come se fossero in cielo.

Con queste parole, a mio avviso, intende dire che quando si va all’attacco ci si muove in campo aperto, a viso scoperto, con la massima lealtà (come se si fosse in cielo)
Mentre per costruire la propria difesa e la propria onorabilità è necessario proteggersi con i nove strati della terra (con questa espressione i cinesi dell’epoca intendevano i monti, le colline, le pianure, i fiumi, i mari, ecc)

Con tale espressione intende che è necessario usare tutti i mezzi che la terra (la natura, la società, la vita) ci offre per proteggerci.
La nostra persona, la nostra onorabilità devono essere protette al massimo, non dobbiamo essere vulnerabili, dobbiamo essere assolutamente inattaccabili.

E precisa:

Per vincere basta non commettere errori.
Chi è esperto nell’Arte della Guerra coltiva il Tao, segue le sue regole ed elabora strategie vittoriose.


Ci ricorda che il Tao, cioè il carisma deve essere la nostra regola di vita.
Elemento fondamentale della nostra strategia deve essere “non commettere errori”, né prima, né durante, né dopo …

Quinto capitolo. Organizzazione e comunicazione.

Sun Tsu comincia questo capitolo affermando:

Gestire molti è come gestire pochi: basta curare l’organizzazione.
Controllare molti è come controllare pochi. È solo una questione di addestramento e di segnalazioni.


Elemento fondamentale per la riuscita di ogni azione, di ogni impresa è l’organizzazione. È tutta questione di addestramento e di comunicazione (egli adopera il termine segnalazioni)

E prosegue dicendo:

Si attacca con la forza frontale, ma si vince con quelle laterali.

L’azione principale deve essere condotta sempre frontalmente, ma la vittoria viene ottenuta con le azioni collaterali. Su questo punto è importante recepire il principio.
Ogni caso, ogni progetto da realizzare, ogni obiettivo da raggiungere, è un evento a se stante, necessita pertanto di una sua specifica elaborazione strategica.

È importante conoscere le regole, ma è altrettanto importante, al momento opportuno saper elaborare la strategia più appropriata.
Qui sta la nostra abilità: e questa abilità è frutto della nostra intelligenza, della nostra cultura, della nostra fantasia.

Le possibilità di chi sa impiegare abilmente le forza laterali sono vaste e infinite come il cielo e la terra, inesauribili come le acque di grandi fiumi.

Ed aggiunge che nell’azione è necessario essere rapidi e precisi, cioè fulminei e della massima precisione.

Il falco in picchiata spezza in due il corpo della preda, perché colpisce con precisione.
Così la velocità di chi è abile nell’Arte della Guerra è fulminea, e il suo attacco è assolutamente preciso.


(Continua)

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Altro / 01. Naufragio
« il: Settembre 04, 2020, 03:48:23 »
Racconto. Tra sogno, realtà e molta fantasia. 1a parte.

Arrivammo ad Atene il sabato mattina e ci sistemammo in albergo.
Dedicammo il resto della giornata ed il giorno successivo a visitare la città e le sue antichità, che del resto, tranne Daniela, conoscevamo già.

Il lunedì mattina prendemmo il traghetto che ci avrebbe portato all’isola, portando con noi soltanto l’indispensabile per la vacanza in barca e lasciando la maggior parte del bagaglio in albergo.
Appena arrivati ci recammo dal Turist Operator locale con il vaucher dell’affitto della barca. Sbrigammo le pratiche burocratiche. Controllammo con attenzione che l’assicurazione fosse a posto, avevamo sottoscritto una assicurazione kasko che coprisse tutti i rischi, e pagato per questa una cifra superiore al costo del noleggio della barca.

Il Turist Operator ci accompagnò con il pulmino al porto dal noleggiatore il quale ci condusse alla barca. Era uno sloop di 27 piedi, a stabilità di forma. Era evidente che non era nuovo di zecca, era una barca che aveva navigato parecchio, ma appariva in buone condizioni di manutenzione. D’altra parte nel contratto il noleggiatore l’aveva dettagliatamente descritta e aveva dichiarato anche l’anno di fabbricazione.

Salimmo a bordo e parlando un po’ in inglese e un po’ in italiano il noleggiatore ci mostrò le vele, le cime e ci portò a controllare il motore di emergenza che partì immediatamente appena girò la chiavetta del quadro. Ripeté l’operazione svariate volte per dimostrarci il perfetto funzionamento e ci mostrò che il serbatoio del gasolio era pieno.

Scendemmo sotto coperta e ci mostrò il quadrato con le carte nautiche e le otto cuccette. Noi eravamo solo in cinque per cui avremmo avuto molto spazio a disposizione. Anche la riserva d’acqua potabile era per otto persone e per due settimane.
A questo punto volle controllare le nostre patenti. È vero che avevamo già depositato le fotocopie al momento del contratto, comunque io e il mio amico Michele mostrammo le nostre patenti che consentivano la navigazione a vela ed a motore in mare aperto e mia moglie mostrò la sua che invece la consentiva entro le sei miglia. Si mostrò molto soddisfatto del fatto che tre persone erano fornite di patente nautica.
Ci mostrò la radio che accese ed evidenziò la busta di plastica con l’elenco delle varie lunghezze d’onda relative ai bollettini meteo in lingua inglese e italiana. Completò la sua dimostrazione mostrandoci i servizi e il ripostiglio con le lenze da pesca, sia a canna che a traino. Ritornammo in coperta e ci indicò il pozzetto dell’ancora e tutti i depositi delle varie cime, dei parabordi, delle scalette, e il gommone con relativo motore fuoribordo.

A questo punto io volli controllare personalmente e provare il verricello del fiocco, le manovre per armare e disarmare la randa e verificare il funzionamento del motore per il sollevamento dell’ancora.
In pratica avevamo completato tutte le dimostrazioni, così chiedemmo che ci indicasse un posto dove pranzare e dove fare il rifornimento di viveri per i dieci giorni di navigazione. Ci indicò sia una trattoria di pescatori, come pure quello che definì il supermercato che si trovava proprio di fronte al porto. Infine verificammo il collegamento tra i nostri telefoni satellitari e il suo e ci salutammo.

Mentre ci recavamo al ristorante mi fermai ad osservare uomini e donne anziane che seduti a terra riparavano le reti che erano distese ad asciugare. Avevano in mano un fuso nel quale era avvolto il filo che serviva a ricostituire le maglie delle reti che durante l’uso si erano rotte. Li avevo già notati arrivando, ma avevo dato uno sguardo solo di sfuggita. Era per me uno spettacolo molto interessante. Mangiammo dell’ottimo pesce fresco, ma servito su tavoli sgangherati e con tovaglie di plastica e poi andammo al supermercato.

Quello che il noleggiatore aveva definito supermercato in verità era un vecchio magazzino, un baraccone ricolmo di una infinità di roba. All’uscita notammo con piacere che c’erano dei ragazzi con dei carrelli che si dichiararono pronti ad accompagnarci alla barca. Osservando tutto lo spettacolo che si presentava ai miei occhi mi tornò alla mente Dostoevskij il quale scrisse che è la sofferenza che determina la consapevolezza.

Era pomeriggio, ma il sole era ancora alto sull’orizzonte e si trovava alle nostre spalle, così decidemmo di partire immediatamente. Mentre Michele metteva in moto il motore e si metteva al timone io mollai la cima d’ormeggio e ritirai l’ancora. Nel frattempo le donne provvedevano a sistemare il materiale acquistato.
Michele al timone pilotava la barca con il motore al minimo in quanto il porto era molto affollato di barche di ogni tipo. La faceva scivolare lentamente e con molta prudenza sull’acqua piuttosto torbida e stagnante ed io a prua guardavo il mare sperando di trovare al largo quell’acqua limpida e trasparente che i depliant turistici ci avevano promesso.

Usciti dal porto Michele diresse la prua ad est-sud-est, dove, a circa dieci miglia di distanza le carte indicavano la presenza di un’isola con una radura ben riparata. Io, nel frattempo sciolsi ed armai la randa mettendola al traverso. Una brezza leggera la gonfiò subito e Michele spense il motore. Ci guardammo negli occhi e senza parlare ci trovammo d’accordo di non armare il fiocco in maniera che l’andatura leggera lasciasse lavorare le donne sotto coperta senza troppa difficoltà.

Scesi sotto coperta, mi tolsi i vestiti e indossai il costume. Ritornato sul ponte presi il timone per dare a Michele la possibilità di fare altrettanto. Non passò molto che il contorno dell’isola verso cui eravamo diretti apparve all’orizzonte. La rotta era giusta e proseguimmo la navigazione a vista.

Già da lontano ci rendemmo conto che la radura dove eravamo diretti era piena di barche ormeggiate. Tanti altri avevano avuto la nostra splendida idea. Mentre io restavo al timone Michele scese giù per dire alle donne che ci fermavamo a fare il bagno in alto mare perché qui l’acqua era trasparente. Avremmo proseguito la navigazione più tardi.
Fatto il bagno e risaliti a bordo riprendemmo la navigazione. Quando arrivammo in rada il sole si accingeva al tramonto, ma c’era ancora molta luce. Ci cercammo un posto e buttammo l’ancora.

Durante la cena discutemmo sull’itinerario da seguire e ci trovammo d’accordo nel dirigere verso nord nella speranza di trovare posti meno affollati. Io amo la solitudine e anche loro si trovarono d’accordo.
Trascorremmo quattro giorni tra cielo e mare, fermandoci dove e quando ci aggradava, accostando alle isole e ormeggiando la barca solo per la sosta notturna.

La mattina del quinto giorno mentre eravamo in navigazione il tempo cambiò di colpo. Cominciò a soffiare un grecale che non prometteva nulla di buono. C’erano un gruppo di piccole isole vicine ed anche se le carte non mostravano alcun ormeggio decidemmo di dirigerci in quella direzione, in quanto non c’era altro nelle vicinanze.

La situazione si fece rapidamente molto critica, era una burrasca bella e buona! Le onde erano diventate alte e il vento sbatteva violentemente le vele. Mentre Michele stava al timone io mi affrettai ad ammainarle e dopo esserci consultati scesi sotto coperta per lanciare l’SOS alla radio con le nostre coordinate. Una radio mi rispose, ma parlavano in greco mentre io cercavo di spiegarmi in inglese. Avendo avuto la sensazione che avessero compreso le nostre difficoltà tornai sopra coperta.

Appena mi affacciai al boccaporto mi resi immediatamente conto che la situazione era diventata veramente critica. Il vento era molto forte e Michele aveva grande difficoltà a governare la barca e dirigerla verso l’isola che si intravedeva a tratti nell’oscurità della burrasca. La navigazione procedeva molto lentamente. Noi ci alternavamo al timone in quanto si faceva molta fatica a tenere la rotta.

Ad un tratto degli scogli apparvero all’improvviso davanti alla nostra prua. Erano pericolosamente vicini e il mare ci stava buttando addosso ad essi. In quel momento Michele era al timone ed io scesi immediatamente sotto coperta per avvertire le donne che la situazione si era fatta grave. Dissi loro di tenersi sotto il boccaporto pronte a buttarsi in mare se la barca fosse andata a sbattere addosso agli scogli. Dissi che la terra era vicina e che se si finiva in mare dovevamo dirigerci a nuoto verso la riva.

Risalito sopra coperta mi resi conto che c’era terra sia a destra che a sinistra degli scogli. Non si capiva se fosse soltanto un’isola oppure fossero due. Lo dissi alle donne e raccomandai che una volta in acqua dovevano rendersi conto dove andava la corrente e utilizzarla per raggiungere la riva, non importava quale. Con Michele ci intendevamo con lo sguardo e con i gesti, perché il vento e la pioggia non permettevano di udire le parole.

Passarono alcuni minuti e l’irreparabile, malgrado gli sforzi di Michele, avvenne. La fiancata della barca si squarciò sbattendo contro uno scoglio che affiorava. Spinsi fuori le donne che si buttarono in mare (o vi furono scaraventate dalla tempesta), anche Michele si buttò in acqua e mentre mi stavo buttando anche io un’ondata traversò la barca e mi fece cadere dall’altro lato.

Riemergendo mi misi subito a nuotare per allontanarmi dalla barca e dagli scogli. Poi mi guardai in giro cercando di fare il punto della situazione. Non vedevo nessuno degli altri. Alla mia sinistra a un centinaio di metri scorgevo la sagoma dell’isola, ma non riuscivo a capire se c’era spiaggia o roccia, comunque la salvezza era da quella parte e in quella direzione mi misi a nuotare.

Mentre mi trovavo sulla cresta di un’onda mi parve di scorgere una testa alla mia destra. Aspettai che un’altra onda mi sollevasse nuovamente e guardai con attenzione verso quella direzione. La pioggia e gli spruzzi del mare mi impedivano di vedere con precisione, ma quel punto nero che vedevo non era uno scoglio in quanto si muoveva: doveva essere uno dei nostri. Non era neanche lontano. Modificai la mia direzione e mi misi a nuotare per raggiungerlo.

Nuotavo con tutte le mie forze in quanto avevo la sensazione che nuotava allontanandosi da me. Sulla cresta di un’altra onda lo vidi chiaramente: era una testa bruna. Quindi non era mia moglie che è bionda e neppure Michele che è mezzo pelato: doveva essere Daniela oppure Marta, sua madre. Quando giunsi a un paio di metri di distanza mi resi conto che era Daniela e nuotava allontanandosi dalla spiaggia verso cui io volevo dirigermi.

Feci un ultimo sforzo e la raggiunsi. Le poggiai una mano sulla spalla. Si voltò ed appena mi riconobbe mi buttò le braccia al collo. Mi resi immediatamente conto che era terrorizzata. Mi sciolsi dal suo abbraccio, forse piuttosto energicamente, la presi per il polso e tirandola verso il lato opposto le indicai l’isola verso cui dovevamo nuotare.

Dapprima la trascinai, ma in questa maniera procedevamo con difficoltà. Le feci capire che non l’avrei lasciata, ma che dovevamo nuotare ciascuno per conto nostro. Si rassicurò e prese coraggio e vidi che le tornarono anche le forze. Le onde ci sbattevano a destra e a manca, ma nuotavamo con vigore uno a fianco dell’altra. Il vento che soffiava verso l’isola ci veniva in aiuto.

Quando fummo vicini mi resi conto che a sinistra degli scogli contro i quali avevamo fatto naufragio c’era della sabbia per cui l’approdo sarebbe stato più agevole. Glie lo mostrai e le gridai che eravamo salvi.

Capì e si mise a nuotare con maggiore forza. Arrivammo alla riva e un’ondata mi sbatté sulla spiaggia facendomi rotolare. Mentre mi rialzavo vidi che la risacca si era riportata indietro Daniela. Mi ributtai immediatamente in acqua, la raggiunsi e l’afferrai per un braccio. Aspettai l’arrivo di una nuova onda favorevole e appena mi resi conto che ci stava sollevando in alto per scaraventarci sulla riva l’abbracciai stretta in maniera che tutti e due fummo scaraventati contemporaneamente sulla sabbia.

A carponi e tenendola per il polso la trascinai per allontanarci velocemente dal mare. Poi, lontani dalle onde restammo distesi a terra per un po’ di tempo in maniera da riprendere fiato mentre il vento e la pioggia continuavano a scrosciarci addosso. Poi, sempre carponi, ci dirigemmo verso l’interno alla ricerca di un riparo. Lo trovammo a ridosso di una roccia.

Qui restammo seduti a lungo cercando di riacquistare le nostre forze. Nel frattempo le rotelle della mia mente lavoravano cercando di rendersi conto della situazione e decidere il da fare. Dissi a Daniela, o meglio le feci capire, che era opportuno muoversi e controllare se in giro avremmo trovato un riparo più adeguato.

Tenendoci per mano ci inoltrammo nella vegetazione che c’era dietro le rocce. Ad un tratto incrociammo quello che mi parve un viottolo. Mi fermai ad osservare e riflettere. Alla mia sinistra portava verso il mare, alla mia destra verso l’interno dell’isola.

Era probabile che in quella direzione si trovassero delle case o addirittura delle persone. Ci dirigemmo verso l’interno. Ad un tratto ci trovammo di fronte ad una capanna di tronchi d’albero. Era piccola, quadrata. Sulla facciata aveva una porta ed una finestra. Entrambe erano chiuse. Bussai alla porta, non rispose nessuno.

Bussai nuovamente, poi poggiai la mano sulla maniglia. La porta si aprì: era chiusa solo con il lucchetto.
Entrammo. Nella semi oscurità intravidi un tavolo, due sgabelli, un lume a petrolio appeso al soffitto, un mucchio di reti lungo una parete, qualche mensola appesa al muro. Eravamo al riparo!

Avevo notato che la finestra aveva dei vetri per cui aprii gli scuri per avere un po’ di luce e chiusi la porta. Daniela nel frattempo si era buttata come corpo morto sulle reti. Mi sedetti sullo sgabello e la osservai. Per la prima volta cominciavo a rendermi conto come eravamo ridotti. Io avevo addosso solo il costume, lei lo slip del costume e un reggiseno a brandelli che lasciava tutto scoperto. Io ero stanco e il mio respiro era affannato. Osservavo lei. Anche il suo respiro era molto affannato ed ogni tanto il suo corpo era scosso da un tremito.

Sono rimasto a lungo fermo così, seduto sullo sgabello, le braccia conserte poggiate sul tavolo e il mio sguardo fisso su Daniela. Mentre aspettavo che le mie membra si rilassassero la osservavo. Lei pareva assopita e mentre lentamente il suo respiro tornava normale osservavo che anche il tremito tendeva a diradarsi. Fuori continuava la tempesta.

Non potevo fare a meno di osservare il suo corpo … era bella … proprio bella … Non era la prima volta che mi rendevo conto di quanto fosse bella. Suo padre era amico mio e ci frequentavamo da sempre. L’avevo vista crescere. Lei mi chiamava zio e tra noi due esisteva un certo feeling. Ma questa volta io vedevo in lei, forse per la prima volta, una donna, una bella donna che mi attirava sessualmente. Quel suo seno scoperto, appariva meraviglioso ai miei occhi. Non riuscivo a distogliere lo sguardo.

Ad un tratto cominciò a muoversi e a riaversi. Aprì gli occhi. Mi vide e si mise subito a sedere poggiando la schiena contro la parete di legno.
-   Siamo vivi? – disse.
-   Si – risposi – ce l’abbiamo fatta …
-   E loro?
-   Dovrebbero essere vivi anche loro. La terra era vicina e sono dei buoni nuotatori.
-   Tu mi hai salvato …
-   No. Ti hanno salvato le tue braccia e la tua volontà. Io ti ho detto soltanto cosa dovevi fare.
-   Io … io non sapevo cosa dovevo fare …
-   Ma quando te l’ho detto lo hai fatto e sei sana e salva!

Dopo un poco riprese:
-   Dove siamo?
-   Sull’isola, dentro una capanna di pescatori.
-   E loro … dove saranno?
-   Saranno da qualche altra parte su questa stessa isola oppure sull’altra.
-   Chissà cosa stanno facendo in questo momento?

Uno strano pensiero balenò nella mia mente ed un sorriso affiorò sulle mie labbra e dissi:
-   Possibilmente in questo momento tuo padre sta scopando con mia moglie … soli … su una spiaggia deserta … è molto romantico …

Mi guardò … sorrise e disse:
-   Pensi questo? …
-   Non è un mistero che tra tuo padre e mia moglie c’è un feeling particolare, anzi direi che c’è una forte attrazione fisica …
-   Te ne sei accorto?
-   Perché? tu non te ne sei mai accorta?
-   Si … veramente lo avevo notato …
-   E perché pensi che tuo padre ha insistito tanto affinché facessimo questa crociera assieme?
-   In effetti …
-   Spero proprio che in questo momento stiano scopando insieme …
-   Come? … significa che speri che stiano facendo l’amore?
-   Certo … se stanno scopando significa che sono sani e salvi!
-   Sì, certo … Ma non sei geloso?
-   Beh, Daniela, tu spesso mi trascini a discutere della mia filosofia personale … - dissi mentre mi alzavo dallo sgabello e mi sedevo sulle reti accanto a lei - a me fa sempre piacere chiacchierare con te perché ti reputo una persona intelligente … tu sai bene in quanto ne abbiamo parlato insieme più volte … io ritengo che ogni persona ha diritto ad avere le proprie idee e la propria libertà …
-   Anche a me fa piacere parlare con te … ed ascoltare tutto quello che mi dici …
-   Anche quando parlo con estrema franchezza e qualcosa di quello che dico può farti anche dispiacere? Ogni figlio idealizza sempre i propri genitori …
-   So che tu non parli mai per cattiveria … tu parli con franchezza … e mi vuoi bene … ed oggi me ne hai dato prova … sei venuto a prendermi ed a salvarmi … - e mentre mi diceva questo mi guardava negli occhi - e tutto quello che mi hai insegnato mi è sempre stato utile …
-   Sì … è vero che ti voglio bene … ma sappi che quello che ho fatto oggi per te l’avrei fatto per chiunque …
-   Lo so che sei così generoso … ed è per questo che ti ammiro …
-   Comunque torniamo al nostro discorso … vedi Daniela … l’attrazione sessuale è una legge di natura, ed è difficile resistere, ma non è uguale per tutti … in alcune persone è una molla molto potente … in altre è meno forte … in altre ancora forse non si manifesta affatto … forse sono queste le persone che affermano di riuscire a resistere e conservarsi pure … io, invece, non riesco a resistere … l’attrazione sessuale per me è una molla troppo forte … ho ceduto diverse volte nella mia vita … e so che anche per mia moglie è un’attrazione potente … e quindi con quale coerenza posso pretendere che mia moglie si comporti diversamente da me?
-   È la tua coerenza che io ammiro moltissimo …
-   Non vorrei essere frainteso … io amo mia moglie e desidero che sia viva, sana e salva … e … se in questo momento anche lei si trova come noi su una spiaggia deserta dopo essere sfuggita ad un pericolo così grave, ritengo che sia istintivo e normale che provi quello che io in questo momento sto provando per te …

Lei mi guardava fisso negli occhi e anche io la guardavo nella stessa maniera cercando di scoprire il suo pensiero … avevo detto chiaro e tondo ciò che in quel momento provavo … avevo bisogno di conoscere la sua risposta … che arrivò subito … stesi un braccio e lei prese la mia mano … ci stringemmo l’uno all’altra … ci baciammo dapprima sulle labbra …e subito dopo anche nella bocca con passione e desiderio …

Inutile raccontare come passammo la notte.

(1. Continua)

Link di Musica per questo scritto:
https://www.youtube.com/watch?v=P1tFxRPk2qE



34

La maturità

Dalla terza media alla maturità studiai dai padri gesuiti. Era ritenuto il miglior collegio maschile della città e uno dei migliori o addirittura il migliore della regione. La maggior parte degli alunni erano interni, solo una piccola parte erano esterni. Io ero seminterno, cioè entravo la mattina ed uscivo la sera, quando avevo completato di fare tutti i compiti, che a quei tempi non erano pochi. Cinque ore di lezioni al giorno e tanti compiti da fare. Dovevo studiare e molto, ma non mi dispiaceva. Non ero il primo della classe, ma ero nel gruppo di testa.

Quando frequentavo la terza media il Preside, un padre gesuita molto rigoroso e preciso, ci consegnò la pagella del primo trimestre, non era bella, ma neppure brutta, c'erano alcuni cinque e diversi sei. Gli esterni e i seminterni dovevamo portarla a casa e restituirla firmata dai genitori. Io, dopo averla fatta firmare a mio padre la conservai e non la trovai più. Il preside P. Salvatore, me la chiese e gli risposi che non la trovavo. Mi disse “cercala e cercala bene”. Non riuscivo a trovarla. Me la chiese una seconda volta inutilmente. Quando me la chiese la terza volta e gli risposi che non riuscivo a trovarla mi mise in castigo in mezzo al corridoio del primo piano assieme a quelli che non avevano saputo la lezione.

In collegio c'era l'abitudine che quando un professore interrogava un ragazzo e questo non sapeva la lezione faceva un rapportino al preside, il quale durante la ricreazione lo tratteneva in castigo in mezzo al corridoio a studiare la lezione finché non l'avesse imparata e non glie l'avesse ripetuta bene. Anche per gli alunni indisciplinati c'era una punizione simile. Il rapportino veniva fatto al ministro il quale si occupava della disciplina e gli alunni venivano puniti restando in piedi in mezzo al corridoio davanti al suo ufficio al secondo piano.

Dunque, in quella occasione, durante il periodo della ricreazione, io fui messo in castigo assieme agli alunni che non avevano saputo la lezione e per non sprecare il tempo inutilmente mi presi un libro e mi misi a studiare. Il professore dell'altra sezione della terza media, che era in cura da mio padre, corse subito da lui studio e glie lo disse. La sera, quando giunsi a casa, mio padre mi disse “oggi non hai saputo la lezione” “No – risposi – ero in castigo con quelli che non hanno saputo la lezione, ma il motivo è il fatto che ho perso la pagella che tu hai firmato”. Mio padre non aggiunse nulla. L'indomani, appena arrivato a scuola, il Preside mi bloccò e mi chiese “hai trovato la pagella? – ed alla mia risposta negativa aggiunse – anche oggi in castigo”. La scena si ripetè il secondo giorno ed anche quel giorno il professore lo andò a raccontare a mio padre. Tornato a casa identica domanda di mio padre e identica risposta mia. Il terzo giorno si ripetè la scena per la terza volta e nuovamente il professore andò a raccontarlo a mio padre.

A quel punto mio padre telefonò al Rettore che era il capo del collegio, di cui era molto amico, e gli chiese di sapere i motivi per cui suo figlio era stato in castigo per tre giorni consecutivi. Il rettore chiamò il preside e lo passò al telefono a mio padre. Non si conoscevano e mio padre chiese di essere informato sul motivo per cui suo figlio era stato punito per tre giorni consecutivi. Il preside glie lo spiegò e mio padre potè accertare che suo figlio non gli aveva mentito. Dopo avere ascoltato gli chiese “lei, preside, ritiene che se mio figlio ha perso la pagella la ritroverà?” “non lo so” rispose il preside. “E quindi se non la trova me lo tiene in castigo fino alla fine dell'anno? Non credo sia giusto! Gli dia un castigo severo. Lo metta anche a testa in giù e piedi in aria, ma una volta sola, non tutti i giorni fino all'infinito!”.

La sera quando arrivai a casa mio padre non mi disse niente. L'indomani mi andai a mettere automaticamente in castigo da solo. Venne subito il preside e mi mandò a ricreazione. La sera, quando tornai a casa lo raccontai a mio padre il quale fece solo un cenno di assenso con la testa, come per dire va bene. Solo dopo molto tempo i scoprii tutto quello che era successo. Poi mio padre e il preside divennero amici ed anche io divenni amico di quel preside. Fu lui a sposarmi e a battezzare tutti i miei figli.

Come si evince da quello che ho raccontato in collegio eravamo seguiti con molta attenzione e scrupolo e noi ragazzi studiavamo e ci impegnavamo. Comunque voglio precisare che, anche negli anni a seguire, non sono mai stato messo in castigo per non aver saputo la lezione o per essere stato indisciplinato. Quando c'era qualche ragazzo che non riusciva nello studio oppure era particolarmente indisciplinato il preside chiamava i genitori e diceva chiaramente loro che suo figlio meritava di essere bocciato (a quei tempi si bocciava anche per un voto basso in condotta) a meno che non lo ritirava dalla scuola.

Avevamo anche dei buoni professori, tranne qualche rara eccezione, una di queste eccezioni fu il professore di francese alla scuola media e al ginnasio e il professore di matematica al liceo. In quarto ginnasio dovevamo tradurre come classico “Le lepreux de la cité d'Aoste” di Moliere. Dovevamo studiarlo e tradurlo dal francese in italiano prima oralmente e poi trascrivere la traduzione sul quaderno. Scrivere quattro o cinque pagine di classico nel quaderno era una palla! La traduzione orale la preparavo regolarmente, ma impiegare tanto tempo per trascriverla mi dava fastidio per cui sul quaderno facevo il riassunto, e malgrado tutte le volte che c'era lezione il professore controllava la trascrizione a tutta la classe e firmava tutti i quaderni non si è mai accorto che il mio era solo un riassunto. Ma nelle interrogazioni andavo bene e il tempo risparmiato lo occupavo a leggere e studiare altre cose che mi piacevano di più.

Al ginnasio ho avuto un ottimo insegnante di italiano. Era un padre gesuita che poi andò a dirigere la rivista nazionale dei padri gesuiti. Curava tantissimo la forma e quando ci correggeva i temi si impegnava tantissimo e lo faceva non solo con alta professionalità, ma anche con tanto impegno e chiarezza e si accertava che noi avessimo capito. Io ritengo di avere imparato tantissimo da lui nella mia maniera di scrivere ed anche di comunicare.

Al ginnasio il preside della pagella fu anche il mio insegnante di latino e greco. Una volta, lo ricordo ancora, tra le frasi di latino da tradurre dal libro c'era anche questa “Maior sum, ad maiora natus, quam ut sim mancipium mei inimicus” che io tradussi così “sono troppo grande, nato per cose troppo grandi, per essere servo del mio nemico” E lui con la penna rossa scrisse “modesto, vero?”. Beh, forse quella frase mi è rimasta impressa e ritengo che sia il mio motto.

Quando siamo entrati al liceo eravamo tutti terrorizzati del professore di italiano. Era un sacerdote (ma non era gesuita) molto colto. Era il direttore della biblioteca della città. Era anziano e parlava sempre lentamente scandendo le parole. Il primo giorno di scuola entrò, si sedette sulla cattedra e disse “scrivete” e dettò un tema. Noi tutti rabbrividimmo. Poi aggiunse “questo tema è stato assegnato agli esami di maturità (e specificò l'anno). Se non cominciate a prepararvi subito per gli esami di maturità non sarete in grado di superarli”. Poi ci spiegò che lui avrebbe assegnato un tema ogni due settimane che avrebbe ritirato di lunedì mattina. Ci raccomandò anche di non aspettare gli ultimi giorni per farlo, ma di iniziare il prima possibile e tutte le volte che avevamo un poco di tempo libero di andare a rileggerlo e rivederlo. Perché rileggendolo avremmo sempre trovato qualcosa da aggiustare o migliorare. ci disse che il compito di italiano doveva essere tutto un lavoro continuo di limatura e di perfezionamento.

Io ero molto preso d'impegno e ci tenevo a fare le cose bene, in particolare con l'italiano. In effetti il merito era anche dell'insegnante che avevo avuto i due anni precedenti. Fatto il primo tema grande fu la mia delusione quando notai che il voto era quattro. Anche nel secondo tema, malgrado ci avessi messo moltissimo impegno e moltissima attenzione, ebbi un voto scadente. Anche negli altri temi i voti oscillavano sempre attorno a quello iniziale. Ero cosciente che, malgrado il professore fosse molto rigoroso, il mio tema non meritasse quel voto. Ma parimenti ero consapevole di avere una pessima calligrafia per cui pensai che il cattivo voto potesse dipendere proprio da questo fatto. Allora, alzai l'ingegno, scrissi un tema con la macchina da scrivere e lo consegnai senza firma. Il giorno della correzione vidi che il professore arrivato al mio tema lo saltò e lo mise sotto gli altri (era chiaramente riconoscibile perché era battuto a macchina). Alla fine dopo aver corretto tutti i temi disse “qui c'è uno sventatello che si è dimenticato di firmare il compito”. Mi alzai e dissi “professore, posso vedere se è il mio?”. Andai alla cattedra, sapevo che quel compito era il mio, era l'unico battuto a macchina, ma ero curioso di vedere il voto. C'era un sei più! Il voto massimo che, a quei tempi veniva dato era sette e veniva dato solo eccezionalmente. Tornai a posto gongolando, dentro di me pensavo: ti ho fregato!

Al liceo avevamo anche un ottimo professore di latino e greco, anch'esso molto rigoroso (che poi nella vita ho incontrato nuovamente quando i miei figli andavano a scuola (forse ne parlerò in seguito). Una volta facevamo la traduzione dei classici greci: ci aveva assegnato dei versi sparsi di Saffo. Io, avevo a disposizione molti libri. Infatti, oltre a quelli miei, avevo quelli su cui aveva studiato mio padre, ed altri ancora me li aveva forniti una zia professoressa. Si trattava di libri di letteratura, italiana, latina e greca, anche classici e testi universitari di approfondimento. Per questo motivo spesso approfondivo le lezioni su questi testi. Tra i vari versi di Saffo (questa poetessa mi aveva sempre intrigato) c'era un verso che ricordo ancora a memoria (lo trascrivo in base alla pronunzia italiana) “espere, panta feres, feres oion, feres aiga, feres apu materi paida”. Quella volta su questo verso avevo fatto diversi approfondimenti anche su un testo universitario. Manco a farlo apposta il professore mi interrogò su questo verso. Ero gasato al massimo, perché ero sicuro di fare bella figura. Parlai a lungo e dissi che a mio parere la traduzione giusta era “espere-tramonto, tu porti tutto, riporti le pecore, riporti le greggi, ma porti via le fanciulle alle madri. “Dove hai trovato questa stupidaggine?” Chiese il professore. Citai il testo che era stato scritto da un letterato famoso. Ma non sapevo (l'ho saputo solo dopo) che questo studioso era ateo e per questo il suo libro era messo all'indice, cioè era proibito leggerlo. A quei tempi e nella scuola che frequentavo si teneva molto a queste formalità. Il professore mi mandò a posto e mi mise sei, anche se avevo risposto bene.

Un altro frammento di classico greco che mi è rimasto nella mente è di Alceo “otan pino ton oinon, eudusin ai merimnai, ti moi goon, ti moi ponon, ti moi melei merimnon?”. Alceo era un poeta che esaltava l'ebrezza che dava il vino, oggi lo definiremmo un buongustaio che si godeva la vita. La traduzione di quei versi è “quando bevo del vino, se ne vanno tutti i pensieri, cosa a me importa dei guai, cosa a me importa dei pesi, cosa a  me importa dei malanni?”

Invece il professore di matematica e fisica era (a mio avviso) una persona molto mediocre, non solo per la poca conoscenza della sua materia, ma anche e soprattutto per la scarsa intelligenza. Io non sopportavo lui e lui non sopportava me. Io ero il più bravo della classe in matematica e passavo i compiti a tutti quelli che me lo chiedevano. Ma lui a me dava sempre sei, mentre ad altri, a cui io passavo il compito dava sette (come ho detto ai miei tempi il sette era il voto massimo) perché loro avevano sette anche in latino o in greco. Ma a me quel sei pesava tantissimo e non perché mi paragonavo con gli altri ragazzi a cui passavo il compito, ma con me stesso. Infatti a me dava sette in fisica che io studiavo solo superficialmente, e quando ero interrogato le leggi della fisica non le ripetevo a memoria come gli altri, ma le spiegavo riportando diversi esempi ed ampliando l'interrogazione ad argomenti pratici tratti dalla lettura di molti libri, che mi forniva un altro mio zio, oppure da riviste scientifiche che amavo comprare.

Io, più volte avevo detto al professore, con estrema franchezza, che mi sentivo più preparato in matematica che in fisica, per cui ritenevo di meritare il voto più alto in matematica e non in fisica. Ma il professore imperterrito continuò a seguire il suo giudizio: sei in matematica e sette in fisica per tutti e tre gli anni del liceo. La rivincita me la presi alla maturità. Quell'anno fu nominato come presidente della commissione di maturità un professore di matematica dell'Università, un comunista, di quelli mangiapreti e arrabbiati. Era prevenuto contro il nostro collegio. La mattina in cui la nostra classe faceva esami di matematica e fisica lui arrivò in ritardo e tre ragazzi riuscirono a fare l'esame di matematica e fisica con il commissario (e superarono la materia). Poi lui si sedette accanto al commissario di matematica e si mise a interrogare e bocciare tutti quelli che fecero esami con lui. Io fui il solo a fare esame con lui ed a superarlo. Finiti gli esami incontrai il mio professore di matematica e gli feci notare che tutti quelli a cui lui aveva dato sette in matematica erano stati rimandati a ottobre mentre io avevo superato l'esame con il professore d'università. Gli dissi, anche, ora che potevo parlare tranquillamente, che per tutti e tre gli anni del liceo ero stato io a passare i compiti a tutta la classe.

Il professore di filosofia era un padre gesuita, un filosofo. Parlava e spiegava per tutta la lezione, ma io non riuscivo a tenergli dietro, i suoi erano voli pindarici che non riuscivo a seguire. Studiavo con attenzione il libro, ma al momento dell'interrogazione lui mi portava sempre da tutt'altra parte. E' vero che mi dava sei, credo che premiasse la mia buona volontà, ma io ero pienamente cosciente che non sapevo la filosofia. Studiavo, leggevo anche altri libri, ma non riuscivo ad essere soddisfatto di come rispondevo alle interrogazioni. L'ultimo anno, dopo il primo trimestre, andai da mio padre e gli dissi che non mi sentivo adeguatamente preparato in filosofia. Mio padre, dopo qualche giorno, mi mandò da un professore che lui conosceva. Questo conosceva il padre gesuita e fece con me un'ora di conversazione per vedere un po' la mia preparazione. Alla fine mi disse di comprarmi il Bignami (che era un libro che riassumeva il corso di studio di tutto l'anno scolastico) e portargli il primo capitolo per la prossima volta. La volta successiva mi fece ripetere il capitolo e lui mi guidava e mi portava a fare i ragionamenti e le comparazioni mentre io ripetevo. Lui non spiegava la lezione nella maniera classica, mi assegnava il compito e me lo faceva ripetere. Tutto il lavoro stava nella ripetizione e nella discussione che mi portava a fare. Così svolgemmo tutto il programma. Alla maturità feci un buon esame e il commissario di filosofia mi diede sette.

Il mio insegnante di religione fu un gesuita, era un teologo, che poi divenne anche famoso, il quale, pur conoscendo le mie idee (ero agnostico), mi dava nove (ero l'unico alunno a cui dava quel voto). Spesso si soffermava con me, sia in aula che fuori, a ragionare, e mi ripeteva che “la fede è un dono di Dio”, un dono, che io non avevo ancora avuto, ma che lui sperava arrivasse presto (in merito vedi i miei commenti al libro Ipotesi su Gesù).


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Altro / 034 - Pagine dal Diario di un Ragazzo felice - Salvuccia
« il: Marzo 01, 2012, 05:17:23 »

Salvuccia

Ho già descritto la proprietà di mia madre dove la mia famiglia passava tutta l'estate, dove un nutrito gruppo di ragazzi e ragazze, parenti ed amici, ci riunivamo tutti i giorni per stare insieme e fare un branco, eterogeneo per età, ma molto affiatato e proteso alla scoperta del mondo e della vita. Sono dei ricordi meravigliosi di una vita vissuta quasi allo stato brado, dove ragazzi e ragazze scoprivamo la natura ed anche l'amore. Tra questi ragazzi c'erano due sorelle, una di 15 e l'altra di 14 anni.

Mi ero innamorato della sorella maggiore. La corteggiavo disperatamente e lei mi rispondeva sempre di no. Continuai a corteggiarla anche quando tornammo in città. Lei respinse sempre il mio amore. Solo verso i 22 anni riuscii a rassegnarmi ed a desistere. Comprendi? Ho vissuto per sei anni un amore infelice!

Oltre venti anni dopo andai a trovare, con mia moglie, la sorella minore che sposata vive al nord. Eravamo seduti in salotto, a casa sua, tutte e due le coppie e ricordavamo i bei tempi passati della nostra gioventù. Ad un certo punto lei dice apertamente e con schiettezza: “A quei tempi ero innamorata di Victor” Un lampo illuminò la mia mente. Solo in quel momento mi resi conto che la sorella maggiore (a conoscenza di questo amore e che io fino a quel momento ignoravo) mi ha sempre respinto per non dare un dispiacere alla sorella!


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Altro / 033 - Pagine dal Diario di un Ragazzo felice - La caccia
« il: Marzo 01, 2012, 05:13:39 »

La caccia

Mio padre aveva un fucile e ogni tanto, quando andava in campagna, sparava a qualche uccello. A me piaceva andare a caccia con lui e in campagna lo seguivo per vederlo sparare a qualche allodola o qualche altro uccello. Qualche volta mi faceva sparare qualche colpo, in genere come tiro al bersaglio.

Quando compii 16 anni comprò un fucile calibro 28 ad un solo colpo e mi fece fare il porto d'armi. A quel tempo, come adesso, per avere il porto d'armi era necessario essere maggiorenni e la maggiore età si raggiungeva a 21 anni. Invece, con una assunzione di garanzia da parte di mio padre mi fu consentito di avere il porto d'armi a 16 anni.

Dapprima cominciai a sparare con quel fucile, ma poi quando assieme a massaro Alfio, la persona di fiducia di mio padre che badava all'agrumeto, andavamo a caccia mi permetteva di prendere il fucile più grande, un calibro 12 a canna doppia. Con quel fucile sono andato a caccia diverse volte. Il più delle volte ad uccelli, in genere allodole, altre volte ad uccelli acquatici, folaghe (ne ho uccisa qualcuna) ed anatre selvatiche (non sono riuscito a prenderne nessuna), altre volte a conigli. Non era tanto il piacere di uccidere la preda, quanto quello di andare a caccia in compagnia di altre persone. Era come un'avventura.

L'ultima volta che andai a caccia fu a conigli. Eravamo cinque o sei persone, avevamo alcuni cani ed anche un furetto. Arrivammo in una zona in cui si sapeva che c'erano i conigli. C'era una immensa siepe di rovi ed era risaputo che i conigli si nascondevano li dentro. I cani correvano di qua e di là ed abbaiavano. Ciò confermava che i conigli si erano nascosti da poco. Massaro Alfio mi disse, indicandomi un piccolo poggio soprelevato “mettiti lì che il coniglio uscirà dal buco lì sotto”. Seguii il suo consiglio e mi preparai. Presero il furetto e lo introdussero nella siepe dal lato opposto a cui mi trovavo io. I cani si agitavano e correvano di qua e di là, abbaiando. Tutti erano appostati in posti diversi, pronti a fare fuoco. Ad un tratto, proprio come aveva previsto massaro Alfio, dal buco sotto la siepe uscì un coniglio! Proprio pochi metri davanti a me ... presi la mira e feci fuoco ... lo centrai in pieno ... era un coniglietto piccolo piccolo ...

Da quel giorno non andai più a caccia.

Ma avevo la passione delle armi.

Cominciai a dilettarmi con il tiro a segno. Talvolta mi esercitavo a sparare con un revolver Smith e Wesson a tamburo calibro 38 di mio padre. Poi un giorno si spaccò il tamburo e mio padre lo fece piombare, in maniera che l’arma non potesse essere più usata in quanto era pericolosa. Avevo una carabina calibro 22 con il cannocchiale per la mira. Posizionavo delle bottiglie o dei barattoli di vetro a 200 metri di distanza e facevo il tiro al bersaglio: le bottiglie esplodevano a distanza colpo dopo colpo. Una volta mio padre che mi osservava disse “ora capisco come hanno ammazzato Kennedy”.

Poi comprai una rivoltella Colt Cobra calibro 45. Per intenderci il revolver della polizia americana derivato da quello di Buffalo Bill o dei cow boy. Ogni tanto la portavo in campagna e sparavo, ma non potevo sparare più di tre caricatori perché dopo 15 colpi mi faceva male il polso e la spalla, tanto era forte il contraccolpo. Poi comprai una Bernardelli, calibro 22 da tiro e di tanto in tanto andavo con un amico ad esercitarmi al poligono del tiro a segno.


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Una stretta di mano

L'altro giorno parlavo con un paziente della scorrettezza imperante in questi giorni, si arriva a negare anche l'evidenza dei fatti. Così mi tornò alla mente che una volta, avevo 16 anni, mio padre mi chiama e mi dice “ha telefonato il sensale del vino, vogliono comprare il nostro vino, io non posso andare, devi andare tu”.

Mi diede tutte le direttive e io partii con l'autobus per vendere il vino dell'azienda di mia madre. Alla fermata dell'autobus c'è il sensale ad attendermi. Salgo sulla sua Lambretta e ci rechiamo in campagna. Incontriamo il compratore, apro la cantina, spilliamo un poco di vino, lo assaggiano, controllano la gradazione alcolica, discutiamo e contrattiamo il prezzo, alla fine concludiamo l'affare e lo suggelliamo con una stretta di mano.
Capite? Una stretta di mano di un ragazzo di sedici anni e in quel periodo si diventava maggiorenni a 21 anni!

Oggi non si rispettano neppure i patti scritti e firmati!



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Altro / 031 - Pagine dal Diario di un Ragazzo felice - Carmelina
« il: Marzo 01, 2012, 04:55:24 »

015 1951 15 anni – Carmelina o Carmen

Come ho già scritto tra gli otto e i quattordici anni ho trascorso tutte le mie vacanze estive con mio nonno e con mia zia. Appena finiva la scuola mio padre e mia madre mi accompagnavano da loro e alla fine dell'estate tornavano a riprendermi.

La guerra era finita da poco ed anche se non si viveva in particolari ristrettezze economiche tutto veniva fatto in maniera attenta e misurata.

La guerra aveva danneggiato la casa in cui vivevamo in città e per prima cosa mio padre provvide alla sua sistemazione. Successivamente pensò a ricavare una casa abitabile dai locali rustici che si trovavano nella proprietà di mia madre. Questa casa ristrutturata doveva servire alla famiglia per trascorrere le vacanze estive all'aria aperta in preparazione dell'inverno da passare in città. Così dal 1951 la mia famiglia trascorreva le vacanze in questa campagna e mio padre che restava in città per lavorare veniva a trovarci ogni fine settimana.
Vicino a questo terreno c'erano diverse proprietà di parenti ed amici per cui il nostro cortile che era molto grande ed aveva una “villetta” annessa (oggi sarebbe chiamato un parco giochi) diventava il punto di raccolta e di incontro per dieci o quindici ragazzi, tutti parenti ed amici. In pratica ci riunivamo e scorazzavamo in lungo e in largo per le campagne e per il boschetto vicino. Io ero il più grande ed avevo la responsabilità di tutta quella ciurma. Il mio compito era di tenere sempre tutti riuniti insieme e non sconfinare nelle proprietà di altre persone non parenti o amici. Per il resto ci potevamo muovere in un terreno abbastanza largo (quattro o cinque chilometri). Ci divertivamo a fare di tutto di più.

Del gruppo faceva parte una ragazzina, i genitori la chiamavano Carmelina, ma noi la chiamavamo Carmen, che stava sempre attaccata a me, come la mia ombra. Mi era simpatica, anzi mi piaceva. Spesso me la portavo a cavalcioni sulle spalle, quando ci spostavamo da un posto all'altro. Una volta, avevo rallentato il passo per restare indietro rispetto agli altri e mentre camminavo le infilai una mano sotto le mutandine. La sua testa era accanto alla mia e mi disse all'orecchio “smettila sporcaccione!” Lì per lì ritirai la mano, ma dopo un poco riprovai. Mi ripeté “ti ho detto di smetterla, sporcaccione”. Risposi “non la smetto, se non ti va puoi scendere, mi porterò un'altra ragazza sulle spalle!”. Non scese e si lasciò accarezzare tranquillamente. Anche in altre occasioni si lasciava accarezzare e a me piaceva tanto accarezzarla …

Un giorno, non c'erano altri ragazzi nei dintorni e le dissi “vai da questo lato nella casetta senza porte, quella dietro l'ovile, che io ci vado da quest'altra parte. Ci vediamo là”. Dopo alcuni minuti ci incontrammo nella casetta senza porte e senza finestre, dove ci eravamo dati appuntamento. Il posto era strategico. Da dentro si poteva vedere, senza essere visti, e nel caso si avvicinasse qualcuno ci si poteva allontanare dalla parte opposta senza essere notati.

Dopo quella volta capitò spesso l’occasione, quando non c'erano altri ragazzi in giro per il cortile, di darci appuntamento nella casetta senza porte e senza finestre. Lei non disse mai di no tutte le volte che glie l'ho chiesto. Mi accontentava docilmente. I nostri giochi non erano affatto innocenti e notai che lei maneggiava il mio pisello con mani molto esperte. Un giorno le chiesi “con chi l'hai fatto prima di me?” lei serrò le labbra e non rispose. Non insistetti. Qualche giorno dopo ripetei la domanda. Anche questa volta serrò le labbra. “dai, parla, dimmelo, con chi l'hai fatto ...” insistetti e nel frattempo le mie dita scavavano dentro di lei ... “su dimmelo... non vergognarti ...” le mie dita scavavano con frenesia ... “parla ... ti prego ...”. “Con mio fratello” rispose con un filo di voce. “Ma ...” dissi “non è in seminario ... tutto l'anno?”. Suo fratello, un paio di anni più grande di me stava in seminario tutto l'anno e non tornava a casa neanche durante le vacanze. “Ogni tanto torna a casa ma solo per un paio di giorni ...”. “E giochi con lui, così come giochi con me?”. “No ... veramente ...” si interruppe, la mia mano continuava a scavare con frenesia e non si fermava... “dimmi, raccontami ...” “la notte viene nella mia stanza ... si spoglia ... mi spoglia ... e si mette nel mio letto ...”. “Dai, parla ...” “si mette addosso a me e ... entra dentro di me ...”. “Ma ... non è pericoloso ... correte dei rischi ...”. “No, si mette addosso un cappuccio di gomma ...”. La mia mano si era fermata. Non scavava più. Ci rivestimmo. Uscimmo fuori e ci mettemmo a passeggiare per la campagna. Camminavamo in silenzio, ma in verità avremmo voluto dirci tante cose ... Ogni tanto ci fermavamo uno di fronte all'altra, ma nessuno osava parlare. Durante una di queste fermate fu lei a rompere il silenzio. “Lui dice che ne ha bisogno ... è grande e non può stare senza farlo ... se non lo fa, scoppia ...”. Riprendemmo a camminare. Ci fermammo nuovamente e chiesi “a te piace?”. Abbassò gli occhi a terra e riprese a camminare. Camminammo ancora un poco in silenzio e poi tornammo a casa.

L'indomani ero imbarazzato. Non sapevo cosa pensava, come avrebbe reagito. Invece il suo comportamento fu assolutamente indifferente. Continuò ad essere la mia ombra. Per un po' di tempo non andammo più nella casetta senza porte e senza finestre. Invece facemmo più spesso passeggiate per le “rasole” (vialetti) della vigna ... Avevamo l'accortezza di passeggiare sempre in luoghi aperti dove tutti potessero tranquillamente vederci ... Qualche volta parlavamo. Il più spesso stavamo in silenzio. Mi raccontò tutto ... la prima volta avvenne mentre erano soli in casa ... le altre volte ... quando tornava a casa per qualche giorno veniva da lei tutte le notti ... i cappucci li tenevano nascosti ...

Una volta mentre passeggiavamo mi diressi verso la casetta. Lei mi seguì docile. Ritornammo a fare i nostri giochi.

Nella nostra campagna come ho detto c'era una villetta, con delle rose, delle aiuole e degli alberi. In particolare c'erano quattro cipressi. Due, affiancati, dal lato dell'ingresso e due, anch'essi affiancati, sul fondo. Sui due cipressi dal lato dell'ingresso c'era, attaccata su una trave poggiata di traverso tra i rami, un'altalena e spesso noi ragazzi giocavamo a chi andava più in alto, vincevo sempre io, che ero il più grande. Ma anche Carmen andava molto bene sull'altalena, forse era la più brava tra le ragazze. Quando andava avanti e in dietro sempre più in alto, restando in piedi sulla tavola, mostrava le gambe e le mutandine sotto la gonna, aveva delle belle gambette e gli altri ragazzini la guardavano. Io ero geloso di quegli sguardi, ma contemporaneamente ero molto contento per il fatto che lei era molto brava ad andare sull'altalena ...

P.S – Anche questo scritto era stato già pubblicato nella Sezione "Erotico". Lo ho trasferito qui affinché tutta la narrazione fosse raggruppata.


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IL MIRACOLO DELLA VITA

La casa era posta sul punto più alto della proprietà e da lì si dominava quasi tutto il terreno che si stendeva su un lieve declivio verso il fiume. Io, appena arrivato salivo sul ballatoio di casa da cui si poteva controllare il terreno per quasi tutta la sua estensione. Era bello da li osservare come il panorama cambiava con il cambiare delle stagioni. D’inverno la vigna era tutta spoglia, i tralci delle viti si stagliavano nell’aria senza foglie e tutti aggrovigliati tra loro. Restavano così fino a gennaio o febbraio, quando sarebbero stati potati.

Dopo la vendemmia e fino al momento della potatura le viti “dormivano” e non abbisognavano di cure particolari. Ma mio padre, dopo aver completato la raccolta delle ulive, cercando di dare lavoro agli operai tutto l’anno faceva iniziare dei lavori straordinari. Il vigneto era stato piantato cento o duecento anni prima e il terreno non era stato dissodato adeguatamente. Così mio padre provvedeva ad un lavoro di dissodamento e contemporaneamente di concimazione. Questo lavoro veniva effettuato a rotazione. Con mio padre, durante il periodo della vendemmia, decidevamo quale sarebbe stato il tratto di terreno da dissodare e concimare quell’anno. La decisione veniva presa sia seguendo una logica nella rotazione, sia scegliendo la zona che era più carente e bisognosa di quel tipo di lavoro. Appena completata la raccolta delle olive Peppino eseguiva una potatura sommaria di quella zona affinché gli operai potessero lavorare agevolmente. Poi a filari alterni si scavava un solco quadrangolare molto profondo tra le viti togliendo la terra e portando via anche le pietre che inevitabilmente venivano fuori. Questo solco veniva riempito con i sarmenti delle viti che erano stati tagliati e ricoperto di concime stallatico (veniva così chiamato il concime misto a paglia che si raccoglieva nelle stalle dei buoi), talvolta veniva aggiunto anche una piccola parte di concime raccolto nelle stalle delle pecore, ma quest’ultimo veniva aggiunto in piccola quantità in quanto era molto forte e se si esagerava avrebbe “bruciato” le viti. Messo il concime nel solco questo veniva ricoperto con la terra che in precedenza era stata tolta. Questo lavoro veniva effettuato tra dicembre e gennaio. Le piogge avrebbero provveduto a diluire il concime nel terreno e a tramutarlo in linfa che a primavera sarebbe stata assorbita dalle piante.

Completato questo lavoro iniziava la potatura. Questa veniva effettuata con una metodica sempre uguale, tramandata nei secoli, forse fin dall’epoca dei greci. Si osservava quante “spalle” avesse la vite. La spalla in pratica corrispondeva ai rami principali della pianta (quelle adulte in genere ne avevano tre o quattro, quelle più giovani un paio). Si sceglieva il tralcio più forte e robusto ed anche meglio conformato di ogni spalla e questo veniva potato esattamente sopra il secondo germoglio dormiente. Poi si asportavano tutti i tralci secondari tagliandoli a zero, in maniera che non potessero germogliare. I “sarmenti” (i tralci tagliati) venivano raccolti in fascine e poi accatastati in cumuli dietro i magazzini. Appena potata e ripulita l’aspetto della vigna cambiava. Era come se una persona trasandata e con i capelli tutti arruffati fosse andata dal barbiere. Dal balcone di casa mi soffermavo a guardare l’aspetto nuovo che aveva preso il terreno e mentalmente lo confrontavo con quello delle settimane precedenti. Mi complimentavo con me stesso in quanto ero io il regista o il maestro di orchestra che dirigeva quei cambiamenti.

Queste regole di potatura mi servirono quando piantai delle rose nel terreno che si trovava attorno alla casa di villeggiatura che avevo acquistato per farci trascorrere le vacanze ai miei figli quando erano bambini. Conoscevo le leggi della natura, e conoscevo le regole che l’uomo applicava a quelle leggi. Proprio davanti al portico che avevo costruito avevo messo un filare di rose. Quando cominciarono a crescere, ancora in pieno inverno, le potai con le mie mani, proprio come avevo visto potare le viti. Quando mia moglie vide quello che avevo fatto esclamò urlando “che cosa hai fatto! Le hai distrutte!”. Mia moglie si lasciava facilmente trascinare dalle sue sensazioni e dai suoi umori. Io che la conosco bene non le risposi, ma voltandole le spalle continuai imperterrito e con calma il mio lavoro. Poi, dopo, con calma le dissi: “Prima di parlare aspetta, vedrai a primavera”. Quando a primavera tornai con un fascio di rose dovette ammettere che avevo ragione. Poi perfezionai ulteriormente la tecnica. Potavo le rose, sempre durante la luna calante, a fasi lunari alternate, durante una fase una e durante la fase seguente l’altra. Così avevo durante tutto l’anno sempre rose fiorite.

Dopo la potatura veniva effettuata la “prima zappa”, cioè avveniva la prima operazione di coltura vera e propria. La vigna cambiava nuovamente aspetto e mentre prima il terreno era pianeggiante cosparso qua e là da ciuffi (più o meno estesi) di erba verde, attorno ai quali si raccoglievano stormi di passeri e cardellini per brucare i germogli teneri, ora il terreno era divenuto tutto scuro perché era stato rivoltato e l’erba era stata estirpata ad opera del lavoro dell’uomo. Finita la prima zappa veniva effettuata “l’impalatura”. Veniva conficcato nel terreno un palo di legno per ogni vite, perché le desse sostegno quando i tralci si sarebbero caricati per il peso dell’uva.

Io, tutte le settimane andavo a controllare il lavoro. Se la giornata era molto fredda oppure c’era la neve, prendevo la doppietta e la cartucciera che si trovava in casa e me la portavo dietro (avevo il porto d’armi). Sapevo che sugli alberi di ulivi avrei trovato gli storni, che intirizziti dal freddo mi avrebbero permesso di avvicinarli senza fuggire. Sparavo alcuni colpi e ne ammazzavo diversi. Alcuni li regalavo a Peppino perché li portasse a casa sua per i suoi figli, gli altri li portavo a casa e mia madre li avrebbe cucinati per me e mio padre in quanto eravamo molto ghiotti di cacciagione. Quando sparavo qualche colpo di fucile sapevo che poco dopo sarebbe arrivato il guardacaccia che abitava in una casa vicina. Sentiti gli spari veniva a controllare, ma in verità sapeva bene che essendo domenica ero io che sparavo e quindi, in realtà veniva per fare quattro chiacchiere con me. Essendo pagato anche da mio padre oltre che dagli altri vicini, veniva per dimostrare che lui svolgeva con scrupolo il suo lavoro. Talvolta, se c’era qualche festività infrasettimanale ed io ero libero da impegni di studio, organizzavamo qualche battuta di caccia ai conigli. Lui era provvisto di cani e furetto. Quando si organizzava qualche battuta io dovevo uscire da casa di notte perché già prima dell’aurora dovevamo essere sul posto pronti per iniziare la caccia.

Nel frattempo arrivava la primavera e dal balcone di casa osservavo i cambiamenti che avvenivano nella vigna. Le viti cominciavano a mettere dei germogli, color verde chiaro, quasi giallognolo. L’aspetto cambiava a vista d’occhio. Da scura e triste che era la campagna ora cominciava a vivere. Era bello vedere come il panorama cambiasse rapidamente da una settimana all’altra. Era una cosa meravigliosa. Uno spettacolo esaltante della natura. Non mi stancavo di ammirarlo e restare ogni anno sorpreso per questa trasformazione miracolosa che avveniva sotto i miei occhi. Era il vigneto, una mia creatura che cresceva e si trasfigurava sotto i miei occhi, per le mie cure, quasi per mano mia … A quell’epoca scoprii come tutta la natura viveva e si trasformava a cicli. La vigna germogliava sempre con la luna nuova e i nuovi tralci crescevano velocemente nell’arco di due settimane fino ad una lunghezza di venti o trenta centimetri. Poi, durante la fase calante della luna restavano quasi stazionari, per avere una nuova veloce crescita, stavolta ancora più veloce e rigogliosa durante la nuova fase lunare. A quel tempo io sapevo esattamente, giorno per giorno, quale era in quel momento la fase della luna, e quando, solo, in macchina andavo in campagna, mentalmente cercavo di immaginare come avrei trovato il vigneto, e quale sarebbe stato l’aspetto che avrei visto dal balcone di casa.

In questo periodo cominciavano altri lavori: veniva spolverato lo zolfo per proteggere i germogli dai parassiti, poi veniva fatta l’irrorazione con il solfato di rame per proteggere le viti dalla peronospora. Veniva effettuata la “seconda zappa” cioè il terreno veniva vangato per la seconda volta. Poi i tralci, ancora teneri venivano legati ai pali che erano stati piantati accanto a ciascuna vite. Io seguivo questa operazione con particolare attenzione e giravo tutto il vigneto osservando con attenzione tutte le viti. Infatti dopo questa operazione, con i tralci giovani legati a ciuffo in alto, appariva chiaro come si sarebbe presentata la produzione di grappoli d’uva per quell’anno (ovviamente se non sarebbe stata danneggiata dalle intemperie o dalle malattie). Tornato a casa riferivo tutto a mio padre ed insieme commentavamo e organizzavamo i lavori successivi.

Durante la primavera inoltrata e l’estate venivano effettuati gli altri lavori: la terza e la quarta zappa, le altre irrorazioni. In questo periodo sia il passero comune, che il passero solitario (che in realtà è un merlo, anche se appartiene alla famiglia dei passeracei) costruivano i nidi sulle viti. Ce n’erano tanti nella zona. La prima “cova” in genere io non la prendevo in considerazione. Invece la seconda covata che avveniva in estate ed io ero sul posto potevo seguirla attentamente. Riconoscevo dalla grandezza e dal colore delle uova se il nido era di passero comune oppure di passero solitario oppure di qualche gazza ladra che raramente nidificava anch’essa sulle viti. Una volta trovai un nido di ghiandaia. La ghiandaia non ha un bel canto, a differenza del passero solitario che ha un canto dolcissimo, ma ha delle piume colorate bellissime, bianche, azzurre e di un nero lucido. Io ho sempre amato gli uccelli e raccoglievo gli uccellini ancora piccoli per poi allevarli in gabbia. Riuscii ad abituare la ghiandaia a stare libera per il cortile e la terrazza di casa sia in campagna che in città.

Nel frattempo i grappoli di uva che all’inizio erano minuscoli crescevano, anche gli acini si ingrossavano e cominciavano a scurire. Finché sarebbero diventati maturi e pronti per essere raccolti, pigiati, per diventare dapprima mosto e poi vino. E il ciclo della natura sarebbe ricominciato.

Era, come ho detto, un miracolo meraviglioso. Io, ogni anno, lo seguivo mentre si realizzava sotto il mio sguardo attento, lo toccavo con mano. È vero, ho sempre vissuto a contatto con la natura, vedevo il grano crescere, essere mietuto e trebbiato, vedevo anche fiorire la zagara degli aranci, mi inebriavo al suo profumo e la vedevo trasformarsi dapprima in piccoli frutti e poi man mano ingrossarsi e maturare, vedevo fiorire i bei fiori bianchi dei mandorli, oppure quelli meravigliosi color rosa di pesco, ma nulla mi coinvolgeva come il ciclo annuale della vite. Se una pianta era più rigogliosa delle altre vicine andavo a studiare per cercare di capire perché ciò avveniva, oppure se un’altra non cresceva come quelle circostanti, anche in quel caso cercavo di studiare e capire il perché. Era più facile scoprire la causa del secondo evento, piuttosto che quella del primo. Facevo scavare attorno alla vite e il più delle volte si trovava un masso o delle pietre che impedivano alle radici della vite di crescere e le facevo rimuovere. E vedevo la pianta, poco a poco riprendersi. Ed era una bella soddisfazione. Tutto questo era frutto delle mie riflessioni, delle mie esperienze, ma principalmente era frutto degli insegnamenti datemi da mio padre e da mio nonno. Era la parabola dei talenti che ho sempre avuto presente nella mia mente: i talenti che tu ricevi in dono, ma che non devi né sperperare, né tenere chiusi in un forziere nascosto, ma devi mettere a frutto e farli moltiplicare. Era la storia dell’uomo che mi tornava alla mente: dell’uomo delle caverne che era cresciuto, che con il suo ingegno aveva progredito, che con i suoi pionieri aveva conquistato il mondo intero, anche se questa crescita aveva avuto effetti negativi con i suoi errori e i suoi misfatti. La cosa che mi affascinava, che mi coinvolgeva, era il fatto che quest’uomo non si era mai fermato, che era andato sempre avanti, passo dopo passo … giorno dopo giorno … sempre … sempre … senza fermarsi mai …


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LA CAMPAGNA DI MIA MADRE

Tutte le nozioni di agricoltura spicciola che quotidianamente mio nonno mi somministrava mi servirono tantissimo quando, più tardi, verso i 14 anni cominciai ad occuparmi seriamente della campagna di mia madre.

La campagna di mia madre distava circa sette km dalla città in cui abitava mio nonno. Era una parte del feudo della famiglia degli avi di mio nonno che nel tempo era stato suddiviso e frazionato. Quasi tutte le domeniche veniva mio zio Meno, il marito di zia Peppina, figlia di mio nonno che si recava nella sua campagna (un altro pezzo di quel feudo) per controllare i lavori agricoli. Andavo in macchina con lui e mi lasciava davanti al cancello della proprietà di mia madre. Più tardi, al suo ritorno, mi riprendeva e mi riportava a casa. Incontravo l’uomo che eseguiva i lavori e che mi mostrava ciò che aveva fatto, aveva zappato, aveva potato, aveva irrorato le viti con il verderame contro la “peronospora”, o le aveva cosparse con lo zolfo contro l’oidio. Io prendevo mentalmente nota di tutto, lo pagavo con i soldi che mio padre aveva lasciato a mio nonno e poi, tornato a casa, riferivo per telefono tutto a mio padre, anche i minimi particolari. Nel 1952, l’anno in cui compii sedici anni utilizzavo la bicicletta per andare in campagna in quanto per un certo periodo ci andavo tutti i giorni, partivo la mattina e tornavo la sera. Quell’anno mio padre decise di sistemare e rendere abitabile la casa. Così non solo mi occupavo dei lavori agricoli, ma controllavo anche i muratori che sistemavano la casa la quale aveva bisogno di notevoli restauri.

Dall’anno successivo tutta la mia famiglia, durante le vacanze estive prese l’abitudine di trasferirsi in campagna fino al completamento della vendemmia che avveniva ai primi di ottobre. La vendemmia era il momento culminante di tutta l’estate, sia perché si raccoglievano i frutti del lavoro di un anno, sia perché la moltitudine di persone che erano contemporaneamente presenti animava l’atmosfera, sia anche perché era il momento in cui cominciava a manifestarsi la nostalgia per la fine della vacanza in quanto la scuola stava per cominciare. E’ vero durante i tre giorni della vendemmia era presente anche mio padre, ma a me, con l’aiuto e con la direzione di mia madre, toccava il compito di preparare per tempo tutto l’occorrente. Dovevo far pulire il palmento. Dovevo far preparare le botti per accogliere il mosto. Dovevo controllare che la pigiatrice e il torchio fossero pronti e funzionanti. Dovevo provvedere alla benzina (anzi al petrolio, in quanto la pigiatrice andava con il petrolio agricolo). Se il motore non partiva dovevo chiamare il meccanico ed essere assolutamente certo che non desse problemi. Provvedere a far pulire i magazzini e a spargere la paglia sulla quale avrebbero dormito i vendemmiatori. Dovevo, assieme a mia madre predisporre tutto l’occorrente per il mangiare dei vendemmiatori (circa 40 persone, e in più gli addetti al palmento circa almeno altre sei persone). Andavo con la bicicletta in città e compravo la pasta, la carne o lo stocco, la salsa per fare il sugo, le acciughe o i peperoni da arrostire. Il tutto veniva portato in casa di mio nonno, dove Peppino l’avrebbe prelevato e portato in campagna. La mia attività era veramente frenetica ed anche la responsabilità per un ragazzo era notevole.

Poi finalmente arrivava il gran giorno. La sera prima arrivava tutta la ciurma e assieme al capo ciurma dovevo provvedere alla loro sistemazione mentre mia mamma aiutata dalle donne preparava la cena per tutti. Infatti entrambe le cose (locali per dormire e cena) erano a carico dell’azienda in cui i vendemmiatori avrebbero lavorato il giorno dopo. L’indomani prima dell’alba ero già alzato e pronto. Controllavo le ultime cose mentre parlavo con il capo ciurma. Stabilivamo da dove cominciare la raccolta dell’uva, in genere si decideva il posto in cui era più matura ed ero io ad indicarlo in quanto avevo già controllato. Invece, se il tempo minacciava pioggia, poteva essere presa la decisione di iniziare dal posto più lontano. Per tutti quei giorni io correvo su e giù, a destra e a manca, dal palmento al vigneto, dalla cucina alla cantina, da mio padre (per prendere ordini) al capo ciurma (per riferirli). Mi sentivo importante, anzi indispensabile.

In tutto questo trambusto e daffare non disdegnavo dal posare lo sguardo su qualche ragazza più carina tra le vendemmiatrici ed anche dal cercare qualche approccio extra lavoro per la fine della giornata … Alcune civettavano, ma comunque l’approccio non era facile … Ricordo che un anno in cui ce n’era una particolarmente carina, che io marcavo con una certa assiduità, una delle vendemmiatrici più grandi, quando mi vedeva, ripeteva “pizzichi e vasi non fannu purtusi …”.

Altro momento importante della mia attività agricola era la raccolta delle ulive. Finché frequentai il liceo non fu di mia competenza in quanto il periodo di raccolta avveniva tra fine novembre e dicembre ed io non potevo lasciare la scuola. Invece dal momento in cui entrai all’università, e di conseguenza ero più libero, mio padre mi affidò anche questo compito. Inoltre, avendo già la patente, mi recavo in campagna con il furgone e provvedevo, alla fine della giornata, a portare al frantoio le olive raccolte. Infatti più presto veniva spremuto l’olio e più bassa sarebbe risultata la sua acidità e quindi migliore la qualità.

Dal momento che entrai all’università in pratica mio padre delegò completamente a me il compito di amministrare la campagna di mia madre. Ogni domenica mattina mi dava la macchina ed io andavo in campagna. Alle sette del mattino ero già sul posto dove incontravo Peppino, la persona di fiducia di mio padre, che provvedeva alle colture. Giravamo insieme per il vigneto e l’uliveto, controllavo l’andamento dei lavori, lo sviluppo delle piante, programmavamo i lavori da fare la settimana successiva.


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LA BORSA DI CUOIO

Quando superati gli esami della terza media dovevo andare a frequentare il ginnasio, pochi giorni prima dell’inizio della scuola mio padre arrivò a casa con una borsa di cuoio naturale. La borsa era grande (capiente) e il cuoio era spesso. Mio padre porgendomela disse “auguri per i tuoi nuovi studi”. Non aggiunse altro, era di poche parole. Mia madre commentò dicendo “vedi come è bella? Sappila garantire e non rovinarla” era il suo spirito pratico che veniva fuori, e mi diede un bacio e con quel gesto mi manifestava il suo affetto e i suoi sentimenti. Quella borsa mi accompagnò per tutti gli anni del ginnasio e del liceo. Ed ora, ripensando a quell’episodio, sono andato a cercare e a rimestare tra tutte le cose conservate … e … in un angolo nascosto di un armadio … ho visto … la borsa è ancora là … oh dio …


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Altro / 026 - Pagine dal Diario di un Ragazzo felice - Tina
« il: Febbraio 29, 2012, 20:59:34 »

1950 – 14 anni – Tina

Avevo avuto la scarlattina ed ora ero sfebbrato, ma per cautela i miei genitori mi tenevano ancora a letto.

Quel pomeriggio mio padre e mia madre erano andati in città ed avevano portato con se mia sorella e mio fratello. A casa eravamo rimasti soli io e Tina che aveva la mia stessa età ed aiutava in casa. La mattina c'era una persona di servizio adulta che lavorava ad ore.

Quando completò il suo lavoro venne a tenermi compagnia e ci mettemmo a giocare a carte, io seduto nel letto e lei seduta nella sedia vicino a me.

Ad un tratto la mia mano scivolò sotto la sua gonna e cominciò ad accarezzare la sua coscia. Lei si lasciava accarezzare tranquillamente e lasciava che la mia mano scivolasse e frugasse dappertutto ... Le carte caddero per terra, ma nessuno di noi se ne curò. La mia mano cercava il suo sesso ed alla fine lo raggiunse ...

Dopo un poco eravamo sia io che lei seduti sul letto nudi dalla vita in giù. Io carezzavo lei e lei carezzava me. Ricordo come il mio pisello era gonfio e duro, era teso fino allo spasimo ... ad un tratto esplose ... esplose come un vulcano che scagliava in alto la sua lava ... solo che il mio pisello scagliava dappertutto un liquido denso e bianco ...

Io non capivo e non sapevo cosa fosse successo ... sono rimasto di sasso impietrito ... era la prima volta che ciò mi accadeva ...

Lei corse subito nel bagno e preso un asciugamano cominciò ad asciugare ed a pulire tutto ciò che quella eruzione aveva bagnato e sporcato ... asciugava le lenzuola, asciugava il mio corpo ... non ricordo più cosa avvenne dopo.

Qualche sera dopo, erano tutti a letto, tranne lei che in cucina completava di rassettare le ultime cose. La porta della mia stanza si apriva sul corridoio proprio di fronte alla porta della cucina. Quella sera l'avevo lasciata appositamente socchiusa per controllare quando tutti sarebbero andati a letto. Quando verificai che ciò era già avvenuto da un po' di tempo e che Tina aveva spento la luce della cucina e si accingeva a salire le scale che portavano nell'ammezzato per andare nella sua stanza venni fuori.

Mi guardò sorpresa. “Ho sete” dissi. Tornò in cucina, prese un bicchiere e mi versò dell'acqua. Era sempre gentile e servizievole con me. Cercava sempre di scoprire e prevenire ciò che io desideravo e talvolta mi accontentava senza che io parlassi. Forse era un poco innamorata di me. Bevvi e posai il bicchiere sul lavello. Lei lo prese, lo sciacquò e lo mise a gocciolare.

Mentre mi voltava le spalle le carezzai i capelli ... si voltò e mise un dito sulle sue labbra come per dire “silenzio”. Capì subito quello che volevo. Penso che lo volesse anche lei ... “E' pericoloso” disse sottovoce. “Non facciamo rumore” aggiunsi io sempre sottovoce. Mi fece nuovamente cenno di fare silenzio e presomi per mano spense la luce della cucina si diresse verso la scala che conduceva su, nell’ammezzato, alla sua stanza.

La scala di legno scricchiolava sotto il nostro peso e noi ci muovevamo con passo felpato, come i gatti, per non fare rumore. Arrivati su mi fece segnale di aspettarla davanti alla porta della sua stanza e andò nel bagno. Tornò con un asciugamano in mano. Entrammo nella stanza e chiuse delicatamente la porta.

Ci sedemmo sul letto e ci spogliammo nudi senza fare rumore. Guardavo il suo seno. Non era come immaginavo fosse il seno di una donna o come lo avevo visto dipinto nei quadri o nelle foto dei libri. Era strano. Innanzitutto il capezzolo non era a punta, ma al contrario era grosso e semi sferico, senza la punta sporgente al centro, che era anzi rientrata. E poi la mammella non era a forma di coppa, ma era come un grosso bitorzolo che sporgeva su una base più larga. Poi seppi che un seno così viene definito a pera.

Cercai di toccarlo. Mi bloccò la mano “no!”. “Perché?” chiesi. “se me lo tocchi mi fa male”. Non insistetti. Ci mettemmo a giocare come avevamo fatto qualche giorno prima. Un poco io accarezzavo lei, un poco lei accarezzava me. Ad un certo punto lei percepì che il mio vulcano stava per scoppiare e lo coprì con l'asciugamani. Restammo un poco così, sdraiati uno accanto all'altra, poi lo pulì accuratamente e lentamente, ed alla fine, senza far rumore, io tornai nella mia stanza.

Di tanto in tanto tornavo da lei. Aspettavo che tutti fossero a letto e che lei spegnesse la luce della cucina e dopo qualche minuto la raggiungevo nella sua stanza. Una volta eravamo distesi sul fianco, uno di fronte all'altra, uno accanto all'altra. Il mio corpo a pochi centimetri dal suo. Allungai la mano e le toccai il seno. Lei sobbalzò. Ma resasi conto che lo avevo carezzato con estrema delicatezza non disse nulla. Non si scostò. I miei polpastrelli carezzavano la pelle candida e morbida e lei si lasciava carezzare. Sotto lo strato sottile e delicato della sua pelle le mie dita avvertivano un corpo duro e sodo. La sensazione era bellissima. Le chiesi “ti fa male?” “no” rispose. Continuai così a carezzare delicatamente il suo seno ...

Una volta mentre lei era sdraiata supina sul letto io ero con il capo chino sopra di lei e con la mano le carezzavo delicatamente il seno. Ad un tratto mi chinai e lo baciai. Fu un bacio lievissimo, direi quasi casto ... Lei alzò le braccia, circondò la mia testa e la strinse contro di sé. Il contatto del mio viso con la sua pelle morbida mi procurò una sensazione dolcissima che durò per tutto il tempo che lei tenne il mio capo stretto contro di sé …


P.S – Anche questo scritto era stato messo nella Sezione "Sentimentale". Lo riporto qui per avere una organicità con tutta la narrazione.


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14 anni - I cani del pecoraio

In genere appena finiva la scuola correvo da mio nonno dove, come ho detto vivevo libero ed allo stato brado. O mi ci portavano i miei genitori con la macchina, oppure, se mio padre non poteva accompagnarmi, mi mettevano sull'autobus con la valigia e mio nonno mi veniva a prendere alla fermata.

A casa di mio nonno ogni tanto veniva mio zio e da lì si recava nella sua campagna che confinava con quella di mia madre. Io andavo con lui in macchina e scendevo davanti al cancello della campagna di mia madre, mentre lui proseguiva per la sua che si trovava poco oltre e che era molto grande (se non ricordo male circa 200 ettari).

Durante le vacanze mio padre mi lasciava libero di fare tutto quello che volevo, ma se c'era da svolgere qualche compito nell'interesse della famiglia io dovevo lasciare tutto e andare a svolgerlo. Questi eventuali compiti per me non erano assolutamente un peso, anzi ero orgoglioso degli incarichi e delle responsabilità che mio padre mi affidava. Il compito che dovevo svolgere, quando andavo in campagna, era quello di girarla tutta. Mio padre mi aveva insegnato a percorrerla in lungo e in largo e controllare tutto, ogni minimo dettaglio, controllare se gli operai avevano zappato il vigneto che veniva zappato quattro volte nel corso dell'anno (a quei tempi la coltivazione veniva fatta a mano), se avevano messo i pali di sostegno alle viti più deboli e le avevano legate per bene, se avevano spruzzato lo zolfo per evitare che l'oidio, una malattia che colpiva la vite al momento della fioritura rovinasse la produzione, se avevano irrorato con il solfato di rame contro la “perenospera” un'altra malattia delle viti.

Dovevo osservare e annotare mentalmente ogni minimo dettaglio, e poi per telefono fargli un resoconto preciso e dettagliato di tutto. Io eseguivo con scrupolo e pignoleria le sue disposizioni ed ero felice ed orgoglioso quando ottenevo la sua approvazione. Non mi lesinava i rimproveri, anzi mi tartassava di domande chiedendomi tutti i dettagli e i particolari. La sua era una inquisizione vera e propria ed io dovevo rispondere con dovizia di particolari. Poi mi dava le istruzioni sulle cose e sui lavori che dovevano essere fatti ed io le riferivo a “Peppino” che era la sua persona di fiducia che si occupava della esecuzione dei lavori.

Quando mio zio finiva di controllare la sua campagna si metteva in macchina e passava a prendermi. Io, che conoscevo più o meno il tempo che avrebbe impiegato, tenevo d'occhio la sua macchina e quando vedevo che si muoveva ritornavo verso il cancello in maniera da non farlo attendere troppo per ritornare  insieme a casa.

Una volta, io avevo già completato la mia perlustrazione e il mio controllo, ma la macchina di mio zio era sempre ferma e nel cortile non c'era alcun movimento, segno questo che non era neanche in procinto di partire. Così quella volta decisi di andarlo a trovare nella sua campagna. Scavalcai il muro che divideva le due proprietà e mi incamminai. Per raggiungere il cortile dove era posteggiata la macchina c'era da fare un percorso di circa mille metri. Lungo questo percorso si doveva costeggiare il recinto in cui erano rinchiuse le pecore del pecoraio “Calcagno”. Il recinto si trovava nella campagna di mio zio, ed il pecoraio acquistava ogni anno il diritto di pascolare le pecore in cambio di formaggi e latticini. Il pecoraio mi conosceva bene, anzi spesso avevo mangiato la ricotta calda appena fatta proprio nel casolare attaccato al recinto per cui ero abbastanza tranquillo, malgrado sapevo che i suoi cani erano molto feroci e si diceva che una volta aveva aggredito e ridotto una persona in fin di vita.

Mi incamminai e per prudenza mi tenni a debita distanza dal recinto. Dal comignolo del casolare usciva un filo di fumo, segno questo che i pecorai erano là e stavano facendo la ricotta e il formaggio. Tenevo d'occhio tutto. Ad un tratto vidi un cane nero affacciarsi sull'uscio e poi uscire lentamente, dietro il primo cane ne uscì un secondo, e poi un terzo... Mi resi conto immediatamente della situazione. Mi guardai intorno, poco distante da me c'erano due muri che si univano formando un angolo acuto. Era un ottimo riparo. Cominciai a indietreggiare lentamente e senza mai volgere le spalle ai cani, che nel frattempo erano diventati sette o otto, e correvano verso di me abbaiando, mi diressi verso quest'angolo per ripararmi. Giunsi appena in tempo che i cani mi furono addosso. Il muro mi proteggeva alle spalle e ai fianchi per cui i cani li avevo solo davanti. I cani tentavano di aggredirmi e di mordermi, ma io con le mani, con i piedi e con un legno che avevo raccolto riuscii a tenerli a bada. Nel frattempo uscirono i pastori dal casolare e, avendomi riconosciuto, corsero a richiamare ed a disperdere i cani. Riuscii a non farmi mordere, ma i pantaloni me li avevano strappati.

Il pecoraio si disse dispiaciuto dell'incidente, mi portò dentro il casolare e mi offrì una grande scodella di ricotta calda, che mangiai tutta, fino all'ultima goccia, forse per smaltire la paura. In effetti mi ero preso una gran bella strizza!

P.S - Questo scritto era stato messo nella Sezione "sentimentale". Lo riporto qui per avere una organicità con tutta la narrazione.

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LE REGOLE E LE ABITUDINI

La mia vita, ma credo che ciò avvenga per tutti gli uomini, era scandita da regole ed abitudini. Intendo per regole quelle a cui ero obbligato a sottostare e che non dipendevano dalla mia volontà, mentre chiamo abitudini quelle che io stesso sceglievo di seguire e che, se avessi voluto, sarei stato in grado di cambiare.

Se l’alzarsi presto la mattina, inizialmente era una regola, perché era necessario andare a scuola, perché questo facevano tutti in casa, poi è diventata un’abitudine a cui ancora oggi non riesco a sottrarmi. È eccezionale che io mi alzi tardi la mattina, devo star male perché ciò accada. Anche la colazione abbondante la mattina che inizialmente era una regola impostami da mia madre, poi è diventata un’abitudine che mi è rimasta ancor oggi. Anche l’esser parco con il cibo e il non lasciar nulla nel piatto è stata una regola impostami da mia madre che si è trasformata in abitudine alla quale, ancora oggi non riesco a sottrarmi. Mia madre mi ripeteva sempre, quando non volevo mangiare qualche pietanza che avevo cominciato perché non avevo più fame, che tanti bambini avrebbero mangiato gli avanzi che io lasciavo nel mio piatto, per cui se in quel momento non mi sentivo di mangiarlo lo avrebbe conservato perché lo mangiassi la sera o il giorno dopo.

Mi raccontarono la seguente storia e non ho alcun dubbio che sia assolutamente vera. Il figlio maggiore di mio nonno studiava medicina a Padova. Una volta tornò a casa e quel giorno per il pranzo erano state cucinate lenticchie. Mio zio disse che non ne voleva. Tutti rimasero attoniti in silenzio perché era un fatto inimmaginabile. Mio nonno senza scomporsi chiamò la persona di servizio e disse di portare via il piatto di lenticchie e di conservarlo nella credenza. La sera quel piatto ricomparve sul tavolo davanti a mio zio il quale ripeté che non voleva mangiarle. Anche stavolta mio nonno chiamò la donna e fece portar via il piatto, e tutte le volte che mio zio si sedeva a tavola trovava il piatto davanti a sé che successivamente veniva portato via su ordine di mio nonno, anche quando, dopo alcuni giorni aveva fatto la muffa e faceva cattivo odore in quanto le lenticchie si erano alterate ed erano diventate acide. Ciò si ripeté fino alla settimana successiva quando fu sostituito da un nuovo piatto di lenticchie uguale a quelle che erano state cucinate per tutta la famiglia. Mi raccontarono che la seconda volta mio zio mangiò le lenticchie senza fiatare.

Sia in casa mia, ma prevalentemente in casa di mio nonno io divenni un buongustaio. Mia madre cucinava bene, ma mia zia era una cuoca eccezionale e poi mi viziava con cibi estremamente prelibati e raffinati, cucinati con le cose genuine che si trovavano in casa. E per giunta variava le pietanze sempre nuove e diverse. Ricordo un dettaglio che può apparire di poco conto, ma che è indicativo dello stile di vita che la famiglia conduceva. In casa di mio nonno non mancava nulla, ma tutto era assolutamente misurato e senza sprechi. Ogni giorno, prima del pranzo o della cena la persona di servizio scendeva in cantina e riempiva la bottiglia di vino personale di mio nonno, spillandolo direttamente dalla botte, che veniva messa a tavola davanti al suo posto. Mio nonno beveva pochissimo vino, infatti aveva una bottiglia piccolissima, che serviva solo per lui, grande più o meno quanto un’ampolla dell’oliera, ed alla fine del pasto ce n’era ancora circa metà, ma il vino doveva essere sempre appena spillato dalla botte. Poi, occupandomi della campagna di mia madre scoprii quanta differenza passa tra il sapore e il profumo del vino appena spillato dalla botte e quello conservato nella bottiglia. Credo che siano poche le persone che hanno potuto apprezzare questa differenza. È questo il motivo per cui, io, quando mi occupai della campagna di mia madre (a quell’epoca non bevevo vino) volevo sempre assaggiare il primo vino che veniva spillato dalla botte. Oltre al vino la persona di servizio saliva dalla cantina su indicazione della zia un pezzo di formaggio fresco o stagionato, oppure di tuma o di primo sale, oppure un pezzo di salame o di capocollo, oppure di pancetta o di lardo, ogni volta una cosa diversa e quanto bastava per quel pasto per la famiglia e per la servitù che mangiava nel tavolo accanto le stesse identiche cose che venivano poste sul tavolo di mio nonno. L’abbondanza c’era, ma tutto veniva consumato in maniera parsimoniosa e principalmente senza alcuno spreco.

A questo proposito voglio ricordare un episodio del quale, malgrado riguardi la mia persona, ho un ricordo piuttosto vago e che mi permane nella memoria perché mi è stato raccontato più volte. Ero sceso in cantina con la donna di servizio che aveva appena riempito di vino la bottiglia di mio nonno, il cui collo era ancora ricolmo di schiuma ed era andata nella dispensa, io attirato dal profumo del vino bevvi quella schiuma e mi ubriacai. Avevo otto anni. Dovettero salirmi al piano superiore in braccio perché non mi reggevo in piedi e parlavo, anzi sparlavo, in continuazione, quasi in un delirio continuo e furono costretti a portarmi a letto di peso. Quella è stata l’unica volta, in vita mia, che mi sono ubriacato.

Nei miei ricordi, mi sovviene ancora un’altra cosa. Si tratta di argomenti di cui difficilmente si parla, anzi si tacciono completamente, anche se sono a tutti note. Se qualcuno non è interessato, oppure ritiene che non era il caso di parlarne, può tranquillamente astenersi dal leggerla o dissentire (non l’avrò a male). Comunque, forse chi mi legge avrà capito che io non sono una persona che può essere inquadrata o irreggimentata entro determinati canoni comuni, io sono uno che cerca di non trascendere e che si attiene a determinate regole, ma non esistono tabù per me. Così vado avanti.

Mia madre fin da ragazzo mi ha spiegato cosa era una vita sana e igienica. In tutti i sensi e sotto tutti gli aspetti. E a questo proposito mi torna alla mente quello che mi raccontò una volta una ragazza la cui madre le raccomandava sempre di usare la spugna quando faceva il bidet e mai usare le mani nude (beh, quello che sua madre gli impedì di conoscere … poi glie lo spiegai io).

Allora, torno al mio discorso. Mia madre mi ripeteva sempre che il nostro corpo è una macchina, più perfetta di un orologio, che se utilizzata sempre bene e in maniera ordinata, ma anche senza lasciarla arrugginire sarebbe durata a lungo perfettamente funzionante. Mi spiegava che una prima regola è una alimentazione sana ed equilibrata. Queste cose le approfondii poi, dal punto di vista scientifico, all’università, ma i fondamenti me li aveva già dati mia madre, quando ancora ero ragazzo. Mi spiegò che quando noi andiamo in bagno (facciamo la cacca) espelliamo dal nostro corpo gli avanzi e le scorie (quello che non serve più) di quello che abbiamo mangiato. E così come è importante portare via di casa la spazzatura ogni giorno, anche per il nostro organismo era importante liberarsi regolarmente di tutto quello che non serve o avanza. Per cui anche questa era una operazione di igiene personale a cui bisognava abituare l’organismo a compiere tutte le mattine assieme alle altre.

Mi spiegava anche che così come tutti i rifiuti alimentari, in genere inizialmente non hanno un odore nauseabondo, ma la puzza si manifesta successivamente quando iniziano i fenomeni di fermentazione e putrefazione a cui tutte le sostanze organiche vanno incontro con il tempo, anche le nostre feci non necessariamente devono emanare cattivo odore (o comunque un odore troppo intenso) e che se questo avviene il motivo è perché nel nostro organismo è avvenuta qualcosa di non normale o che non ha funzionato bene. Mi spiegava che io dovevo essere attento a questi fenomeni e capirli, in quanto ero il solo che poteva prestarvi attenzione e poteva correggerli o, meglio ancora, prevenirli. Per prima cosa dovevo imparare a capire quale era la regola e quale era l’alterazione. La regola era un giusto equilibrio che stava al centro tra due estremi e che l’alterazione poteva avvenire in un senso oppure nell’altro. Se era presente una alterazione dovevo percepirne i segni e i sintomi e capire verso quale estremo era avvenuta l’alterazione e di conseguenza quale era la direzione da dare per correggerla.

Ovviamente il problema di cui sto parlando è quello alimentare. Ma le stesse regole e le conseguenti alterazioni, con meccanismo più o meno analoghi, avvenivano e si manifestavano in tutti i fenomeni naturali, dovevamo essere noi a prestarvi la dovuta attenzione per scoprirli e capirli. Non si può immaginare quanto tutto ciò mi sia stato utile nella vita. Io ho sempre detto che, specialmente da ragazzo, ho vissuto una vita libera e quasi allo stato selvatico. Ma attenzione non ho mai detto che ho vissuto una vita disordinata e senza regole. La maggior parte delle persone ritengono che i ragazzi debbano crescere liberi, e in ciò hanno ragione, ma interpretano questa libertà come mancanza assoluta di regole, e in ciò hanno torto, grave torto. Questo loro concetto è frutto di ignoranza. La natura selvatica, a cui sono stato abituato io, ha regole ancora più rigide di quelle che la famiglia o lo stato ci impone. Il fatto che io avessi poche regole, significava che ero assolutamente obbligato a rispettarle (e le ho sempre rispettate). Il fatto che se mi ferivo giocando non venivo rimproverato significa che i miei mi riconoscevano anche il diritto a correre determinati rischi, che io stesso dovevo imparare a valutare, ma ovviamente avere anche conoscenza delle conseguenze che ne potevano derivare, e che dovevo necessariamente patire, perché ogni cosa che noi facciamo sempre, dico sempre, ha un suo prezzo da pagare.

Ma torniamo all’argomento principale che mi ha portato in questa discussione, cioè l’alimentazione. Mia madre mi spiegò con parole semplici e comprensibili (all’università me lo spiegarono scientificamente) che gli alimenti base sono tre: proteine, carboidrati e grassi e che qualunque organismo (non solo umano, ma anche animale o vegetale) ha necessariamente bisogno di tutti e tre per vivere. Mi fanno ridere quelli che tolgono completamente i grassi dalla loro dieta: è ignoranza o peggio imbecillità (è chiaro che non è mia abitudine usare mezzi termini e che se devo dire ciò che penso non vado troppo per il sottile). Quanto sto dicendo non significa che ci si debba abbuffare di grassi, si tratta di sapere individuare (come mi ha insegnato mia madre) la giusta misura (che sta nel mezzo tra i due estremi, il molto da una parte e il poco dall’altra) e che è adatta a me ed al mio organismo, completamente diverso da quello di tutti gli altri. Questa è un’altra cosa importante che mi ha insegnato mia madre: l’individualità della persona, nessuno è uguale ad un altro. E ciascuno deve conoscere se stesso per avere cura al meglio di se stesso, sia come persona fisica, che come mente intellettuale.

Mi sono fatto trascinare nuovamente fuori rotta dalle mie divagazioni. È come quando sei al timone di una barca a vela, e devi seguire una rotta specifica, ma talvolta ti piace farti trascinare dal vento un po’ fuori dalla tua rotta, perché sai che in qualunque momento sei in grado di riprenderla perfettamente, perché sei tu che l’hai scelta, sei tu che l’hai tracciata, sei tu che vuoi seguirla. Si tratta di un gioco che vuoi fare, di una licenza che vuoi prenderti, per rendere meno monotono il percorso. Quindi dicevo che mia madre oltre a spiegarmi che i grassi sono il giusto “condimento” (lei li definiva così per farmi capire meglio, ricordo che io ero un ragazzo in crescita: 8-15 anni) da dare ai carboidrati e alle proteine e che come condimento dovevano essere usati in maniera appropriata e con parsimonia, mentre l’alimento base erano le proteine che davano al mio organismo la sostanza necessaria alla formazione plastica del mio corpo (massa) e gli idrati di carbonio che davano l’energia necessaria per farlo muovere. Pertanto la giusta dose variava da periodo a periodo, da momento a momento. Durante la crescita il fabbisogno delle proteine era maggiore e pertanto era lei che provvedeva con l’uovo la mattina in aggiunta al latte e la carne due volte al giorno, mentre se facevo sport o gite in montagna dovevo dare la prevalenza agli zuccheri che mi fornivano energia ed era sempre lei che mi metteva nello zaino le tavolette di cioccolata per me e per i miei amici.

Ma come facevo io a capire se la mia dieta era sbagliata e principalmente perché era sbagliata e come dovevo correggerla. Dovevo sapere osservare i fenomeni che accadevano dentro di me, dovevo conoscere perfettamente il mio organismo. Proprio come fanno Schumaker e Valentino Rossi che sono i migliori meccanici della propria macchina o moto. Son partito dicendo che non necessariamente le feci devono essere particolarmente puzzolenti e questa situazione è già il primo indice di una alimentazione corretta, cioè equilibrata. Il secondo indice è la consistenza: devono essere sufficientemente solide, ma non troppo e neanche liquide. La loro espulsione all’esterno deve avvenire con regolarità (pensate a quanta cura mettono le case automobilistiche nella costruzione delle marmitte di scarico delle macchine e delle moto). E questo me lo ha insegnato inizialmente con una regola: la mattina non potevo uscire dal bagno se non ero andato di corpo, e se ci mettevo molto tempo, pazienza, vuol dire che mi dovevo alzare prima perché c’era un’altra regola da rispettare: a scuola non dovevo arrivare in ritardo.

Poi mi insegnò a riconoscere, osservando tutti questi aspetti, regolarità, consistenza, colore, odore, se l’intestino aveva un buon funzionamento o meno e di conseguenza se l’alimentazione era stata corretta o meno. Mi spiegò e mi insegnò a riconoscere se c’era un eccesso di idrati di carbonio (feci più puzzolente per le eccessive fermentazioni e di conseguenza riconoscere l’odore dalla fermentazione) oppure di proteine (feci più morbide e proprio con l’odore caratteristico della putrefazione da distinguere da quello precedente).
Non mi dilungo su questo. So bene che l’argomento è poco piacevole. Ma ho voluto dare, a chi ha voluto seguirmi fino alla fine, spunti di riflessione anche su questi argomenti.

Un caro abbraccio a tutti.

Victor

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Altro / 023 - Pagine dal Diario di un Ragazzo felice - I maiali
« il: Febbraio 24, 2012, 12:21:20 »

I MAIALI

Uno dei maiali che veniva allevato nella stalla, in uno stabulario tutto per sé, era di mio nonno. Gli altri appartenevano al pecoraio ed anche ad altre persone che abitavano nelle vicinanze e lavoravano per mio nonno alle quali lui concedeva la possibilità di tenerli ed allevarli nell’ovile. Il maiale di mio nonno la sera riceveva anche lui la sua razione di siero, ma la mattina, assieme alle galline mangiava il suo pastone di crusca e durante il giorno gli avanzi del cibo della casa, gli scarti rimasti della lavorazione della frutta e della verdura e inoltre determinati ortaggi e frutti che venivano coltivati nell’orto appositamente per la sua alimentazione. Era un maiale nero dei Nebrodi. A quei tempi tutti i maiali appartenevano a questa razza. Una volta l’anno veniva macellato. Il giorno era stabilito con molto anticipo e tutta la famiglia si preparava all’evento preparando ed organizzando tutto l’occorrente sia in casa, che nel cortile grande, dove avveniva la macellazione. Di buon mattino arrivava il macellaio, con tutti i suoi attrezzi. Il maiale veniva prelevato dallo stabulario e portato nel cortile. Ricordo che un anno un maiale molto grosso riuscì a scappare più volte, prima di essere posto sul banco dove doveva essere macellato. Appena sgozzato, il sangue veniva raccolto in un recipiente e veniva fatto bere ai bambini pallidi e anemici. Mio nonno lo faceva bere ai figli delle persone che lavoravano per lui. Anche io l’ho bevuto. Non so perché, ma il ricordo della lavorazione del maiale è piuttosto vago nella mia mente. Non è così chiaro come la lavorazione del formaggio. Probabilmente perché vi ho assistito solo poche volte. La sua lavorazione in casa durava più giorni e del maiale si conservava di tutto. Le costate tagliate in parte venivano consumate in casa e in parte utilizzate per fare salciccia e salumi da conservare (tanti e di tutti i tipi). Si faceva il “capicollo”, la “sapissata”. Si faceva il lardo e la pancetta arrotolata, si conservava la cotenna, che si aggiungeva ai legumi durante la cottura, si scioglieva la sugna con la quale si riempivano delle vesciche di capra per tenerla conservata al riparo dell’aria altrimenti diventava rancida. Insomma del maiale non si sprecava nulla.

Ogni tanto si ammazzava qualche capra o qualche pecora. La cosa più strana che ricordo era il meccanismo con cui veniva scuoiata e recuperata la pelle. Una volta ucciso l’animale, ancora caldo, si infiggeva una canna all’estremità di una gamba e ci si soffiava dentro. Quest’aria immessa con forza penetrava in tutto il tessuto sottocutaneo separando la pelle dalla carne sottostante. L’animale si rigonfiava come un pallone ed alla fine veniva scuoiato.


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